Terni: disperata Villa Palma

La Villa nel 1930


 Documento esclusivo

In località Palmetta, nelle immediate vicinanze di Terni, sorgeva la cinquecentesca Villa Palma, molto importante per antichità e per il suo autore: Antonio Sangallo il Giovane. Villa Palma fu realizzata sotto commissione della famiglia Spada subito dopo l’esecuzione del palazzo cittadino, come residenza estiva. Il complesso comprende il palazzo padronale e due edifici laterali più bassi. L’edificio principale è di pianta rettangolare, elevato su tre piani e concluso, alle estremità da due torrette gemelle.
La parte centrale del fronte è caratterizzata da arcate tripartite, aperte al piano terra e tamponate ai due piani superiori con finestra rettangolare al centro. Gli altri prospetti sono composti in modo diverso tra loro: a tre assi di aperture con portone al centro il fianco e a quattro assi di aperture senza ingresso al centro, il retro. Tutti i prospetti sono armonizzati da doppie fasce marcapiano e paraste. Il palazzo è concluso da cornicione a mensole che si ripete per tre volte sulle torrette. All’interno il palazzo ha un’ interessante scala ad emiciclo decorata da nicchie e statue. Il piano nobile è ricco di sale di rappresentanza affrescate e alcune riaffrescate nel XIX secolo da Antonio Calcagnadoro, artista locale.

Al palazzo si affiancano, come ali, due edifici bassi, stretti e lunghi formando con il corpo della villa una forma ad "U". Questi, inizialmente loggiati, ospitavano la casa del custode ad oriente, le cucine, i magazzini la limonaia e la cappella, ad occidente. L’ala con la cappella ha una larghezza maggiore rispetto all’altra e racchiude un piccolo cortile interno. La cappella ha accesso dall’esterno, ha una facciata tripartita da lesene con portoncino ad arco e piccole finestre quadrate ai lati. In sommità , si aggiunge un fastigio tripartito con cimasa mistilinea e timpano centrale.

All’interno della "U" formata dagli edifici, in passato si sviluppava il giardino all’italiana, disposto su due livelli collegati da due scalinate semicircolari simmetriche. Il primo ripiano era ornato da aiuole di bosso e varietà floreali, il secondo da vasche e fontane. Tra le essenze arboree spiccano grandi palme che probabilmente hanno dato il nome al complesso. Sul retro esisteva un altro giardino più semplice, a forma semicircolare, incorniciato da grandi alberature che proseguono nei due monumentali viali d’accesso di cipressi e alloro. Ai margini del giardino all’italiana, si estende per due ettari il parco costituito per lo più da lecci

Passata da una famiglia nobile all’altra, Villa Palma attualmente è di proprietà del Comune di Terni e versa in condizioni disperate.

Religione insanguinata, religione della Patria



Religione insanguinata, Religione della Patria


La Religione della Patria nasce nel corso della Prima Guerra mondiale, vi è alla base un  sentimento di comunanza  tra i combattenti che discende  dall’aver per anni condiviso la realtà di comunità di vita e di morte delle trincee,  fu leva per abbattere le distanze dettate agli italiani dalla diversa origine di ceto, di classe, geografica. Sotto i colpi della  propaganda nazionalista dilagante in tempo di guerra, i combattenti si trasformarono “in credenti” in un patto di unità e solidarietà tra chi aveva sofferto le stesse esperienze.  Un vincolo basato sulla prossimità e disinteressato costituito dal senso dell’onore del servizio reso in guerra, dal coraggio, dalla fede nei valori in nome dei quali le sofferenze imposte dallo sforzo bellico sono state accettate dai combattenti. Frasi latine e iscrizioni di vecchi stemmi polverosi diventano, grazie a D’annunzio, formule magiche per infiammare gli animi di amore per la patria, esorcismi per garantirsi una sorta di magica immunità. S’inaugura un nuovo stile di vita che prevede anche il gesto incosciente che trascende il presente..  “Avrebbe potuto bombardare Vienna – scrive il Times di D’Annunzio – Forse i Tedeschi potranno pensare che questa non è guerra ma neppure possono negare che ciò è magnanimo è magnifico”.  




Questo mondo non basta

Terni: "Il denaro pubblico sarà trattato come sacro al bene del popolo"







"Il danaro pubblico sarà trattato come sacro al bene del popolo".
Elia Rossi Passavanti


Il Giornale d’Italia, 31 marzo 1924

Terni: “Un corteo di oltre ventimila persone con trenta musiche e centinaia di bandiere ha percorso le vie della città, tra l’entusiasmo delirante della folla che faceva ala al suo passaggio. Dalle finestre sono stati gettati a piene mani fasci di fiori sull’eroico combattente che G. D’Annunzio predilige tra i suoi più nobili e più puri legionari.”. In piazza Vittorio Emanuele, l’attuale piazza della Repubblica, “davanti a una folla immensa”, Elia Rossi Passavanti pronuncia “un’orazione semplicemente meravigliosa, strappando le lacrime di commozione ed ovazioni frequenti, interminabili…”. “Da questa città – risuonante di opere audaci – forgiatrice di ogni tempra, generatrice fulminea, balenante di energie vitali e mortali, e da un croscio profondo di una fusione magnanima, deve uscire l’Italia della pace e del lavoro. Uomini usi a tutto osare, conoscitori del dolore e degli stenti, della debolezza e della forza, delle potenze note e ignote, d’angoscia in angoscia, di errore in errore, di timore in timore, di presagio in presagio, di preghiera in preghiera, ci siamo sollevati alla santità di questo ternano mattino. Accendiamo, accendiamo l’immensa fornace o popolo mio, o fratelli, e che accesa resti per trenta secoli e che il fuoco fatichi, sino a che tutto il metallo si strugga, sino a che la colata sia pronta, sino a che l’urto del ferro apra il varco al sangue rovente della rinascita e della salvazione…”.


Elia Rossi Passavanti fu eletto alla Camera dei Deputati con grande suffragio, giurò il 24 maggio, aveva 28 anni.






                                                  "Inno del sole"
                                      Pietro Mascagni  su libretti  di Luigi Illica

17 marzo un compleanno per l'Italia






L'Italia non ricorda più il suo compleanno. Nacque il 17 marzo del 1861 in Torino, con la proclamazione del Regno d'Italia, Non nacque forse sotto i migliori auspici, e non tanto per ragioni di superstizione, perché vide la luce un Diciassette. né tanto per ragioni stagionali, perché nacque marzaioia e del mese d'origine ereditò l'instabilità. Ma per ben altro; perché quando nacque era uno stivale con un buco al centro, senza Roma. E nacque a Torino da un Sovrano che forse non ebbe il buon gusto di proclamarsi primo re d'Italia, preferendo restare Vittorio Emanuele II, come se continuasse un po' esteso il suo regno "piemontese". Forse non fu neanche bello nascere davanti a un Parlamento che nemmeno formalmente rappresentava la sovranità popolare, ma solo il due per cento degli italiani: quattrocentomila votami su venti milioni e passa d'italiani. Ma così è la storia, se vi pare. E non solo quella d'Italia.
Il genetlìaco nazionale, di solilo, passa sotto silenzio, e non per una questione di buon gusto verso le signore dì età avanzata. Tanto più che l'Italia, una signora tanto vecchia non è; e se ha raggiunto da un pezzo la terza età, le manca ancora la maturità. Vive da decenni in una specie di adolescenza fossile, in cui ha bisogno nei momenti decisivi di essere accompagnata dai genito­ri. Che un tempo erano magari la Chiesa o lo Slato assistenziale e omni facente, l'Alleato paterno o patrigno, ed oggi sono l'Europa e il Mercato.
Comunque sia, non è bello vivere in un Paese che non festeg­gia il suo compleanno. Tutti i paesi civili e incivili hanno una loro festa nazionale. Legata al giorno dell'Unità o alla proclama­zione dell'Indipendenza, ad una guerra vìnta o ad una carta costituzionale.


Da noi le feste che c'erano ce le siamo giocate strada facendo in una gara d'amnesie e fariseismi. Si cominciò col depennare il Natale di Roma, ritenuto troppo lontano, troppo retorico-imperiale ed anche fascista. Seguì a ruota il 4 novembre, ridotto al rango di celebrazione itinerante, come un nomade con roulotte, spostato alla prima domenica novembrina. Scese in disuso anche il 2 giugno che era la festa della Repubblica ma conservava sotto traccia una stratificazione che ammiccava alla natura anfibia degli italiani, ricordando un po' la festa monarchica dello Statuto albertino del 4 marzo. Restò in piedi solo la festa che non celebrava l'Unità d'Italia ma la sua divisione, il 25 aprile. Ma anche la festa della Liberazione è scesa in sordina, soprattutto da quando gli stessi storici antifa­scisti e partigiani hanno accettato di definirla una guerra civile. E adesso? Niente, siamo un paese dì trovatelli o di arteriosclerotici che non ricordano nulla. Certo, non sono le feste a garantire l'identità nazionale di un Paese; anche se il nostro, per lunghi secoli, fu dominato dalla triade di feste, farina e forca, nipotine del romano panem et circenses. Ci vuole ben altro per ricostrui­re il tessuto sfibrato di una nazione. Verissimo. Ma da qualche parte si deve pure incominciare, anche con un simbolo. E se per le riforme ci vogliono i cataclismi  i dosaggi e le contorsioni virtuose di un sistema fondato sulla mediazione, per proclamare una festa basta un po' meno. Anche un'esternazione del Capo dello Stato. O meglio, un decreto presidenziale.
Potrebbe essere quella la data, il 17 marzo, in cui, bene o male, nacque l'Unità d'Italia. Potrebbero essere altre. Ma non sarebbe male cominciare dal Risorgimento. Non abbiamo mai amato la retorica che si spese intorno al Risorgimento, ma fu quello il primo atto politico della Nazione. Ed è quello un punto di partenza un po' più distante di altri, e dunque sottratto alle polemiche e alle intemperie del nostro secolo. Ed anche più ade­guato, per ragioni di età e di clima, al nostro tricolore e al nostro inno nazionale.  La nostra storia è stata scandita al suo canto, e dobbiamo tenercelo. Anche per rispetto di quanti, e non furono pochi, fecero dell'Inno di Mameli la colonna sonora della propria vita e persi­no della propria morte. Insomma, fuor di anticaglie retoriche,   è il caso di ripristinare il compleanno nazionale.

Se coinciderà con la fine dell'Italia sarà perlomeno l'ultima volontà in articulo mortis di un Paese, la sua estrema unzione per darle onorata sepoltura. Se invece si accompagnerà alla ripresa di quell'identità nazionale che altrove fiorisce, allora sarà ii simbolo e la sveglia per un paese che non vuole aspettare il futuro come la bella addormentata nel bosco. Anzi nel sottobo­sco.  

Sentinelle d'Italia riprendete il vostro posto






Compagni, non è più tempo di parlare ma di fare; non è più tempo di concioni ma di azioni, e di azioni romane.
Se considerato è come crimine l'incitare alla violenza i cittadini, io mi vanterò di questo crimine, io lo prenderò sopra me solo.
Se invece di allarmi io potessi armi gettare ai risoluti, non esiterei; né mi parrebbe di averne rimordimento.
Ogni eccesso della forza è lecito, se vale a impedire che la Patria si perda. Voi dovete impedire che un pugno di ruffiani e di frodatori riesca a imbrattare e a perdere l'Italia.
Tutte le azioni necessarie assolve la legge di Roma.

Gabriele D'Annunzio





                                                    CAMICIA ROSSA 
canto popolare dal concerto GARIBALDI L'EROE DEI DUE MONDI, 5 luglio 2008 Castello Cavour Santena, Coro Michele Novaro, direttore Maurizio Benedetti, pianista Carlo Matti, testi Giuseppe Vettori, attore Mario Brusa.








Adolescenti che si travestono da bandiere americane in attesa dell'asta.







Nati e cresciuti "a pane e guerra" made in USA, evergreen sempre in auge tra gli studios globalizzanti di Hollywood, rimbambiti da videogiochi truculenti e reportage a senso unico, dove è sempre chiaro chi siano i buoni e chi i cattivi. Dove ogni pellicola si chiude con le stelle e strisce che garriscono al vento e la giustizia americana trionfa sempre.
Gianni Dessi



Quanto  l'Italia sia diventato un paese surreale, una colonia,  una Nazione allo sbando te ne accorgi dalle aspirazioni dei suoi adolescenti che si travestono da bandiere americane in attesa dell'asta. Cosa c'è da stupirsi da chi è cresciuto in un regime dove l'effetto martellante della propaganda del modello occidentale occupa qualsiasi spazio e contemporaneamente distrugge ogni barlume di identità nazionale? Tutte le salmerie mediatiche sparano con violenza il loro messaggio univoco.  Pubblicità, cinema, tv privata e pubblica, radio, giornali di destra e di sinistra parlano un unico linguaggio, quello dell'americanizzazione. Chi aveva  pensato che il digitale terrestre e la conseguente crescita di canali e capacità di offerta potesse contribuire ad una maggiore libertà si sbagliava. Abbiamo solo moltiplicato l'immondizia e la potenza del messaggio univoco. I  giovani italiani così ben "educati" al modello americano sembrano pronti per essere messi in divisa. Multinazionali, brand, franchisig, grandi magazzini, produzioni cinesi invadono con milioni di pezzi gli scaffali dell'abbigliamento,  l' unico cruccio è cosa indossare con la bandiera americana per apparire meglio come soldatino alieno. Giacche, magliette, mutande, straccali, scarpe, borse, borsette, polo, giacchini, gilet, orologi, sciarpe c'è solo l'imbarazzo della scelta. La bandiera americana è anche a buon mercato con pochi euro può essere tua se vai da un cinese o nei grandi magazzini, ma se proprio ci tieni ad essere un soldatino veramente elegante della provincia dell'impero, somigliare ad un cadetto di West Point non devi preoccuparti, puoi optare per una capo di alta moda (sic) e allora la bandiera americana ti potrà costare qualche centinaio Euro. L'effetto vale bene la spesa.  Poi vuoi mettere un bel giubbotto della polizia lacustre della città Omer nello stato del Michigam che emozione.

Nelle foto alcune proposte per inverno 2013 di una famosa catena di abbigliamneto italiana















La Torre e Girone: a Roma sfila lo sdegno e il coraggio


"La speranza ha due bellissime figlie: lo sdegno e il coraggio. Lo sdegno per la realtà delle cose, il coraggio per cambiarle."
Neruda



Marina Militare Italiana - Banda Centrale - Inno Btg. S.Marco (S.Barbara 2008)

Alla mia Nazione




di Pier Paolo Pasolini



Non popolo arabo, non popolo balcanico, non popolo antico ma nazione vivente, ma nazione europea: e cosa sei? Terra di infanti, affamati, corrotti, governanti impiegati di agrari, prefetti codini, avvocatucci unti di brillantina e i piedi sporchi, funzionari liberali carogne come gli zii bigotti, una caserma, un seminario, una spiaggia libera, un casino! Milioni di piccoli borghesi come milioni di porci pascolano sospingendosi sotto gli illesi palazzotti, tra case coloniali scrostate ormai come chiese. Proprio perché tu sei esistita, ora non esisti, proprio perché fosti cosciente, sei incosciente. E solo perché sei cattolica, non puoi pensare che il tuo male è tutto male: colpa di ogni male. Sprofonda in questo tuo bel mare, libera il mondo.








 
 
 
Alla mia Nazione
 
 da "La Religione del mio tempo" dove il tema centrale è la latente omologazione del neo-capitalismo, la desistenza rivoluzionaria e il conseguente vuoto esistenziale.
 
interpreta Vittorio Gasman
da PensieriParole <http://www.pensieriparole.it/poesie/poesie-d-autore/poesia-17863>

Sentinelle d'Italia riprendete il vostro posto

 
Sien mute le lingue, sien pronte le braccia;
Soltanto al nemico volgiamo la faccia,
E tosto oltre i monti n’andrà lo straniero
Se tutta un pensiero — l’Italia sarà.
     Non basta il trionfo di barbare spoglie;
Si chiudan ai ladri d’Italia le soglie;
Le genti d’Italia son tutte una sola,
Son tutte una sola — le cento città.
          Va fuora d’Italia, va fuora ch’è l’ora,
          Va fuora d’Italia, va fuora, o stranier!






                                                
 Inno di Garibaldi

Arturo Toscanini conducts the NBC Symphony Orchestra in the Garibaldi Hymn. Walter Toscanini, the Maestro's son, is heard in the introduction. From the NBC broadcast of September 9, 1943.


Patrioti di tutta Europa unitevi






"A noi ci hanno insegnato tutto gli americani.
Se non c'erano gli americani... a quest'ora noi eravamo europei...".


Giorgio Gaber 

Diventa ciò che sei 
Friedrich Nietzsche


 di Marcello Veneziani
Due principi ormai si fronteggiano sulla scena mondiale, venuto meno il comunismo: uno. prevalente, che pone il traguar­do dell'umanità nel cosmopolitismo, nella città planetaria. E il Progetto ethos mondiale di cui parlava in un suo  libro il teologo progressista Hans Kung e che trova sulla stessa linea, a differenti livelli, un variegato panorama: dai pacifisti umanitari, ai cattolici democratici, dai liberal-progressisti ai socialdemocra­tici, dai neo-comunisti fino ai liberal-capitalisti. Sullo sfondo non mancano naturalmente circoli finanziari e massonici, multi­nazionali e grandi industrie protese verso la globalizzazione del mercato. Il progetto è far seguire a questo mondialismo degli affari, un mondialismo etico, che trovi fondamento nei diritti dell'uomo ed espressione nel sogno di un'umanità liberata dalle frontiere terrene e ultraterrene. Pendant e sottofondo necessario di questa visione "ecumenica" è l'individualismo, ovvero la con­siderazione dell'uomo come entità irriducibile ed autonoma rispetto ad ogni ambito; e dunque errante, facilmente spostabile, inappartenente. Sviluppo altrettanto necessario è il progetto di un governo mondiale, una sorta di Super-ONU che affianchi il governo effettivo della finanza mondiale, dandole un supporto organizzativo ed anche un supplemento etico di anima. Un governo mondiale umanitario, verde quanto basta, pacifista fino ad un certo punto, inflessibile nel soffocare le zone difformi o i modelli culturali che incrinano questa pax annunciata.

Dall'altra parte, emerge un principio antagonista: quello che si oppone al mondialismo attraverso la rivolta comunitaria. É un principio amico, originario, e insieme nuovo che si esprime nelle società industrializzate del primo mondo, come nelle società uscite dal comunismo del secondo mondo, e infine nelle società ancora non del tutto conquistate dallo sviluppo nel terzo mondo. II suo referente, variamente indicato dalla difesa del territorio alle identità e specificità etniche, culturali e religiose, dalla tutela dell'ambiente e delle città in rovina al recupero del tessuto comunitario, fino ai fondamentalismi nazional-religiosi, è sostanzialmente l'appartenenza e la difesa di una patria. Patria intesa in senso lato, come luogo originario, come luogo culturale o cultuale, ma anche sociale e lavorativo, ambientale e linguisti­co, in cui ciascuno sì trova a casa. In questa prospettiva ciascu­no avverte di sentirsi culturalmente, naturalmente ed elettiva­mente inserito in una serie di ambiti comunitari, dalla famiglia alla città, alla comunità di lavoro, alla regione, alla nazione. E avverte questa appartenenza come un radicamento a cui non può fare a meno, se non facendo a meno di se stesso. E dunque difende la sua patria. Ma la difende non attaccando le patrie altrui, patrie territoriali o ideali, e perfino ideologiche; ma al contrario, difendendo nella propria patria la patria di ciascuno. Anzi, la garanzia dì vita della mia patria è la garanzia di vita della patria di ciascuno, e viceversa. 
Non sì tratta dunque, come spesso ancora si fa nella nostra società frammentata ed egoistica, di contrapporre ad un principio universale come il mondialismo, un principio particolare, come la propria diversità. Sarebbe un discorso debole, perdente, una pura fuga nel microcosmo e nel privato, in definitiva omogenea e funzionale al mondialismo stesso, che ama accreditarsi come un supermercato in cui è possibile esporre ogni merce. Si tratta invece di passare a concepire la difesa della propria diversità, della propria identità, non come un fatto antagonistico a quello delle altre, né come un fatto a sé stante, che mira a isolarsi da un contesto generale. Ma come un principio anch'esso universale.
Ovvero, occorre passare ad una specie di intemazionale delle patrie in cui le patrie si coalizzano per difendere le proprie radici e la propria peculiarità dal comune avversario: il mondialismo che omologa, annienta e trita le diversità e concepisce solo indi­vidui nudi. Ricordiamo un appello rivolto dai movimenti nazional-religiosì russi: 

                                                  " Patrioti di tutto il mondo unitevi".


Un appello che coglie perfettamente l'unica battaglia possibile per ostacola­re la città mondiale senza volto, la poltiglia universale. "Ognì persona che rispetti la cultura e la tradizione del proprio popolo è nostro fratello" dicono gli esponenti di un movimento (peraltro inaccettabile in molte sue valenze) come il Pamjat. E aggiungono: "In Occidente esistono più di duemila popoli, ognuno con la sua cultura particolare, perche a noi, invece di questa ricchezza, viene data una pseudocithura di massa, un simile intruglio di "metalli pesanti", di pornofilm, di kolossal cinematografici e altre produzioni cosmopolite, buone solo a danneggiare ciò che resta della nostra spiritualità? L'intenzione di trasformare i popo­li in un'unica folla senza patria, facile da pilotare..."

Si tratta di superare i nazionalismi aggressivi del passato, i vecchi imperialismi coloniali, o i "patrioti" di giacobina memo­ria. Facile obiezione è far notare l'aggressività con cui si manifestano oggi i conati nazionalistici. Non si può dimenticare che alcuni patriottismi degenerano in violenze o si manifestano con punte di intolleranza, perché a loro volta hanno subito violenze. Non è stato loro concesso il diritto di manifestarsi, sono state calpestate le loro sovranità nazionali e popolari, sono stati nega­ti, spesso a suon di carri armati, i loro diritti di popolo. Si tratta allora di un'intolleranza di ritorno. L'aggressività non nasce dall'istanza patriottica ma dal fatto che è stata repressa. E quan­do viene repressa esplode assumendo a volte toni concitati e forme incontrollate. Differente è il nostro caso di paese occiden­tale, dove le patrie più che represse sono state depresse. E da qui nascono, per virtù omeopatica, semipatriottismi '"depressi" che talvolta, tramite alcune degenerazioni ecologiste e localiste, fini­scono con l'essere pure fughe nel particolare, con l'alibi che lì vi è maggiore concretezza. E con l'esito di non incrinare gli assetti del sistema ma di assecondarti. A volte vengono forniti anche surrogati di patriottismo. É il caso ad esempio del "patriottismo della costituzione" di cui parta un intellettuale tedesco progressista (ma conservatore, anzi retrivo, rispetto alla storia tedesca che cammina e travolge i muri), Jurgen Habermas. E un patriottismo che alberga anche da noi, e che vorrebbe tra­sferire il sentimento collettivo di appartenenza nell'astratto e cartaceo riconoscimento di una Costituzione liberale e democra­tica. Bisecolare vizio illuministico di far nascere le cose con decreto legge della Ragione, dalla carta; senza trarle dalla storia, dalla vita concreta e dall'anima dei popoli.
I due principi antagonistici, serbano naturalmente nello spa­zio che tra loro intercorre, una varietà di posizioni che impedisce una valutazione manichea. C'è perfino un punto di contatto: è rappresentato dall'europeismo. Nell'Europa si incrociano cosmopolitismi e patriottismi. Ma la direzione verso cui marcia­no è opposta: il mondialismo vede l'Europa come un passo per liberarsi dai nazionalismi e per marciare verso la compiuta globalizzazione del sistema: i patriottismi vedono al contrario nell'Europa la macroappartenenza ad una Patria-civiltà e la grande nascita di un soggetto forte che tuteli le specificità dal Progetto di un mondo uniforme e unipolare.   
   
La battaglia dei prossimi anni è dunque questa (Furio Colombo vede il futuro nell'alternativa tra"universalismo e tri­balismo"; e l'impegno verso cui lavorare è quello dt far com­prendere ai vari comunitarismi la loro concordia discors, la loro comune esigenza di coalizzarsi in nome del comune principio delle diversità da tutelale. Questo discorso può largamente appli­carsi, senza perdere la coerenza, anche in chiave politica e socia­le concreta. Rispetto all'onnivoro centrismo che tutto media, neutralizza e digerisce; rispetto all'egemonia del capitale che mira a rendere inorganiche le differenze per organizzare il mer­cato, le diversità politiche, sociali, sindacali e culturali, le "patrie" di ciascuno, devono coalizzarsi, cominciando a non con­cepirsi in antagonismo, superando i confini topografici di destra e di sinistra, di tradizionalismo e di progressismo. Non è il caso di sprecare le proprie energie per insultarsi fra dirimpettai di marciapiede quando il rullo compressore minaccia di spianare tutta la strada.









L' America Giorgio Gaber

Sentinelle d'Italia riprendete il vostro posto



Un ufficiale imberbe, gentile e ardito come doveva esser GOFFREDO MAMELI, si avanzò e in silenzio mi offerse due fiori e una foglia: una foglia verde, un fiore bianco, un fiore rosso. Mai gesto ebbe più di grazia, più di semplice grandezza. Il cuore mi balzò di gioia e di gratitudine. Io serberò quei fiori, come il più prezioso dei pegni. Li serberò per me e per voi, per la poesia e per il popolo d'Italia. Verde, bianca e rosso! Triplice splendore della primavera nostra!
Gabriele D'Annunzio

Fischia il sasso

Terni ha la sua "Valle de los Caidos"

 

E' la regina dei fiori che ha più spine
Elia Rossi Passavanti 

Come la Valle de los Caidos" in Spagna ricorda gli oltre 38.000 caduti di ambo le parti della guerra civile, il Monumento ai Caduti di Terni abbraccia nel nome della Patria i caduti della prima e seconda guerra mondiale, le oltre 1000 vittime civili dei bombardamenti inglesi, i combattenti della guerra di Liberazione ed i caduti della Repubblica Sociale Italiana.


 
Coraggio e Amore

A Tripoli i Turchi non regnano più Su il nostro vessillo issate lassù







 di Elia Rossi Passavanti


La Libia e La Tripolitania, erano rispettivamente la novantunesima e novantaduesima provincia d’Italia, riconosciute province d’Italia da tutti gli stati dell’Universo. E non colonie.   I problemi originati dal passaggio di sovranità fra i due stati , furono sanciti con un accordo con il primo ministro libico Ben Halim ed il Presidente del consiglio dei ministri italiano Antonio Segni, il quale  aveva compreso dolorosamente  troppo tardi la situazione degli Italiani di Libia anno 1956.
Il trattato prevedeva:
Il trasferimento alla Libia di tutte le proprietà  statali e parastatali nel Paese , fatti salvi gli edifici per far funzionare i servizi diplomatici e le scuole italiane.
La cessione all’Italia di un area, dove avrebbe fatto costruire a spese proprie un nuovo ospedale a Tripoli.
Il Governo Libico s’impegnava a garantire agli’italiani , compreso le persone giuridiche, il libero e diretto esercizio dei loro diritti , escludendo nei loro confronti qualsiasi possibilità di contestazione , anche da parte dei singoli , per fatti dell’Amministrazione italiana intervenuti alla Costituzione della stato libico .
Il trattato stabilisce il proseguimento della colonizzazione contadina e il trasferimento di proprietà quando le opere previste fossero state completate.
 Inoltre si prevedevano quali fossero le modalità per il trasferimento in Italia dei capitali e dei beni mobili degli italiani rimpatriati.
L’Italia versò alla Libia un contributo di settecento cinquantamila lire libiche, pari a cinque miliardi di lire di allora.
Nel 1970 entra in scena , con un riuscito golpe militare il colonnello El Gheddafi, il quale  confiscò tutte le proprietà degli italiani e li espulse dalla Libia, disonorando i trattati internazionali firmati tra i due paesi. A fare un elenco della portata della rapina ai danni dei nostri connazionali è lo stesso Gheddafi in un discorso a Bengasi il 5 settembre dello stesso anno: 1.5000 case , 50 fabbriche, 300 opifici, 37.000 ettari di terreno, 120 miliardi di lire  congelati nelle banche italiane.
Ma facciamo un indispensabile conteggio per i richiesti danni di guerra.
Nella Libia nel 1911 dopo tanti anni di malgoverno Turco,  edilizia, trasporti, scuole, organizzazione sanitaria , industria erano pressoché inesistenti. E, l’agricoltura era limitata alle zone di facile coltivazione, nei pressi dei pozzi, condotta con mezzi assolutamente primitivi. Nelle regioni interne aveva un certo sviluppo la pastorizia , nelle città un modesto artigianato mentre il commercio  era generalmente appannaggio della comunità ebraica.
Durante la presenza italiana furono piantati 400.000 ulivi, 500.000 alberi di agrumi, 184.000 mandorli, un milione di viti, 52.000 alberi da frutta. Furono resi irrigui 5.096 ettari di terreno in aree desertiche o semidesertiche, che vennero messi a cultura. Furono costruiti 6.000 km di strade asfaltate , 4000 km di strade ferrate, . Vennero trasformate in città ricche di edifici e di ooere pubbliche , da borgate che erano, Bengasi, Misurata, Barce, Cirene, Derna, Tobruk, e di Tripoli si fece una prestigiosa capitale da tutti ammirata.
Secondo i dati del censimento turco pubblicati nel 1911 la popolazione del  Villajet di Tripoli  era di 375.566 abitanti quella del Mousseriffato di Bengasi di 198.345.
Quando abbiamo lasciato la Libia la popolazione sfiorava i 2 milioni. Alla fine del 1938 l’assistenza ambulatoriale e ospedaliera era in atto in tutti i centri di una certa importanza dell’immenso paese. A Tripoli era sorto il grande ospedale della Mescia, in quel tempo uno dei migliori dell’Africa.  



Regio Corpo Truppe Coloniali 



A Tripoli (1911 ) interpretazione di Claudio Villa 
per l' Antologia della canzone italiana