Visualizzazione post con etichetta dignità nazionale. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta dignità nazionale. Mostra tutti i post

Camicie rosse camicie nere




Il governo fascista ha voluto dedicare alla memoria di Anita, la presenza galoppante, nell’atteggiamento di guerriera che insegue il nemico e di madre che protegge il figlio. L’artista insigne, che ha così dato oltre l’effige lo spirito di Anita, che conciliò sempre, durante la rapida avventurosa sua vita, i doveri alti della madre con quelli della combattente intrepida al fianco di Garibaldi. E’ nel cinquantenario della morte dell’eroe, cinquantenario che vorremmo celebrato come nazionale solennità, che il monumento si inaugura alla vostra augusta presenza, alla presenza dei discendenti di Garibaldi e dei prodi garibaldini, alla presenza ideale di tutto il popolo italiano. Di Garibaldi fu detto prima  e dopo la morte, dalla storia, dall' arte, dalla poesia, dalla leggenda che vive nelle anime delle moltitudini più a lungo della storia. Adolescenti, il nome di Garibaldi ci apparve circonfuso dalle luci di questa leggenda. Le camicie nere che seppero lottare e morire negli anni dell’umiliazione, si posero politicamente sulla linea delle camicie rosse e del prode condottiero.
Durante tutta la sua vita egli ebbe il cuore infiammato da una sola passione: l’unità e l’indipendenza della Patria. Tra i due periodi giganteggia Garibaldi che ha un solo pensiero, un solo programma, un sola fede: l’Italia. Coerente, di una perfetta coerenza, che gli apologeti postumi del suo nome non sempre compresero, fu coerente, e quando offriva la sua spada a Pio IX, e quando vent’anni dopo, lanciava i suoi disperati legionari sulle colline di Mentana. Coerente quando collaborava con Cavour, seguiva Mazzini, serviva Vittorio Emanuele II, osava Aspromonte. La marcia dei Mille, da Marsala al Volturno, guerra e rivoluzione insieme, elemento portentoso che ha dato per sempre l’unità della Patria. Il suono della vita, anche in quella di Garibaldi, le minori e le mediocri cose che accompagnano inevitabilmente l’azione – polemiche, ingratitudine, abbandoni -, un uomo non sarebbe più grande se non fosse uomo fra gli uomini.
Ma la storia ha già tratto dalle fatali antitesi la sintesi della definitiva giustizia, e Garibaldino è vivo più alto e più possente che mai nella coscienza della nazione e nelle coscienze di libertà.
Le generazioni del nostro secolo, cariche già di sanguinose esperienze, attraverso la più grande guerra che l’umanità ricordi, ebbero un pregio. Se il cavaliere bronzeo che sorge qui vicino diventasse uomo vivo e aprisse gli occhi mi piace sperare che egli riconoscerebbe la discendenza delle sue camicie rosse nei soldati di Vittorio Veneto e nelle camicie nere che da un decennio continuano sotto forma ancora più popolare e più feconda, il suo volontarismo. E sarebbe lieto di posare il suo sguardo su questa Roma, luminosa, vasta, pacificata, che egli amò di infinito amore e che fin dai primi anni della giovinezza identificò con l’Italia.
Sire, finchè su questo colle dominerà la statua dell’eroe sicuro e forte sarà il destino della Patria.

Benito Mussolini Roma maggio 1932




                                                                                    

                            A Roma l'inaugurazione del monumento ad Anita Garibaldi




                                                                             

                                                                                    Il trasporto a Roma delle spoglie di Anita Garibaldi




                                       Anita Garibaldi





                                         inaugurazione del busto di Anita Garibaldi, offerto da Costanza Garibaldi



                                                   A Roma lo scultore La Spina termina la testa di Garibaldi


Severità di Patria


Non vogliamo ammetterlo e giriamo in modo estenuante attorno alla questione, ma il buco nero intorno a cui danziamo ha un nome preciso: amor di patria. Gli appelli drastici al rinnova­mento o alla conservazione, le sante alleanze e le leghe nazionali che si invocano da più parti, la Grande Riforma o il Partito degli Onesti, ruotano intorno a quell'omissione, anzi la invocano senza pronunciarla.Se manca il coraggio di richiamare in servizio quel comune senso di appartenenza nazionale non c'è nessuna ragione per interrompere il gioco allo sfascio, o alla decomposizione, come correggono con dotto tartufismo i sociologi. C'era una volta la carità di patria, ma è stata usata con troppa indulgenza, al punto da dissipare la stessa idea di patria. Adesso, ha ragione il CENSIS, si dovrebbe piuttosto inventare la severità di patria, un sen­timento austero che non tollera più pulcinellate né sgravi di responsabilità o fughe nei sofismi, nella retorica e nella demago­gia. Basta con il perdonismo e le indulgenze. Severità di patria. Ma è possibile un patriottismo? É possibile, anzi è necessario. É l'unica via possibile per non chiudere bottega e privatizzare l'Italia nel senso peggiore del termine: cioè spaccarla in tranci, in lotti, in briciole e liqui­darla come nazione. Certo, non si tratta di rispolverare uniformi fatiscenti o retori­che d'annata. Si tratta piuttosto di inventare un patriottismo severo, anti-retorico, asciutto, che non risparmi l'autocritica per carità di patria; ma si sottragga all'autodenigrazione, sport nazionale ad alto tasso di improduttività. In fondo la guerra civile delle istituzioni è in atto perché manca quel collante: e la psicosi del partito die lui ha investito gli arti, come una paralisi progressiva. Ed ognuno dice la sua, si dis­socia e si mette in proprio perché rappresenta un partito o aspira a rappresentarlo. Ogni imprecazione trova un target e dunque in base alla legge di mercato trova legittimazione all' esistere. Ma di mercato si può anche morire. Se tutto si mette in piazza per piazzarsi come merce, l'unica regola è il successo del prodotto. E invece no, ci dev'essere qualcosa che valga di più degli indici di gradimento, dei punti totalizzati nei sondaggi? E questo qualco­sa, fino a prova contraria, non può essere che uno straccio di patriottismo. Che resta, in fondo, l'unica ragione sociale per cui bene o male stiamo insieme e continuiamo a parlarci nella stessa lingua. Insomma un maturo senso della patria fuori da ogni militari­smo o sciovinismo d'occasione. Un senso della patria che nulla ha a che vedere con il centralismo autoritario e con il "sacro egoismo" nazionale. Anche le piccole patrie sono patrie e meri­tano di essere garantite. E anche le patrie altrui sono patrie, anzi la condizione indispensabile per cui la mia patria possa vivere, è che sia garantita anche la sua, la loro patria. Ovunque si difende una patria, si difende la mia patria, il diritto della mia patria a considerarsi tale. Insomma, non un sentimento aggressivo ed esclusivista, ma il suo contrario. Un patriottismo che sappia guardare anche indietro senza perdere l'equilibrio. Quando si riuscirà a comple­tare quell'unificazione nazionale con una autentica integrazione popolare, l'Italia cesserà di vedersi sempre attraverso le lenti della guerra civile: tra nord e sud, tra cattolici e laici, tra fascisti e antifascisti, tra pubblico e privato, tra città e provincia. É necessario ricucire le vecchie fratture per assorbire le nuove. Forse è possibile. E va detto senza cancellare le amarezze e i disincanti, ma cercando di portarseli appresso come antidoto costante alle tentazioni patriottarde da parata. Tutto questo non urta con l'Europa, ma è la condizione per arrivarci bene e, per evitare che si tratti solo di una semplice trasformazione di un negozio in un supermercato. Un patriottismo con i piedi per terra, perché dalla terra, in fondo, trae origine. Ma è necessario per disegnare l'Italia ventura e per fondare un vero senso di cit­tadinanza. Senza del quale, più che connazionali o concittadini, siamo solo occasionali e rissosi concubini.


Noi siamo i Cacciatori delle Alpi 
Castello Cavour Santena, Coro Michele Novaro, direttore Maurizio Benedetti, pianista Carlo Matti, testi Giuseppe Vettori, attore Mario Brusa.

La destra e la sinistra rovina della Patria



È un buon motivo per rassegnarsi? Sicuramente no, per chi sa guardare al di là delle cortine fumogene della disinformazione e coglie senso e sostanza della posta in gioco nel conflitto, ancor più asimmetrico degli altri per la dismisura delle forze in campo, che è in atto fra l’occidentalismo e i suoi oppositori. Il cui primo dovere è recare ovunque sia possibile parole di verità: denunciare, documentare, smascherare. Per non doversi poi sentire complici dei disastri che il fanatismo ideologico liberale e i disegni politici di chi se ne avvale stanno seminando, e continueranno a seminare, sul nostro pianeta.
Marco Tarchi 



Il disgusto del sordido è solo un'altra manifestazione della sensibilità alle cose più belle. 
Non vi è percezione di bellezza che non abbia un corrispondente senso di disgusto.
Ezra Loomis Pound


La destra e la sinistra Giorgio Gaber

Sentinelle d'Italia riprendete il vostro posto




 Le loro parole saran presto polvere dispersa

Serbate inviolato il principio sul quale si fonda la vostra esistenza come Nazione. Questa voce non è spenta e si fa sentire ancor oggi monito e rampogna contro i fiacchi rassegnati…

In questo momento Oberdan ha ancora qualche parola da dire al popolo italiano che sta subendo nuovi soprusi e dolorose rinunzie. …Ora da un pezzo tacciono le rane petulanti,mentre l’eroe e il poeta sono assunti numi tutelari, nel Pantheon dell’anima nazionale. E tale pure sarà la sorte dei mentori pigmei che garriscono contro l’uomo – Sentinella d’Italia: le loro parole saran presto polvere dispersa, mentre lui grandeggerà sempre più in alto e radioso nel cielo della Patria.


Aurelio Saffi, 24 dicembre 1882 



                                   Le Campane di San Giusto -Beniamino Gigli

Terni: "Il denaro pubblico sarà trattato come sacro al bene del popolo"







"Il danaro pubblico sarà trattato come sacro al bene del popolo".
Elia Rossi Passavanti


Il Giornale d’Italia, 31 marzo 1924

Terni: “Un corteo di oltre ventimila persone con trenta musiche e centinaia di bandiere ha percorso le vie della città, tra l’entusiasmo delirante della folla che faceva ala al suo passaggio. Dalle finestre sono stati gettati a piene mani fasci di fiori sull’eroico combattente che G. D’Annunzio predilige tra i suoi più nobili e più puri legionari.”. In piazza Vittorio Emanuele, l’attuale piazza della Repubblica, “davanti a una folla immensa”, Elia Rossi Passavanti pronuncia “un’orazione semplicemente meravigliosa, strappando le lacrime di commozione ed ovazioni frequenti, interminabili…”. “Da questa città – risuonante di opere audaci – forgiatrice di ogni tempra, generatrice fulminea, balenante di energie vitali e mortali, e da un croscio profondo di una fusione magnanima, deve uscire l’Italia della pace e del lavoro. Uomini usi a tutto osare, conoscitori del dolore e degli stenti, della debolezza e della forza, delle potenze note e ignote, d’angoscia in angoscia, di errore in errore, di timore in timore, di presagio in presagio, di preghiera in preghiera, ci siamo sollevati alla santità di questo ternano mattino. Accendiamo, accendiamo l’immensa fornace o popolo mio, o fratelli, e che accesa resti per trenta secoli e che il fuoco fatichi, sino a che tutto il metallo si strugga, sino a che la colata sia pronta, sino a che l’urto del ferro apra il varco al sangue rovente della rinascita e della salvazione…”.


Elia Rossi Passavanti fu eletto alla Camera dei Deputati con grande suffragio, giurò il 24 maggio, aveva 28 anni.






                                                  "Inno del sole"
                                      Pietro Mascagni  su libretti  di Luigi Illica

17 marzo un compleanno per l'Italia






L'Italia non ricorda più il suo compleanno. Nacque il 17 marzo del 1861 in Torino, con la proclamazione del Regno d'Italia, Non nacque forse sotto i migliori auspici, e non tanto per ragioni di superstizione, perché vide la luce un Diciassette. né tanto per ragioni stagionali, perché nacque marzaioia e del mese d'origine ereditò l'instabilità. Ma per ben altro; perché quando nacque era uno stivale con un buco al centro, senza Roma. E nacque a Torino da un Sovrano che forse non ebbe il buon gusto di proclamarsi primo re d'Italia, preferendo restare Vittorio Emanuele II, come se continuasse un po' esteso il suo regno "piemontese". Forse non fu neanche bello nascere davanti a un Parlamento che nemmeno formalmente rappresentava la sovranità popolare, ma solo il due per cento degli italiani: quattrocentomila votami su venti milioni e passa d'italiani. Ma così è la storia, se vi pare. E non solo quella d'Italia.
Il genetlìaco nazionale, di solilo, passa sotto silenzio, e non per una questione di buon gusto verso le signore dì età avanzata. Tanto più che l'Italia, una signora tanto vecchia non è; e se ha raggiunto da un pezzo la terza età, le manca ancora la maturità. Vive da decenni in una specie di adolescenza fossile, in cui ha bisogno nei momenti decisivi di essere accompagnata dai genito­ri. Che un tempo erano magari la Chiesa o lo Slato assistenziale e omni facente, l'Alleato paterno o patrigno, ed oggi sono l'Europa e il Mercato.
Comunque sia, non è bello vivere in un Paese che non festeg­gia il suo compleanno. Tutti i paesi civili e incivili hanno una loro festa nazionale. Legata al giorno dell'Unità o alla proclama­zione dell'Indipendenza, ad una guerra vìnta o ad una carta costituzionale.


Da noi le feste che c'erano ce le siamo giocate strada facendo in una gara d'amnesie e fariseismi. Si cominciò col depennare il Natale di Roma, ritenuto troppo lontano, troppo retorico-imperiale ed anche fascista. Seguì a ruota il 4 novembre, ridotto al rango di celebrazione itinerante, come un nomade con roulotte, spostato alla prima domenica novembrina. Scese in disuso anche il 2 giugno che era la festa della Repubblica ma conservava sotto traccia una stratificazione che ammiccava alla natura anfibia degli italiani, ricordando un po' la festa monarchica dello Statuto albertino del 4 marzo. Restò in piedi solo la festa che non celebrava l'Unità d'Italia ma la sua divisione, il 25 aprile. Ma anche la festa della Liberazione è scesa in sordina, soprattutto da quando gli stessi storici antifa­scisti e partigiani hanno accettato di definirla una guerra civile. E adesso? Niente, siamo un paese dì trovatelli o di arteriosclerotici che non ricordano nulla. Certo, non sono le feste a garantire l'identità nazionale di un Paese; anche se il nostro, per lunghi secoli, fu dominato dalla triade di feste, farina e forca, nipotine del romano panem et circenses. Ci vuole ben altro per ricostrui­re il tessuto sfibrato di una nazione. Verissimo. Ma da qualche parte si deve pure incominciare, anche con un simbolo. E se per le riforme ci vogliono i cataclismi  i dosaggi e le contorsioni virtuose di un sistema fondato sulla mediazione, per proclamare una festa basta un po' meno. Anche un'esternazione del Capo dello Stato. O meglio, un decreto presidenziale.
Potrebbe essere quella la data, il 17 marzo, in cui, bene o male, nacque l'Unità d'Italia. Potrebbero essere altre. Ma non sarebbe male cominciare dal Risorgimento. Non abbiamo mai amato la retorica che si spese intorno al Risorgimento, ma fu quello il primo atto politico della Nazione. Ed è quello un punto di partenza un po' più distante di altri, e dunque sottratto alle polemiche e alle intemperie del nostro secolo. Ed anche più ade­guato, per ragioni di età e di clima, al nostro tricolore e al nostro inno nazionale.  La nostra storia è stata scandita al suo canto, e dobbiamo tenercelo. Anche per rispetto di quanti, e non furono pochi, fecero dell'Inno di Mameli la colonna sonora della propria vita e persi­no della propria morte. Insomma, fuor di anticaglie retoriche,   è il caso di ripristinare il compleanno nazionale.

Se coinciderà con la fine dell'Italia sarà perlomeno l'ultima volontà in articulo mortis di un Paese, la sua estrema unzione per darle onorata sepoltura. Se invece si accompagnerà alla ripresa di quell'identità nazionale che altrove fiorisce, allora sarà ii simbolo e la sveglia per un paese che non vuole aspettare il futuro come la bella addormentata nel bosco. Anzi nel sottobo­sco.  

Adolescenti che si travestono da bandiere americane in attesa dell'asta.







Nati e cresciuti "a pane e guerra" made in USA, evergreen sempre in auge tra gli studios globalizzanti di Hollywood, rimbambiti da videogiochi truculenti e reportage a senso unico, dove è sempre chiaro chi siano i buoni e chi i cattivi. Dove ogni pellicola si chiude con le stelle e strisce che garriscono al vento e la giustizia americana trionfa sempre.
Gianni Dessi



Quanto  l'Italia sia diventato un paese surreale, una colonia,  una Nazione allo sbando te ne accorgi dalle aspirazioni dei suoi adolescenti che si travestono da bandiere americane in attesa dell'asta. Cosa c'è da stupirsi da chi è cresciuto in un regime dove l'effetto martellante della propaganda del modello occidentale occupa qualsiasi spazio e contemporaneamente distrugge ogni barlume di identità nazionale? Tutte le salmerie mediatiche sparano con violenza il loro messaggio univoco.  Pubblicità, cinema, tv privata e pubblica, radio, giornali di destra e di sinistra parlano un unico linguaggio, quello dell'americanizzazione. Chi aveva  pensato che il digitale terrestre e la conseguente crescita di canali e capacità di offerta potesse contribuire ad una maggiore libertà si sbagliava. Abbiamo solo moltiplicato l'immondizia e la potenza del messaggio univoco. I  giovani italiani così ben "educati" al modello americano sembrano pronti per essere messi in divisa. Multinazionali, brand, franchisig, grandi magazzini, produzioni cinesi invadono con milioni di pezzi gli scaffali dell'abbigliamento,  l' unico cruccio è cosa indossare con la bandiera americana per apparire meglio come soldatino alieno. Giacche, magliette, mutande, straccali, scarpe, borse, borsette, polo, giacchini, gilet, orologi, sciarpe c'è solo l'imbarazzo della scelta. La bandiera americana è anche a buon mercato con pochi euro può essere tua se vai da un cinese o nei grandi magazzini, ma se proprio ci tieni ad essere un soldatino veramente elegante della provincia dell'impero, somigliare ad un cadetto di West Point non devi preoccuparti, puoi optare per una capo di alta moda (sic) e allora la bandiera americana ti potrà costare qualche centinaio Euro. L'effetto vale bene la spesa.  Poi vuoi mettere un bel giubbotto della polizia lacustre della città Omer nello stato del Michigam che emozione.

Nelle foto alcune proposte per inverno 2013 di una famosa catena di abbigliamneto italiana















La Torre e Girone: a Roma sfila lo sdegno e il coraggio


"La speranza ha due bellissime figlie: lo sdegno e il coraggio. Lo sdegno per la realtà delle cose, il coraggio per cambiarle."
Neruda



Marina Militare Italiana - Banda Centrale - Inno Btg. S.Marco (S.Barbara 2008)

Alla mia Nazione




di Pier Paolo Pasolini



Non popolo arabo, non popolo balcanico, non popolo antico ma nazione vivente, ma nazione europea: e cosa sei? Terra di infanti, affamati, corrotti, governanti impiegati di agrari, prefetti codini, avvocatucci unti di brillantina e i piedi sporchi, funzionari liberali carogne come gli zii bigotti, una caserma, un seminario, una spiaggia libera, un casino! Milioni di piccoli borghesi come milioni di porci pascolano sospingendosi sotto gli illesi palazzotti, tra case coloniali scrostate ormai come chiese. Proprio perché tu sei esistita, ora non esisti, proprio perché fosti cosciente, sei incosciente. E solo perché sei cattolica, non puoi pensare che il tuo male è tutto male: colpa di ogni male. Sprofonda in questo tuo bel mare, libera il mondo.








 
 
 
Alla mia Nazione
 
 da "La Religione del mio tempo" dove il tema centrale è la latente omologazione del neo-capitalismo, la desistenza rivoluzionaria e il conseguente vuoto esistenziale.
 
interpreta Vittorio Gasman
da PensieriParole <http://www.pensieriparole.it/poesie/poesie-d-autore/poesia-17863>

Sentinelle d'Italia riprendete il vostro posto

 
Sien mute le lingue, sien pronte le braccia;
Soltanto al nemico volgiamo la faccia,
E tosto oltre i monti n’andrà lo straniero
Se tutta un pensiero — l’Italia sarà.
     Non basta il trionfo di barbare spoglie;
Si chiudan ai ladri d’Italia le soglie;
Le genti d’Italia son tutte una sola,
Son tutte una sola — le cento città.
          Va fuora d’Italia, va fuora ch’è l’ora,
          Va fuora d’Italia, va fuora, o stranier!






                                                
 Inno di Garibaldi

Arturo Toscanini conducts the NBC Symphony Orchestra in the Garibaldi Hymn. Walter Toscanini, the Maestro's son, is heard in the introduction. From the NBC broadcast of September 9, 1943.


Patrioti di tutta Europa unitevi






"A noi ci hanno insegnato tutto gli americani.
Se non c'erano gli americani... a quest'ora noi eravamo europei...".


Giorgio Gaber 

Diventa ciò che sei 
Friedrich Nietzsche


 di Marcello Veneziani
Due principi ormai si fronteggiano sulla scena mondiale, venuto meno il comunismo: uno. prevalente, che pone il traguar­do dell'umanità nel cosmopolitismo, nella città planetaria. E il Progetto ethos mondiale di cui parlava in un suo  libro il teologo progressista Hans Kung e che trova sulla stessa linea, a differenti livelli, un variegato panorama: dai pacifisti umanitari, ai cattolici democratici, dai liberal-progressisti ai socialdemocra­tici, dai neo-comunisti fino ai liberal-capitalisti. Sullo sfondo non mancano naturalmente circoli finanziari e massonici, multi­nazionali e grandi industrie protese verso la globalizzazione del mercato. Il progetto è far seguire a questo mondialismo degli affari, un mondialismo etico, che trovi fondamento nei diritti dell'uomo ed espressione nel sogno di un'umanità liberata dalle frontiere terrene e ultraterrene. Pendant e sottofondo necessario di questa visione "ecumenica" è l'individualismo, ovvero la con­siderazione dell'uomo come entità irriducibile ed autonoma rispetto ad ogni ambito; e dunque errante, facilmente spostabile, inappartenente. Sviluppo altrettanto necessario è il progetto di un governo mondiale, una sorta di Super-ONU che affianchi il governo effettivo della finanza mondiale, dandole un supporto organizzativo ed anche un supplemento etico di anima. Un governo mondiale umanitario, verde quanto basta, pacifista fino ad un certo punto, inflessibile nel soffocare le zone difformi o i modelli culturali che incrinano questa pax annunciata.

Dall'altra parte, emerge un principio antagonista: quello che si oppone al mondialismo attraverso la rivolta comunitaria. É un principio amico, originario, e insieme nuovo che si esprime nelle società industrializzate del primo mondo, come nelle società uscite dal comunismo del secondo mondo, e infine nelle società ancora non del tutto conquistate dallo sviluppo nel terzo mondo. II suo referente, variamente indicato dalla difesa del territorio alle identità e specificità etniche, culturali e religiose, dalla tutela dell'ambiente e delle città in rovina al recupero del tessuto comunitario, fino ai fondamentalismi nazional-religiosi, è sostanzialmente l'appartenenza e la difesa di una patria. Patria intesa in senso lato, come luogo originario, come luogo culturale o cultuale, ma anche sociale e lavorativo, ambientale e linguisti­co, in cui ciascuno sì trova a casa. In questa prospettiva ciascu­no avverte di sentirsi culturalmente, naturalmente ed elettiva­mente inserito in una serie di ambiti comunitari, dalla famiglia alla città, alla comunità di lavoro, alla regione, alla nazione. E avverte questa appartenenza come un radicamento a cui non può fare a meno, se non facendo a meno di se stesso. E dunque difende la sua patria. Ma la difende non attaccando le patrie altrui, patrie territoriali o ideali, e perfino ideologiche; ma al contrario, difendendo nella propria patria la patria di ciascuno. Anzi, la garanzia dì vita della mia patria è la garanzia di vita della patria di ciascuno, e viceversa. 
Non sì tratta dunque, come spesso ancora si fa nella nostra società frammentata ed egoistica, di contrapporre ad un principio universale come il mondialismo, un principio particolare, come la propria diversità. Sarebbe un discorso debole, perdente, una pura fuga nel microcosmo e nel privato, in definitiva omogenea e funzionale al mondialismo stesso, che ama accreditarsi come un supermercato in cui è possibile esporre ogni merce. Si tratta invece di passare a concepire la difesa della propria diversità, della propria identità, non come un fatto antagonistico a quello delle altre, né come un fatto a sé stante, che mira a isolarsi da un contesto generale. Ma come un principio anch'esso universale.
Ovvero, occorre passare ad una specie di intemazionale delle patrie in cui le patrie si coalizzano per difendere le proprie radici e la propria peculiarità dal comune avversario: il mondialismo che omologa, annienta e trita le diversità e concepisce solo indi­vidui nudi. Ricordiamo un appello rivolto dai movimenti nazional-religiosì russi: 

                                                  " Patrioti di tutto il mondo unitevi".


Un appello che coglie perfettamente l'unica battaglia possibile per ostacola­re la città mondiale senza volto, la poltiglia universale. "Ognì persona che rispetti la cultura e la tradizione del proprio popolo è nostro fratello" dicono gli esponenti di un movimento (peraltro inaccettabile in molte sue valenze) come il Pamjat. E aggiungono: "In Occidente esistono più di duemila popoli, ognuno con la sua cultura particolare, perche a noi, invece di questa ricchezza, viene data una pseudocithura di massa, un simile intruglio di "metalli pesanti", di pornofilm, di kolossal cinematografici e altre produzioni cosmopolite, buone solo a danneggiare ciò che resta della nostra spiritualità? L'intenzione di trasformare i popo­li in un'unica folla senza patria, facile da pilotare..."

Si tratta di superare i nazionalismi aggressivi del passato, i vecchi imperialismi coloniali, o i "patrioti" di giacobina memo­ria. Facile obiezione è far notare l'aggressività con cui si manifestano oggi i conati nazionalistici. Non si può dimenticare che alcuni patriottismi degenerano in violenze o si manifestano con punte di intolleranza, perché a loro volta hanno subito violenze. Non è stato loro concesso il diritto di manifestarsi, sono state calpestate le loro sovranità nazionali e popolari, sono stati nega­ti, spesso a suon di carri armati, i loro diritti di popolo. Si tratta allora di un'intolleranza di ritorno. L'aggressività non nasce dall'istanza patriottica ma dal fatto che è stata repressa. E quan­do viene repressa esplode assumendo a volte toni concitati e forme incontrollate. Differente è il nostro caso di paese occiden­tale, dove le patrie più che represse sono state depresse. E da qui nascono, per virtù omeopatica, semipatriottismi '"depressi" che talvolta, tramite alcune degenerazioni ecologiste e localiste, fini­scono con l'essere pure fughe nel particolare, con l'alibi che lì vi è maggiore concretezza. E con l'esito di non incrinare gli assetti del sistema ma di assecondarti. A volte vengono forniti anche surrogati di patriottismo. É il caso ad esempio del "patriottismo della costituzione" di cui parta un intellettuale tedesco progressista (ma conservatore, anzi retrivo, rispetto alla storia tedesca che cammina e travolge i muri), Jurgen Habermas. E un patriottismo che alberga anche da noi, e che vorrebbe tra­sferire il sentimento collettivo di appartenenza nell'astratto e cartaceo riconoscimento di una Costituzione liberale e democra­tica. Bisecolare vizio illuministico di far nascere le cose con decreto legge della Ragione, dalla carta; senza trarle dalla storia, dalla vita concreta e dall'anima dei popoli.
I due principi antagonistici, serbano naturalmente nello spa­zio che tra loro intercorre, una varietà di posizioni che impedisce una valutazione manichea. C'è perfino un punto di contatto: è rappresentato dall'europeismo. Nell'Europa si incrociano cosmopolitismi e patriottismi. Ma la direzione verso cui marcia­no è opposta: il mondialismo vede l'Europa come un passo per liberarsi dai nazionalismi e per marciare verso la compiuta globalizzazione del sistema: i patriottismi vedono al contrario nell'Europa la macroappartenenza ad una Patria-civiltà e la grande nascita di un soggetto forte che tuteli le specificità dal Progetto di un mondo uniforme e unipolare.   
   
La battaglia dei prossimi anni è dunque questa (Furio Colombo vede il futuro nell'alternativa tra"universalismo e tri­balismo"; e l'impegno verso cui lavorare è quello dt far com­prendere ai vari comunitarismi la loro concordia discors, la loro comune esigenza di coalizzarsi in nome del comune principio delle diversità da tutelale. Questo discorso può largamente appli­carsi, senza perdere la coerenza, anche in chiave politica e socia­le concreta. Rispetto all'onnivoro centrismo che tutto media, neutralizza e digerisce; rispetto all'egemonia del capitale che mira a rendere inorganiche le differenze per organizzare il mer­cato, le diversità politiche, sociali, sindacali e culturali, le "patrie" di ciascuno, devono coalizzarsi, cominciando a non con­cepirsi in antagonismo, superando i confini topografici di destra e di sinistra, di tradizionalismo e di progressismo. Non è il caso di sprecare le proprie energie per insultarsi fra dirimpettai di marciapiede quando il rullo compressore minaccia di spianare tutta la strada.









L' America Giorgio Gaber