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Meglio una dittatura sovrana che una democrazia serva


Il discorso su democrazia e dittatura, lungi dalla solita e perenne retorica dei testi universitari o dei dialoghi televisivi sulla partecipazione pubblica alla vita dello Stato (ridotta ad un gesto banale come quello di fare una croce su un prodotto elettorale), è essenziale per emanare giudizi meno superficiali sui nostri tempi. Che non sono più quelli in cui Churchill poteva affermare, con una battuta, che “la democrazia è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte quelle altre forme che si sono sperimentate finora”. La democrazia è, a questo punto occorre dirlo, una forma di governo modellata sulla prepotenza di un Paese e dei suoi vassalli, che si impone a suon di mazzate e con sempre meno infingimenti su chi non ne accetta il dominio. La democrazia ha gettato la maschera da qualche decennio, diciamo da quando le sfide internazionali hanno alzato la posta in palio, modificando lentamente i rapporti di forza geopolitici, redistribuendo gli equilibri, per ora a livello regionale ma con una tendenza allo scontro crescente tra attori politicamente e militarmente sempre più aggressivi su tutto il planisfero. La pantomima democratica non funziona più nemmeno nei paesi che la sperimentano da lungo tempo, tanto che i gruppi dirigenti, sedicenti democratici, devono ricorrere ad astuzie aggiuntive per riportare le loro pubbliche opinioni alla “ragione” della libertà. Basta vedere il tradimento del responso referendario sulla Brexit. Epitomando: il popolo non è sovrano per niente, in democrazia o in qualsiasi altro sistema politico. Il popolo deve pensare con le idee che altri in alto elaborano mettendogliele in testa e non ha mai coscienza, se non labile, dei veri obiettivi di chi ne condiziona i convincimenti. In altra sede, La Grassa ha scritto che le parti in lotta, anche se sono passate dal voto, in realtà non si fanno eleggere per servire la popolazione, in quanto
“sono strutturate e hanno precisi vertici di comando, tesi a dati (ma non dichiarati) obiettivi di conquista dei posti chiave nelle sfere degli apparati politici, economici e ideologico-culturali. La loro lotta deve ovviamente nascondere gli effettivi intenti di mera conquista del potere (del tutto, o quasi, per quei tot anni) dietro la menzogna degli interessi generali della popolazione, con magari una particolare predisposizione per questo o quel raggruppamento sociale, i cui voti siano preferibilmente “inseguiti” da questo o quel vertice delle parti in lotta, che si ritiene particolarmente organizzato a tale scopo (si pensi, ad es., ai “sindacati dei lavoratori”, organismi fortemente centralizzati, che appoggiano dati partiti). Bando dunque, per favore, alle pantomime sulla “democrazia” come governo del popolo, questo concetto del tutto astratto e il più fortemente ideologico di ogni altro, nel preciso senso di ideologia come falsa coscienza: quella indotta nei cittadini, non quella dei vertici di potere, che se ne servono con notevole consapevolezza dell’inganno da loro perpetrato. Inoltre, e questo è per me decisivo nel deprezzare ogni presunta democrazia elettorale, i cittadini vengono invitati a eleggere questo o quello senza alcun particolare impegno e rischio che non sia l’andare al voto, magari perfino rinunciandoci talvolta se il tempo è particolarmente brutto o invece specialmente bello per andarsene in vacanza, ecc. In altri assai meno miserabili contesti, i cittadini, e facendo magari specificatamente appello alla loro appartenenza a dati gruppi sociali, vengono chiamati alla vera lotta mediante ben altre ideologizzazioni, che sollecitano a volte la loro ira e sempre la speranza di un futuro migliore, perfino l’intelligenza di una decisa fuoriuscita da condizioni di oppressione e di miseria (non solo materiale), ecc”. In casi come questi, gli sciocchi (o qualcosa di peggio a volte) liberali affermano che si va verso la “dittatura”; perché la lotta può farsi cruenta e portare un dato gruppo al vertice della società, per di più rappresentato da un “capo”. In questi casi, però, masse imponenti di esseri umani (senza che si possa calcolare se rappresentano il 50% + 1 della popolazione, per di più quella al di sopra di una data età) si muovono anche a rischio della loro vita, danno il meglio di se stessi, non vanno a bighellonare nei seggi elettorali. Affermo con decisione che questa situazione è mille volte più “democratica” dell’altra. E la “dittatura” è solo nella testa di chi ci rimette, in casi come questi, l’intero suo potere di spremere quella gran massa popolare per i suoi bassi interessi, senza bisogno della benché minima ideologia di supporto: ideologia non come falsa coscienza, bensì come forte credenza che qualcosa di meglio possa essere conquistato. Senza dubbio, in casi del genere viene in evidenza la crudezza dei moti “di massa” e spesso tante altre miserie, perché in simili contingenze s’insinua nel movimento un po’ di tutto; tuttavia, ripeto che chi si muove in tale contesto rischia qualcosa di suo (fino appunto alla pelle). Tale situazione è mille volte migliore della falsa, miserabile, spenta, “democrazia” elettorale dei sedicenti liberali”.
Il democratificio è una fabbrica del potere che produce un certo tipo di funzioni, autolegittimandosi ex-post tramite una volontà generale, chiamata ad esprimersi periodicamente su dei candidati, alla quale si dà la sensazione di entrare nel processo decisionale mentre è già tutto prestabilito da una superiore visione, invisibile agli occhi. On n'échappe pas de la machine. Rancière scriveva: “Le elezioni sono libere. Servono essenzialmente ad assicurare la riproduzione del medesimo personale dominante sotto etichette intercambiabili, ma le urne non sono in genere strapiene ed è possibile rendersene conto senza rischiare la vita. L’amministrazione non è corrotta, tranne in quegli affari di mercato pubblico dove finisce per confondersi con gli interessi dei partiti dominanti. Le libertà individuali sono rispettate, a prezzo di considerevoli eccezioni per tutto quello che riguarda la difesa delle frontiere e la sicurezza del territorio. La stampa è libera: chi voglia fondare, senza l’aiuto di potenze finanziarie, un giornale o una rete televisiva capace di raggiungere l’insieme della popolazione incontrerà serie difficoltà, ma non finirà in galera. I diritti di associazione, di riunione e di manifestazione permettono l’organizzazione di una vita democratica, cioè di una vita politica indipendente dalla sfera statale. Permettere è evidente mente una parola ambigua”. 
Gianfranco La Grassa, nel suo intervento, aggiunge un altro tassello alla questione democrazia vs dittatura. Quest’ultima non è una degenerazione della prima ma il risultato di un differente decisionismo nascente in contesti storici particolari in cui cincischiare con le “apparenze” democratiche può mettere a repentaglio certe prerogative sovrane a causa dell’infiltrazione di modelli culturali e politici non corrispondenti alle esigenze di recupero della potenza o di rafforzamento complessivo del Paese, in un clima di multipolarismo e policentrismo. In alcuni frangenti è possibile “parlamentare” data la stabilità epocale o in virtù di relazioni mondiali consolidate, in altri si deve agire tempestivamente badando al sodo. In ogni caso, il popolo non governa mai e mai governerà perché la politica è soprattutto serie di mosse strategiche, dunque coperte, segrete, per assumere la preminenza. Ora si lamentino pure i liberali che ululano contro i totalitarismi. La loro è solo una cultura del piagnisteo, per di più ipocrita perché la democrazia è altrettanto assassina, subdola, manipolante e intrigante (se cosi non fosse non esisterebbero i servizi segreti), che non commuove chi come noi, si spera, è avvezzo ad andare oltre le esteriorità ideologiche dei loro discorsi del piffero. Ebbene sì, meglio una dittatura che punta alla grandezza dello Stato che una democrazia asservita ad interessi stranieri.



Democrazia e dittatura, solo differente decisionismo.

Prima la Patria: Putin investe 1,7 Miliardi per educare al patriottismo i giovani russi





Il programma punta ad aumentare tra i ragazzi il senso civico per «il destino della nazione» e a innalzare «i livelli di coesione sociale». In questo ambito, uno dei terreni d’azione sarà l’impegno per incrementare «il prestigio delle forze armate», anche questo finalizzato a «instillare nelle giovani generazioni la voglia, sia dal punto di vista fisico che psicologico, di difendere la madrepatria e sviluppare un senso di orgoglio e profondo rispetto per la bandiera, lo stemma e l’inno nazionale».
I nuovi finanziamenti riguarderanno il prossimo quinquennio e ammontano a 1,7 miliardi di rubli, più o meno 25 milioni di euro, che saranno coperti dal bilancio federale. L’ultimo piano, quello2011-2015, era stato finanziato con 777 milioni di rubli. Il programma è partito nel 2001, ovvero alprimo mandato di Putin da presidente della Federazione russa. Sarà il ministero dell’Istruzione e della Scienza a occuparsi dell’applicazione pratica del piano, in piena collaborazione però con il ministero della Difesa e con quello della Cultura.

‘Ni droite Ni gauche’ : il FN batte sarkozysti e socialisti

Marion Maréchal Le Pen
 
 

Marine Le Pen ha accentuato l’autodefinizione ‘ni droite ni gauche’ per definire il suo Front National. Quando si rivolge ai Francesi li chiama Patrioti.
Il crollo del regime occidentale, non può non riguardare, attraverso il meccanismo di frattura che ha innescato, quei partiti che hanno contribuito a costruire una Europa sul modello della società nordamericana. Un'area politica che potremmo individuare negli attuali vari centro destra/sinistra europei, accomunati dalla stessa politica economica e geostrategica (occidentalista) e dal dilagare della corruzione al loro interno.
Il modello di nuovo partito vincente che riesce a battere le forze della conservazione e può essere la base per costruire una Europa più europea e meno americana, quindi più libera,  unisce  la difesa del livello di vita economico-sociale della popolazione alla difesa del suo modo di vita, ovvero delle sue tradizioni e dei suoi connotati etno-culturali. Il cambiamento della Francia è il  benvenuto. 
 

A Legnano i comuni d'Italia cominciarono a sentire la prima solidarietà,cancellando lo spirito settario, nel nome dell'Italia

 
AURORA DI SPIRITI RIDESTI. In questa ora solenne, il nuovo giuramento rievocante quello di Pontida, unisca tutti i cuori in una sola volontà. Dalla piazza di Trento, Dante Alighieri chiama a se' il figlio che morì per non morire: Cesare Battisti, l'annunziatore infallibile. Dalla piazza di Trieste, Giuseppe Verdi ispira la melodia trionfale che solleva laggiù, a Pola, dalla Fossa degli Impiccati, il cuore eroico di Nazario Sauro. O fede tenuta nell'ombra, ribattezzata nel sangue, custodita nella sventura come l'intatta spada nella guaina, rifulsa come l'alta lampada del faro tra nembi e marosi. Le sante milizie che i Comuni della Lega strinsero intorno al Carroccio, in una volontà di Vittoria, in un voto di morte, rivissero popolando di Eroi le desolate nudità del Carso, le contrastate rive del Piave, le aspre giogaie trentine. Sul giuramento di Pontida, la Patria riconiò il nuovo patto di fede. A Legnano i comuni d'Italia cominciarono a sentire la prima solidarietà, affinché, nelle officine e nei campi e fra il popolo si imparasse a mortificare e a cancellare lo spirito settario, nel nome d'Italia. Legnano fu grande, perché assai grande era l'Idea di Roma, sede del pensiero universale, erede del passato di gloria, tempio della preghiera, di quella che da diritto agli uomini di elevarsi fino a Dio. PASSEREMO!


Identità sportiva e identità nazionale





L' autorappresentazione della nazione attraverso lo sport assume forma compiuta. Il regime mussoliniano crea un modello, più tardi imitato anche dai regimi totalitari dei paesi dell'Est, attraverso il quale lo sport diviene rappresentazione della potenza e della identità nazionale : Mussolini - ha scritto lo storico americano John M. Hoberman - fu senza dubbio «il maggior atleta politico del periodo fascista». E Filippo Tommaso Marinetti fu l'ispiratore di una concezione antropomorfica dello Stato atletico. « Se pregare significa comunicare con la divinità, il correre a forte velocità è una preghiera - scriveva nel 1916 Marinetti in La nuova moralità-religione della velocità -. L'ebbrezza di un'auto lanciata a forte velocità non è altro che la gioia di sentirsi interamente fusi con la sola divinità. Gli atleti sono i primi catecumeni di questa religione».
Se il regime fascista fa propria la concezione del dinamismo marinettiano per esasperare nell'immaginario collettivo l'idea di una nazione atletica, forte e vincente è comunque nella seconda meta dell'Ottocento che prende corpo la fisionomia del binomio sport/nazione. O, ancor meglio il corpo diviene il luogo di rappresentazione plastica del vitalismo e del dinamismo della nazione. Già nel 1902 Hobson nel suo saggio sull'imperialismo scriveva che l'essenza dello sport consisteva in un arcaico istinto predatorio. «La brama animale di lotta - scriveva Hobson — [...] soprawive nel sangue, e proprio nella misura in cui una nazione o una classe conservano un margine di energia e di tempo libero dalle attività dell'industria pacifica, chiede di essere soddisfatta attraverso lo sport».
La genealogia del rapporto sport/identità nazionale non può non partire da Federico Ludovico Jahn che all'inizio dell'Ottocento elabora un modello di educazione fisica inteso ad esaltare il senso di appartenenza alla comunità nazionale. Sostenitore del primato morale della nazione, Jahn considerava il Turn, la palestra, il luogo ideale in cui il giovane non solo si addestrava agli esercizi fisici, ma si formava corne membro della comunità nazionale.
L'opera e l'eredità di Jahn, ampiamente analizzati da Mosse, divengono nel corso dell'Ottocento un modello per i movimenti ginnastici europei: da quello italiano a quello francese, dai Sokols dei paesi slavi al Maccabi delle comunità ebraiche. Anche in Italia le origini del movimento ginnastico affondano le radici nel risorgimento nazionale. L'origine e lo sviluppo dei vari sodalizi schermistici, delle società di tiro a segno, dei club alpinistici (emanazione delle società ginnastiche) è inscindibilmente legata alla epopea risorgimentale e al culto degli ideali della nazione. La lettura degli statuti e dei programmi dell'universo ginnastico italiano specifica ulteriormente il patrimonio di valori ideali e simbolici di cui si faceva portavoce : la «difesa della patria», il «miglioramento fisico e intellettuale del popolo», il «cittadino soldato» sono concetti continuamente richiamati a voler ribadire, in ultima istanza, una esperienza diretta a costituire uno dei caratteri fondamentali della costruzione della identità nazionale al pari della istruzione, della diffusione della lingua nazionale o della difesa dei costumi. «Far ginnastica e far nazione dunque» diviene dunque un imperativo categorico dell'educazione fisica ottocentesca.
Guido Verucci ha sostenuto che le idealità della educazione fisica, (idealità profondamente laiche) erano direttamente relazionabili ad una delle più diffuse ideologie di fine Ottocento : ossia a quella del self-help. E questo perché la sanità, la robustezza e il vigore fisico erano ritenuti i po-stulati imprescindibili di una pedagogia popolare diretta ad educare al «primato délia vittoria» nelle difficoltà délia vita e del lavoro. A sviluppare, in ultima analisi, la volontà, il carattere, la disciplina.
Io ho indagato la realtà di questo modello ginnastico in un contesto del tutto particolare corne quello délia Trieste di fine Ottocento e d'inizio No-vecento ancora sotto il dominio asburgico. Nella città giuliana la Società Ginnastica Triestina ha rappresentato uno dei centri e dei simboli più vitali dell'irredentismo. Una palestra non solo di esercizi fisici ma di educazione ai valori délia italianità.
Esemplati sul modello e sull'insegnamento di Jahh i movimenti ginnastici divengono, nelle singole realtà nazionali, i difensori di una ortodossia nazionale volta alla difesa della lingua, alla valorizzazione dei costumi e usi locali, alla esaltazione delle tradizioni. E questo soprattutto all'indomani della vittoria delle truppe prussiane a Sedan, nel 1870, allorché quella vittoria fu unanimemente considerata corne il frutto di un addestramento militare che aveva alla sua base la pratica ginnastica.
Anche in Italia a partire dal 1870 in Italia la questione dell'educazione fisica diviene oggetto di un intenso dibattito. Di piu', la questione del «corpo malato» dell'italiano e dunque délia sua rigenerazione diviene uno degli obiettivi primari della nation building della nuova classe diligente liberale.
Le prime visite di leva indette dal neonato stato unitario avevano in effetti denunciato un preoccupante quadro sanitario dei giovani in età militare. Fra il 1866 e il 1871 oltre il 40% dei giovani sottoposti alle visite milita-re risultava riformabile per imperfezioni fisiche.
E proprio questo dibattito conduce al varo della legge scolastica sull'obbligo ginnastico nel 1878. Nel presentare il disegno di legge in Parlamento l'allora ministro della pubblica istruzione Francesco De Sanctis sottolineava che «L'insegnamento della ginnastica sia considerato non corne un vano spasso, ma corne una istituzione nazionale, fondamento dei nostri metodi educativi [...] se dobbiamo ricuperare il posto dovuto alla nostra nazione, stata due volte capo e maestra del mondo - proseguiva De Sanctis - dobbiamo procurare che questi esercizi [...] penetrino nei costumi e diventino parte integrante delle nostre feste e delle nostre istituzioni nazionali».
Manca il tempo, e comunque altrove è stato fatto, per seguire l'evoluzione della realtà ginnastica di fine Ottocento. Ma su un punto vale la pena soffermare l'attenzione per capire corne il bagaglio culturale e ideale dell'universo ginnastico si trasferiscano, a partire dall'inizio del Novecento, nel mondo dello sport.
Allorché lo sport inizia a diffondersi in Italia, fra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento, il movimento ginnastico oppone una forte resistenza considerandolo corne un prodotto di «marca straniera» in quanto nato nella Inghilterra vittoriana.
«Veicolo dei vizi inglesi», «infezione morbosa», «insana passione» : queste le espressioni più comuni che il mondo ginnastico italiano usa nel descrivere lo sport all'inizio del secolo. Al coro si univano i maestri di ginnastica i quali deploravano il fatto che quando i giovani «giuocano al calcio, vestono, mangiano, bevono, e bestemmiano all'inglese!»
A mettere per primo in crisi la funzione pedagogica, civile e sociale della ginnastica è Angelo Mosso.,, Fisiologo di fama internazionale (nonché presidente della Società ginnastica torinese) Mosso, sostenuto da una nutrita schiera di seguaci, suggerisce, verso la fine dell'Ottocento, di accantonare il vetusto sistema della ginnastica basata sulla contrazione dei musco-li e di introdurre in sua vece una ginnastica semplice e naturale tesa alla loro distensione. Ma soprattutto Mosso sosteneva che occorreva abbandonare il chiuso delle palestre e l'uso degli attrezzi per forgiare all'aria aperta il «nuovo corpo» dell'italiano. I giochi inglesi, dal football al lawn tennis, dal canotaggio al nuoto, dai salti alla corsa, avrebbero meglio preparato i giovani alla modernità del nuovo secolo proprio perché codificati nella patria della rivoluzione industriale e quindi espressione di una «filosofia» moderna di fronte alla quale la ginnastica appariva anacronistica e legata al passato.
Consequenzialmente, argomentava Mosso, il gioco all'aria aperta avrebbe non solo forgiato corpi e caratteri in sintonia con quella modernità l'allora ministro della pubblica istruzione Francesco De Sanctis sottolineava che «L'insegnamento della ginnastica sia considerato non corne un vano spasso, ma corne una istituzione nazionale, fondamento dei nostri metodi educativi [...] se dobbiamo ricuperare il posto dovuto alla nostra nazione, stata due volte capo e maestra del mondo - proseguiva De Sanctis - dobbiamo procurare che questi esercizi [...] penetrino nei costumi e diventino parte integrante delle nostre feste e delle nostre istituzioni nazionali».
Manca il tempo, e comunque altrove è stato fatto, per seguire l'evoluzione della realtà ginnastica di fine Ottocento. Ma su un punto vale la pen-na soffermare l'attenzione per capire corne il bagaglio culturale e idéale deU'universo ginnastico si trasferiscano, a partire dall'inizio del Novecento, nel mondo dello sport.
Allorché lo sport inizia a diffondersi in Italia, fra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento, il movimento ginnastico oppone una forte resi-stenza considerandolo corne un prodotto di «marca straniera» in quanto nato nella Inghilterra vittoriana.
«Veicolo dei vizi inglesi», «infezione morbosa», «insana passione» : queste le espressioni più comuni che il mondo ginnastico italiano usa nel descrivere lo sport all'inizio del secolo. Al coro si univano i maestri di ginnastica i quali deploravano il fatto che quando i giovani «giuocano al calcio, vestono, mangiano, bevono, e bestemmiano all'inglese!»
A mettere per primo in crisi la funzione pedagogica, civile e sociale della ginnastica è Angelo Mosso.,, Fisiologo di fama internazionale (nonché presidente della Sociétà ginnastica torinese) Mosso, sostenuto da una nutrita schiera di seguaci, suggerisce, verso la fine dell'Ottocento, di accantonare il vetusto sistema della ginnastica basata sulla contrazione dei musco-li e di introdurre in sua vece una ginnastica semplice e naturale tesa alla lo-ro distensione. Ma soprattutto Mosso sosteneva che occorreva abbandonare il chiuso délie palestre e l'uso degli attrezzi per forgiare all'a-ria aperta il «nuovo corpo» dell'italiano. I giochi inglesi, dal football al lawn tennis, dal canotaggio al nuoto, dai salti alla corsa, avrebbero meglio preparato i giovani alla modernità del nuovo secolo proprio perché codificati nella patria della rivoluzione industriale e quindi espressione di una «filosofia» moderna di fronte alla quale la ginnastica appariva anacronistica e legata al passato.
Consequenzialmente, argomentava Mosso, il gioco all'aria aperta avrebbe non solo forgiato corpi e caratteri in sintonia con quella modernità che i nuovi sistemi produttivi richiedevano ma (tema caro al patriottismo risorgimentale) avrebbe preparato più adeguatamente i giovani alle moderne necessità militari e alla difesa dei confini della nazione. Del resto, secondo una battuta allora ricorrente negli ambienti ginnastici internazionali, proprio sui campi di cricket si erano formate schiere di ufficiali e soldati che avevano esteso a quasi un quarto dell'intero pianeta l'impero di sua maestà britannica.
Lo sport - nella concezione di Angelo Mosso - si configurava corne strumento di formazione di una nuova antropologia dell'italiano. Una an-tropologia certo più moderna rispetto a quella deU'universo ginnastico ma che proprio dal movimento ginnastico ne ereditava una délie componenti essenziali : quella di una educazione a sfondo nazionalistico.
Sia pure a fatica lo sport (dal foot-ball, al ciclismo, al canotaggio) sostituiva o comunque conviveva nelle società ginnastiche, a partire dall'inizio del Novecento, accanto ai vecchi esercizi ginnastici.
Certo che vale forse la pena ricordare che il movimento ginnastico sottopose gli sport inglesi ad una sorta di rivisitazione in chiave nazionalistica. Pierre Milza in un saggio di qualche anno fa ha notato che l'Italia sia l'unico paese al mondo in cui il gioco più popolare del mondo non conservi la radice linguistica délia patria d'origine. In realtà non è il fascismo che ribattezza il foot-ball col nome di calcio ma è, per l'appunto, il mondo ginnastico d'inizio secolo. E questo perché i ginnasti sostengono che il football non è nato in Inghilterra ma in Italia. Giulio Franceschi in uno dei più diffusi manuali sui giochi italiani pubblicato nelle edizioni Hoepli nel 1903, il foot-ball - codificato dagli inglesi attorno alla meta dell'Ottocento - altro non era che una semplificazione del gioco del calcio fiorentino «rimandadaci dall' lnghilterra [...] semplificazione che, probabilmente soltanto pee il nome esotico è tornata subito in voga tra noi».
Certo di fronte a quella che gli osservatori d'inizio Novecento definivano la « febbre » e l'invasione dello sport inglese non tutte le realtà nazionali reagivano allô stesso modo. Se in Italia lo sport subisce una sorta di rivisitazione tesa a rivendicare le radici nazionali di alcuni sport, negli Stati Uni-ti esiste una vera e propria dinamica del rifiuto nei confronti di alcuni giochi inglesi. Il sociologo americano Andrei Markovits analizzando la scarsa fortuna che fin dall'origine ha avuto negli Stati Uniti il football è giunto alla conclusione che il rifiuto del football - sport britannico per eccellenza -da parte degli americani sottointende la creazione di una «nuova identità»
Dunque nei giochi tradizionali è la città, il villaggio, il quartiere o una determinata realtà sociale che afferma la propria identità e la propria su-premazia. Ne puô essere altrimenti perché i giochi tradizionali hanno regole e codici riconoscibili in aree geografiche circoscritte.
Lo sport muta radicalmente questa prospettiva perché, a differenza dei giochi tradizionali, è un modello ludico universale ossia si gioca allo stesso modo (con le stesse regole, le stesse modalità, gli stessi tempi) in ogni angolo del continente. E questa sua fisionomia consente il confronto con altre realtà nazionali. Se Yagon di cui parla Caillois esprime, nei giochi tradizionali la fierezza, l'orgoglio, la supremazia del villaggio o del quartiere, lo sport trasferisce quei caratteri nei confronto fra realtà nazionali enfatiz-zando la posta in gioco, cioè la vittoria, che si carica di significati che van-no ben oltre il puro fatto agonistico.
E per capire corne lo sport enfatizzi il ruolo della identità nazionale occorre riflettere sul fatto che proprio fra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento inizia l'era dei grandi confronti internazionali.
De Coubertin, allorché nei 1896 promuove i primi Giochi Olimpici ad Atene, inaugura in realtà una manifestazione nella quale l'elemento di fon-do sarebbe diventato, a suon di medaglie, la supremazia di una nazione sull'altra attraverso la competizione.
Nei 1900 si disputa fra Inglesi e Americani la prima edizione della Coppa Davis che, da subito, assume la fisionomia di uno scontro a sfondo nazionalistico fra i tennisti del Nuovo Mondo e quelli dell'antica madrepatria.
Nei calcio il primo incontro fra due squadre nazionali (Austria e Ungheria) si disputa il 12 ottobre 1902 e nei 1904 si costituisce la FIFA (Federazione internazionale delle associazioni calcistiche). La nazionale ita-liana di calcio esordirà il 15 maggio 1910 a Milano contro la nazionale di Francia.
Ed è proprio l'era dei confronti internazionali che contribuisce ad enfatizzare il binomio sport/identità nazionale, rendendo anacronistico l'aforisma decoubertiniano secondo il quale «l'importante non è vincere ma partecipare».
Lo sport diviene, a partire dall'inizio del secolo, simbolo di una supremazia non solo fisica, ma anche morale e politica délia nazione.
Questa, in sintesi, l'evoluzione del rapporto fra sport e identità nazionale nell'età libérale. Il fascismo, corne anticipato in apertura del mio intervento, avrebbe enfatizzato il mito della nazione sportiva esasperandolo anche corne simbolo di una superiorità razziale.
Johan Huizinga nei 1939 dalle pagine di Homo ludens osservava corne poco a poco nella società moderna lo sport si fosse allontanato dalla pura sfera del gioco e avesse in definitiva perduto qualche cosa délia pura attivi-tà ludica». Osservava ancora Huizinga che nelle culture arcaiche le gare rientravano nelle feste sacrali e annotava che «questo nesso col culto è an-dato completamente perduto». Fin qui Huizinga. A voler integrare il quale si potrebbe affermare che la nuova sacralità alla quale si accompagna lo sport nell'età contemporanea è appunto quella délia nazione.

Stefano Pivato

Tutto Per La Patria Manifesto per Una Italia Migliore




L’Italia esiste solo come entità fiscale. Tende a sparire come sistema-Italia, come servizi, per essere solo un espressione tributaria, una cambiale collettiva, un esercizio implacabile di esattoria. Non ci unisce più nulla ormai, al di fuori della Tassa. L’Italia, insomma si avvia a diventare un paese irreale. Non surreale, come finora si è pensato e forse sperato, confidando nelle nostre abituali risorse di fantasia di genio e di sregolatezza . No irreale nel vero senso della parola.

L’Italia appare sempre più un emanazione della tv, una costola della fiction televisiva. Una specie di realtà virtuale nel senso dei giochi di simulazione. Anche il Partito architrave di questa Italia irreale, è diventato irreale. Ha raggiunto una sua perversa trasparenza che non è sinonimo di onestà e limpidezza, ma di vacuità. Dentro non c’è niente. Se entri in un partito, è come se ti iscrivi al club di Fantomas. La tessera equivale all’anello di Gige, che rende invisibile. Varcata la soglia trovi il nulla, ti nominano cavaliere di gran croce, nel senso che devi mettere una croce sulla scheda al momento delle elezioni.. Ma per il resto? Un esercizio commerciale o poco più. L’impressione è che si stia combattendo una sotterranea ma diffusa guerra di liberazione: la liberazione dall’Italia. Cambia la prospettiva del dopo, per molti è l’Europa, per altri è il Villaggio Globale, per taluni è il Villaggio e basta, o la regione, e per altri semplicemente è il proprio condominio. Non vediamo in giro segnali di gravidanza per una nuova entità politica e culturale, oltre che economica e sociale: vediamo piuttosto l’agonia di un paese allo sfascio che celebra il suo sfascio, lo inscena e lo rende perfino spettacolare. Intendiamoci di sensazioni crepuscolari dell’Italia è piena la storia e la letteratura del nostro Paese. Ma la sensazione era, fino a qualche tempo fa, che esistesse un collante, un residuo e in fondo tenace luogo di identificazione, una risorsa persistente di identità collettiva che sopravviveva a tutte le intemperie. Adesso no, quella sensazione sembra venuta meno. Mentre parlavamo di riforme l’Italia se ne è andata. E’ venuto meno il senso di appartenenza a una identità comune, ad una nazione, un popolo o una patria, prima che uno Stato. Qualcosa d’impalpabile eppure assai concreto, che si respira nell’aria, nelle cose, nel linguaggio, nel paesaggio, nel vivere insieme, oltre che nella cultura e nella memoria.

Ad unirci resta quel che più di ogni altra cosa contribuì a disperderci, la televisione. E’ l’unica  casa comune che resta e ci consente di parlare di cose comuni con un linguaggio comune. Ma l’Italia muore di televisione.

Ci allontaniamo contemporaneamente, e con la stessa sequenza logica, dalla parrocchia e dal municipio.

Il peccato originale fu commesso dai partiti che hanno dissolto la nazione con la parola e con l’esempio, legittimando il pubblico disgusto e i privati affarissimi. Ma dobbiamo riconoscere che il Pese non è meglio della sua classe dirigente.

Certo, la forbice tra dinamismo della società e arretratezza della politica  si è allargata , la società civile si è sviluppata, mentre la società politica è scesa nel sottosviluppo. Ma se il discorso si trasferisce sulla qualità etica e civile, le due società tendono a combaciare. La piazza riproduce in scala ridotta la grande corruzione e la grande inefficienza del palazzo.

L’Italia soffre di cattiva modernità, di una immissione nello sviluppo senza contrappesi forti in termini di tradizioni e di carattere nazionale. Il male d’Italia è la tabula rasa che si è fatta di ogni identità collettiva, il rigetto di ogni radicamento nel proprio tessuto nazionale. : il puro orbitare in uno spazio vacante , in una terra di nessuno, dove siamo cresciuti in grassezza ma non in altezza, in latitudine ma non in profondità. E se il nostro problema non fosse di liberarci dalla identità italiana  ma di esprimerla al meglio? Se il nostro difetto non fosse la nostra italianità ma il nostro complesso di italianità che non ci consente di confrontarci con quel che siamo e ci destina ad esser la controfigura, la degradazione, di quel che vorremmo essere ?  Un Paese non può disegnarsi sul nulla, prescindendo dalla sua stessa realtà e dalla sua storia, ma deve tenere in mente i suoi caratteri radicali. Perché se non lo fa, non diventa un altro Paese, ma diventa la caricatura di se stesso. Su questa tabula rasa è nato un capitalismo senza radicamento etico o nazionale: una partitocrazia senza spirito pubblico e primato degli interessi generali, una democrazia senza popolo, senza valori, senza dignità nazionale.  

Abbiamo pure inventato il peggiore tipo di individualismo, quello fondato sull’irresponsabilità di ciascuno nel disinteresse di tutti.  Abbiamo consentito il dominio del privato, della sua logica e dei suoi interessi, anche laddove sono in gioco interessi pubblici e questioni generali. Mentre i settori pubblici che si vorrebbero privatizzare, non funzionano perché in realtà sono già stati privatizzati , nel senso che rispondono a puri interessi di bande, di clan, siano essi partiti, comitati d’affari, lobbies o vere e proprie cosche,

Da noi ciascuno si chiama fuori dallo sfascio, si deresponsabilizza. E’ la sfiducia assoluta che i comportamenti personali, le responsabilità di ciascuno, possano produrre qualche effetto: il cambiamento è ritenuto possibile solo dall’alto, e da parte di non precisati altri.

Ma c’è una pericolosa sovrapposizione che si tenta di far passare: la difesa dell’identità nazionale viene confusa con la difesa dello status quo, di un regime, di un assetto partitocratrico, di un sistema di potere.

In realtà le due cose non coincidono, ma la crescita dell’una è stata la causa principale del declino dell’altra.

Ripensare l’Italia non può dunque avere il senso di conservare quest’Italia: si riuscirà anzi a ripensare sul serio l’Italia solo quando si riuscirà a coniugare questo pensiero e questa concreta, vivente integrazione nel proprio Paese con l’ineludibile rigetto di “quest’Italia che non ci piace”.

Ma oggi si tratta in realtà di ripensare l’Italia che non c’è, l’Italia che non appare. Ma che esiste non solo nella memoria, ma anche nel paesaggio, nella cultura, nella lingua, nella vita di ciascuno.









Siamo Italici ancor prima di essere Italiani;

L'Italia e' una Repubblica, la sovranità' appartiene al popolo;

Il Presidente della Repubblica e' eletto direttamente dal popolo. Rimane in carica per cinque anni. 
E' capo del Governo ha potere di nomina e revoca dei ministri. E' capo delle Forze Armate e responsabile della politica estera;

La camera legislativa della Nazione e' il Senato della Repubblica, e' composto da 321 membri, dura in carica 5 anni;

La Banca d'Italia appartiene alla nazione la funzione di presidente pro tempore è svolta dal ministro dell'economia;

Sono quattro le festività nazionali della Repubblica: il 17 marzo nascita della Nazione; il 4 novembre Festa dell'Unita' Nazionale; il 2 giugno nascita della Repubblica; il 21 Aprile Natale di Roma; 

La Corte Costituzionale ha una funzione meramente consultiva;


Il processo (penale e civile) ha due gradi di giudizio. La carriera dei giudici e' separata;

Lo straniero che risiede legalmente da almeno 10 anni nel territorio italiano può fare istanza per richiedere la cittadinanza italiana;

Reddito di cittadinanza alle famiglie


Sospendere l' habeas corpus per i reati connessi alla criminalità organizzata


Abolizione delle regioni


Per appropriazione indebita di soldi pubblici deve essere prevista la detenzione in carcere; la pena deve essere commisurata all'entità del furto commesso fino a prevedere il carcere a vita.










Mons Vincenzo Lojali: Il vescovo Ardito

Vincenzo Lojali in divisa della Grande Guerra

Ufficiale ardito, sempre di esempio, partecipò alle 12 battaglie dell'Isonzo, venne ferito più volte e decorato al valore. E' all'attenzione della Congregazione delle Cause dei Santi la causa di Beatificazione di Mons. Vincenzo Lojali, vescovo di Amelia, la diocesi più piccola d' Italia, dal 1938 al 1966. Nato ad Attigliano il primo settembre 1894, Vincenzo Lojali era allo stesso tempo un cristiano ed un cavaliere, la carità è la struttura portante della personalità di Mons. Vincenzo Lojali Ad essa, nel solco francescano, dedicò non solo l'attività costante, ma anche l'insegnamento teorico, nella predicazione e nelle lettere pastorali. Nonostante ricevesse parecchio denaro dalla mensa episcopale, dalla congrua, dalla pensione militare (era invalido di guerra), dagli emolumenti per le medaglie al valore, il vescovo era sempre senza un soldo, spesso gli accadeva di girare con le calze bucate, il vecchio mantello d'ordinanza, tinto di nero, lo ha riparato dal freddo per tutta la vita. La notte di Natale del 1916, Lojali era al fronte, si sporse dalla trincea e intonò l'antifona natalizia, Hodie Cristus natus est, dalla parte opposta una voce rispose, Hodie Salvator apparuit., i soldati cantarono, almeno per quella notte mitragliatrici e fucili tacquero. Ufficiale ardito, sempre di esempio, partecipò alle 12 battaglie dell'Isonzo, venne ferito più volte e decorato al valore. Mons. Lojali partecipò sempre volentieri a manifestazioni patriottiche e non dimenticò mai nel cassetto le medaglie. Fu amico dei soldati, specialmente dei Carabinieri, in pericolo nel mantenere ordine e pace, e quindi bisognosi dell'occhio materno di Maria, la Virgo Fidelis. Il vescovo di Amelia fu devoto a Maria, sino a postulare, l'avvento dell'ora di Maria: ora di lotta, di conversione, di vita modellata sul suo esempio. Il suo operato è stato sempre caratterizzato dal valore dato alla presenza femminile. Gli anni del fascismo consentirono il superamento dell' anticlericalismo di Stato. In questo clima Mons.Lojali rimase sempre al suo posto, a fare il Vescovo, unendo alla pastorale il dovere di una' azione civica, mostrando lealtà verso un autorità che per coerenza evangelica, essendo legittima, doveva seguire in tutto ciò non ostasse la coscienza, a fare il saluto romano in qualche celebrazione patriottica, nel suo medagliere vi è anche la medaglia commemorativa della marcia su Roma, ma non esitando ad insorgere al momento in cui si compirono abusi. Così difese ad Alviano 11 marzo 1944 i giovani di Don Cinti, dall'autorità di polizia che voleva arrestarli. In seguito si distinse per l'opposizione al comunismo, ispirandosi all'insegnamento di PIO XII. Passano i tempi, i regni, gli imperi, il vescovo di Amelia, convinto della funzione sociale della religione, rivolse la sua azione a colmare la distanza tra sacerdozio e vita quotidiana, ponendo il sacerdote come elemento sostanziale della vita sociale. Dette impulso all'Azione cattolica, comprese il ruolo della comunicazione, fu particolarmente vicino all'opera dei paolini di diffusione delle sacre scritture attraverso stampa e cinema. e sostenne l'uscita del settimanale cattolico regionale La Voce. Lojali fu inoltre un sottile teologo, partecipò al Concilio Vaticano II. Il 14 marzo 1966 moriva nel suo povero episcopio, nella sua stanza un letto di ferro, un inginocchiatoio, una cassa militare contenente gli oggetti personali.



Li chiamarono... briganti!

Un Patriottismo che sappia riscoprire le ragioni del Risorgimento ma senza demonizzare coloro che furono dall’altra parte a difendere una loro idea di patria, legata a una terra, una dinastia e una chiesa.  








Li chiamarono... briganti! è un film storico del 1999 diretto da Pasquale Squitieri, incentrato sulle vicende del brigante lucano Carmine Crocco. 


Buona visione film completo





Li chiamarono Briganti 

Terni: La Casa del Combattente obbedisce alla legge dell'Amore



La Società Terni per l'Industria e l' Elettricità, con atto del 17 gennaio del 1938 a rogito del Notaio Federici, donò alla Federazione Provinciale dei Combattenti di Terni un terreno seminativo al Vocabolo Fiori di 747,90 mq. La donazione fu fatta e accettata alla espressa condizione che il terreno venisse adibito unicamente per la costruzione della Casa del Combattente e del Mutilato. La Federazione Combattenti di Terni e la sezione dell'Associazione Mutilati ed Invalidi di Guerra di Terni costruirono a proprie spese la Casa del Combattente. Il 4 giugno del 1940 nel gabinetto del Presidente della Provincia di Terni si dettero appuntamento, di fronte al notaio Ernesto Talamanca, il professor Ascanio Marchini in qualita' di Presidente della Federazione provinciale combattenti di Terni e il marchese Mario Chiavari nella sua qualità di presidente dell'Associazione Nazionale fra Mutilati ed Invalidi di Guerra. Le due associazioni erano pervenute nella determinazione di ripartire tra loro la proprietà e quindi l'uso dell'immobile. Infatti sebbene l'intestazione del terreno donato sia stata eseguita a favore della Federazione Combattenti, che ha accettato la donazione, la proprietà dell'immobile costruito è comune alle due associazioni.
La decisione fu preceduta da una delibera del Direttorio della Associazione Nazionale Combattenti, il presidente nazionale Amilcare Rossi scriveva nella delega al Marchini:
 " concedo al prefato procuratore ogni più ampia facoltà, nessuna esclusa ed eccettuata fino al buon esito dell' incarico fin da ora avendo rato il di lui operato". Mentre il presidente dell'Anmig aveva la delega del Commissario del Governo dell'Associazione Nazionale Carlo Delcroix.


Galleria fotografica La Casa del Combattente 2013


Ingresso



ingresso

facciata laterale

facciata

interno

il retro

le scalinate

ingresso