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17 marzo un compleanno per l'Italia






L'Italia non ricorda più il suo compleanno. Nacque il 17 marzo del 1861 in Torino, con la proclamazione del Regno d'Italia, Non nacque forse sotto i migliori auspici, e non tanto per ragioni di superstizione, perché vide la luce un Diciassette. né tanto per ragioni stagionali, perché nacque marzaioia e del mese d'origine ereditò l'instabilità. Ma per ben altro; perché quando nacque era uno stivale con un buco al centro, senza Roma. E nacque a Torino da un Sovrano che forse non ebbe il buon gusto di proclamarsi primo re d'Italia, preferendo restare Vittorio Emanuele II, come se continuasse un po' esteso il suo regno "piemontese". Forse non fu neanche bello nascere davanti a un Parlamento che nemmeno formalmente rappresentava la sovranità popolare, ma solo il due per cento degli italiani: quattrocentomila votami su venti milioni e passa d'italiani. Ma così è la storia, se vi pare. E non solo quella d'Italia.
Il genetlìaco nazionale, di solilo, passa sotto silenzio, e non per una questione di buon gusto verso le signore dì età avanzata. Tanto più che l'Italia, una signora tanto vecchia non è; e se ha raggiunto da un pezzo la terza età, le manca ancora la maturità. Vive da decenni in una specie di adolescenza fossile, in cui ha bisogno nei momenti decisivi di essere accompagnata dai genito­ri. Che un tempo erano magari la Chiesa o lo Slato assistenziale e omni facente, l'Alleato paterno o patrigno, ed oggi sono l'Europa e il Mercato.
Comunque sia, non è bello vivere in un Paese che non festeg­gia il suo compleanno. Tutti i paesi civili e incivili hanno una loro festa nazionale. Legata al giorno dell'Unità o alla proclama­zione dell'Indipendenza, ad una guerra vìnta o ad una carta costituzionale.


Da noi le feste che c'erano ce le siamo giocate strada facendo in una gara d'amnesie e fariseismi. Si cominciò col depennare il Natale di Roma, ritenuto troppo lontano, troppo retorico-imperiale ed anche fascista. Seguì a ruota il 4 novembre, ridotto al rango di celebrazione itinerante, come un nomade con roulotte, spostato alla prima domenica novembrina. Scese in disuso anche il 2 giugno che era la festa della Repubblica ma conservava sotto traccia una stratificazione che ammiccava alla natura anfibia degli italiani, ricordando un po' la festa monarchica dello Statuto albertino del 4 marzo. Restò in piedi solo la festa che non celebrava l'Unità d'Italia ma la sua divisione, il 25 aprile. Ma anche la festa della Liberazione è scesa in sordina, soprattutto da quando gli stessi storici antifa­scisti e partigiani hanno accettato di definirla una guerra civile. E adesso? Niente, siamo un paese dì trovatelli o di arteriosclerotici che non ricordano nulla. Certo, non sono le feste a garantire l'identità nazionale di un Paese; anche se il nostro, per lunghi secoli, fu dominato dalla triade di feste, farina e forca, nipotine del romano panem et circenses. Ci vuole ben altro per ricostrui­re il tessuto sfibrato di una nazione. Verissimo. Ma da qualche parte si deve pure incominciare, anche con un simbolo. E se per le riforme ci vogliono i cataclismi  i dosaggi e le contorsioni virtuose di un sistema fondato sulla mediazione, per proclamare una festa basta un po' meno. Anche un'esternazione del Capo dello Stato. O meglio, un decreto presidenziale.
Potrebbe essere quella la data, il 17 marzo, in cui, bene o male, nacque l'Unità d'Italia. Potrebbero essere altre. Ma non sarebbe male cominciare dal Risorgimento. Non abbiamo mai amato la retorica che si spese intorno al Risorgimento, ma fu quello il primo atto politico della Nazione. Ed è quello un punto di partenza un po' più distante di altri, e dunque sottratto alle polemiche e alle intemperie del nostro secolo. Ed anche più ade­guato, per ragioni di età e di clima, al nostro tricolore e al nostro inno nazionale.  La nostra storia è stata scandita al suo canto, e dobbiamo tenercelo. Anche per rispetto di quanti, e non furono pochi, fecero dell'Inno di Mameli la colonna sonora della propria vita e persi­no della propria morte. Insomma, fuor di anticaglie retoriche,   è il caso di ripristinare il compleanno nazionale.

Se coinciderà con la fine dell'Italia sarà perlomeno l'ultima volontà in articulo mortis di un Paese, la sua estrema unzione per darle onorata sepoltura. Se invece si accompagnerà alla ripresa di quell'identità nazionale che altrove fiorisce, allora sarà ii simbolo e la sveglia per un paese che non vuole aspettare il futuro come la bella addormentata nel bosco. Anzi nel sottobo­sco.