Serauta 1916 - Carlo Delcroix in postazione al comando di una mitragliatrice "Shwarzlose" catturata al nemico |
di Giano Accame
Fra tutte le forme di primato intellettuale la più difficile da trasmettersi è quella dell'arte oratoria.
Un tempo si salvava appena il testo, ma si perdeva la voce.
Ora anche la voce può salvarsi coi registratori, ma si perde
pur sempre quell'elemento caratterizzante e insostituibile che è l'atmosfera.
Il grande oratore assai più dell'attore o del cantante è
inseparabile dal suo pubblico e dalla emozione che riesce a trasmettergli e
che gli si riverbera.
L'autenticità della emozione è in qualche modo garantita dal
carattere irripetibile del discorso.
Anche l'attore e il cantante trasferiscono delle emozioni,
che discendono però da delle imitazioni ripetitive: le situazioni sono
inventate; i testi non sono loro; sono stati già recitati chissà quante volte;
ed anche quella tale particolare interpretazione voi sapete che potreste
ascoltarla esattamente identica la sera dopo.
La grande orazione, invece, è una cosa unica, vera, e chi
parla è la stessa persona che ha pensato le cose che dice o che se ne assume
comunque la responsabilità.
Non si ripete l'arringa a un processo celebre. Possono
ripetersi dei comizietti di periferia, ma non un grande discorso politico.
Chi vi assiste soddisfa a qualcosa di più di una semplice curiosità
o piacere dell'intelletto. Non è solo uno spettatore come a teatro ma si sente
anche personalmente coinvolto, compartecipe di un messaggio, parte di un
progetto, testimone di una parola, di un verbo che si fa avvenimento.
Questa vibrazione di anime, questo incontro di sentimento
tra il pubblico che ha assistito a un discorso e l'oratore che lo ha
pronunciato, la registrazione non potrà più trasmetterlo. Tanto meno la
versione scritta, che non restituisce la voce, le pause, gli accenti, le espressioni
del volto, il gestire.
La grande orazione è il miracolo di un momento e, per quel
tantissimo che di essa si perde appena il momento è trascorso, sono poche le
orazioni, pochi gli oratori che si tramandano: Lisia, Demostene, Cicerone,
Bossuet.
Noi ricordiamo oggi uno dei grandi oratori del nostro
secolo, Carlo Delcroix. E se ai giovani, che non l'hanno sentito, sarà
difficile trasmetterne una impressione, i più maturi fra noi potranno aiutarsi
frugando nell'animo alla ricerca di passate emozioni e ricordi. Perché non c'è
nessuno che abbia udito Carlo Delcroix e possa essersene dimenticato.
Delcroix è stato con Mussolini il più suggestivo oratore di
quel periodo, che noi oggi, con una forma asettica di eufemismo, usiamo
definire « tra le due guerre ».Diciamo che è stato il secondo oratore di quel
periodo, dopo Mussolini, la cui oratoria - grandissima - si avvantaggiava
peraltro rispetto a quella -altrettanto se non più grande - di Delcroix, di avere
come Capo del Governo più cose da dire: dichiarazioni di guerra, proclamazione
di un Impero, fondazione di nuove città a cui si ordinava di emergere in pochi
mesi col sudore dalle paludi, sicché i discorsi di Mussolini non solo erano avvenimenti
ma annunziavano avvenimenti, si confondevano - nel bene come nel male - con il
destino.La parola di Carlo Delcroix, presidente dei mutilati, non era
altrettanto dotata dei poteri di cui si carica quella di un dittatore. Il puro
elemento dell'arte oratoria prevaleva in lui rispetto all'intensità e drammaticità
degli annunci. Ma anche in lui il verbo si faceva pietra e palazzo, come
testimoniano le case dei mutilati numerosissime in tutta Italia.
Case per le singole famiglie dei mutilati di guerra e case
per la associazione, a cominciare dalla Casa Madre di Roma, progettata dall'ex
combattente Marcello Piacentini come un tempio di fede guerriera, come un
austero castello di fronte al Tevere tra la Mole Adriana ed il
Palazzaccio.Furono chiamati ad ornarla dei pittori e scultori ex combattenti
come Cipriano Efisio Oppo, Mario Sironi, Antonio Giuseppe Santagata, Arturo
Dazzi, Giovanni Prini, Romano Romanelli.
Questo inconfondibile documento dello stile di un'epoca è
destinato, piaccia o non piaccia, a trasmettere nel Duemila un orgoglio
monumentale che si è interrotto nella successiva epoca dei palazzinari, dove
il coraggio si è piuttosto diretto alle sfide meno ambiziose della
speculazione.
Altre case dei mutilati sorsero, esempi significativi e
imponenti dell'architettura moderna, a Milano, Genova, Napoli, Palermo, Bari,
Ravenna, in gara con le case del balilla, le case del fascio e gli altri
edifici pubblici particolarmente frequenti in quell'epoca come prefetture,
palazzi di giustizia, delle poste.
Ma possiamo esser certi che le case dei mutilati non
sarebbero sorte se non ci fosse stato Delcroix e la sua azione di orgogliosa
rivendicazione dei sacrifici sofferti nel nome della Patria.
Egli le concepì nella religione della Patria, così come
certi santi, concependo un ordine, hanno segnato al tempo stesso nei secoli e
nella pietra il volto della città.
Penso a
San Filippo Neri con il complesso bor-rominiano dell'oratorio e la Chiesa Nuova ed a
Sant'Ignazio con le grandi isole gesuitiche del Collegio Romano,
dell'Università Gregoriana alla Pilotta.
La Casa madre dei mutilati fu costruita coi
mezzi che Carlo Delcroix raccolse in un giro di conferenze fra le comunità
italiane del Sud America.
E già
questo fatto, questa capacità della parola di trasformarsi in risorsa
finanziaria ed in pietra, in palazzo, può servire a metterci in guardia dall'accusa
più frequente lanciata alle orazioni di Carlo Delcroix: quella di fare della
retorica.
Perché o per retorica
si intende l'arte della parola, la tecnica del discorso, il complesso degli accorgimenti
che l'oratore impegna per accrescere la propria efficacia sull'uditorio: e
allora è evidente che quest'arte Delcroix la praticava bene, parte per dono
istintivo, naturale e parte per averla poi coltivata con rigore di studi e di
riflessioni, con una preparazione ed una concentrazione estenuanti, che lo
facevano uscire da ogni discorso fradicio di sudore.
O per
retorica si intende un vano tintinnare di orpelli, quasi un suono di parole
vuote ed al]ora dobbiamo dire con piena coscienza che non potevano essere
prive di senso le frasi per cui tanta gente accorreva, si accalcava, si
emozionava; né prive di conseguenze pratiche quelle parole da cui uscirono
centinaia di imponenti palazzi.
Certo: quelle parole corrispondevano a dei sentimenti di
orgoglio nazionale, di devozione alla Patria, che oggi non sembrano più di
moda.
O meglio: che per alcuni decenni erano tramontati, come
reazione all'abuso che se ne era fatto, alla sconfitta che ne era derivata, e
che oggi
tornano a
germogliare ancora timidamente non solo sui campi sportivi, ma anche nei nostri
corpi armati inviati in azione di pace all'estero, dal Libano al Golfo
Persico.
Direi addirittura qualcosa di più, anche se la prosa di
Carlo Delcroix come quella di Gabriele D'Annunzio - di cui Delcroix conservava
delle splendide dediche - soffre innegabilmente per una certa sovrabbondanza ed
eccessiva ricchezza di immagini: se per retorica si intende il compiacimento
un pò logorroico per lo sconfinato fluire delle parole, quella fu un'epoca di
oratoria straordinariamente misurata nei tempi, tacitiana, spartana, concisa.
Mussolini annunciò l'Impero con un discorso di pochi
minuti. Durarono più le acclamazioni e gli applausi delle parole.
Così gran parte dei discorsi celebrativi pronunziati
da Carlo Delcroix occupano poche pagine di testo scritto: non possono essere
durati più di mezz'ora e diversi di loro non più di dieci minuti.
Ho provato a rileggere con l'orologio alla mano il discorso
pronunciato il 4 novembre 1928 alla presenza del Re e del Duce per
l'inaugurazione della Casa Madre e ci ho messo quattro minuti.
Se li paragoniamo ai più commentati momenti
dell'oratoria politica odierna, alle ore che impiegava Aldo Moro o che, nel suo
terribile accento, impiega Ciriaco De Mita per una relazione al congresso del
partito, non possiamo non stupirci della concisione di allora.
Pur rappresentando spesso eventi indimenticabili, allora i
discorsi erano riempiti soprattutto di attesa.
Ad allungare quegli incontri con la folla contribuivano
i tempi talvolta estenuanti delle adunate, perché non si andava ad ascoltare da
soli, così come si va oggi ad una conferenza o a un comizio.
Chi di noi è stato balilla ricorderà questa coralità organizzata.
Si andava inquadrati, ognuno nella propria organizzazione,
i ragazzi si radunavano nelle palestre delle loro scuole, e c'erano tempi di
raccolta e di attesa, che avevano l'effetto di portare la sensibilità a fior
di pelle.
Non erano solo discorsi,
erano riti di una religione guerriera, nei quali la predica rappresentava solo
- come oggi alla Messa - una parte della cerimonia.
Di quella religione a buon titolo Carlo Delcroix era
testimone, martire, sacerdote.
Ed anche ciò che si poteva immediatamente vedere del suo
sacrificio, ciò che si poteva intuire della sua sofferenza, aggiungeva forza di
sincerità a quel che diceva.
Poteva, beninteso sbagliarsi. Ma su una cosa non c'era ombra
di dubbio: aveva pagato di persona, continuava a farlo.
Questo prezzo di sangue, il sacrificio degli occhi,
quello delle mani, la gente non lo recepiva come retorica. Lo sentiva come
valore.
Carlo Delcroix aveva ancora la nazionalità belga
allo scoppio della prima guerra mondiale.
Il nonno era un minatore del Borinage, che era riuscito a
trasformarsi in imprenditore ed era venuto in Italia a costruirvi le ferrovie
in diverse zone del Mezzogiorno. Il padre era nato in Puglia durante la
costruzione di una ferrovia e dopo la seconda guerra in quella regione Carlo
Delcroix fu eletto deputato per il Partito Nazionale Monarchico di « Stella e
Corona ».
La famiglia si era poi trasferita a Firenze toscanizzandosi
completamente.
Nato il 22 agosto 1896 a Firenze, Delcroix aveva frequentato una
delle scuole di don Bosco e da questa esperienza conservò sempre una profonda
religiosità. Nel 1914 aveva presa a pieni voti la maturità classica e
partecipato come studente alle dimostrazioni dell'interventismo.
Scoppiata la guerra optò per la nazionalità italiana per
partire subito volontario coi Bersaglieri.
Fece la scuola allievi ufficiali e come aspirante partecipò
con il III Reggimento bersaglieri nell'aprile 1916 alle operazioni della
conquista del Col di Lana; poi come sottotenente nel maggio alla conquista del
Monte Sief. In agosto prese il comando di una sezione di lancia torpedini, poi
per tre mesi fu al comando di una sezione di mitragliatrici a 3.065 metri sul
Marmolada in un inverno rigidissimo senza possibilità di riscaldamento e con
inaudite difficoltà di rifornimento.
Nel febbraio 1917 fu promosso tenente ed assunse l'incarico
di istruttore dei reparti arditi sul lancio delle bombe a mano.
La sera dell' 11 marzo
1917, leggo dal rapporto steso subito dopo dal comando del III Bersaglieri
insieme alla proposta per la medaglia d'argento, Delcroix « era alla mensa
ufficiali quando fu avvisato che un bersagliere recatosi imprudentemente nel
campo di tiro era saltato in aria per una bomba. Il poligono per la caduta di
neve non era stato sgombrato dalle bombe inesplose. Egli si recò sul luogo con
gli altri ufficiali e soldati; constatata la morte dell'infelice fece
allontanare i presenti, dispensò la squadra di servizio per non esporla a
rischi gravi e volontariamente, con calma, si mise di persona a liberare la
zona dagli ordigni inesplosi ».
Uno degli ordigni gli scoppiò fra le mani troncandogliele,
lo accecò, gli riempi il corpo di centinaia di schegge. L'ultima impressione
visiva che gli era rimasta fu, dunque, quella del bersagliere morto in cui,
dopo avergli liberato dalla neve il volto martoriato, si era quasi
rispecchiato, come in un presagio. E, comunque, come in un ammonimento di
grave pericolo, per cui aveva fatto allontanare tutti e si era messo
personalmente, da solo, a bonificare il campo invece di incaricarne i soldati,
come avrebbe probabilmente fatto qualche ufficiale appena un pò meno
scrupoloso.
Lo ha poi
ricordato in una poesia intitolata:
LO SCONOSCIUTO
Sotto
la neve che celava un volto vidi me stesso, quale sarei stato, e da quel gelo
non mi son più tolto: non so da quale voce fui chiamato
o
chi dentro di me fosse in ascolto, e come se mi avessero portato corsi alla
riva dove fui raccolto, dove vicino a te fui ritrovato.
La
morte non temuta in campo aperto da solo avvicinai senza sospetto, e con lo
stesso telo fui coperto:
da
allora invano la mia pace affretto, poiché in audacia la pietà converto ogni
volta che interrogo il tuo aspetto.
Aveva
vent'anni e già una densa esperienza di guerra alle spalle quando dovette
affrontare il calvario degli ospedali ed il devastante sgomento di una vita da
proseguire come grande invalido.
Attraversò
momenti di disperazione, rimpiangendo di non essere morto.
Una
delle sue poesie più strazianti è quella dedicata al momento in cui,
rendendosi conto di non vederci e quindi già attanagliato dal sospetto della
cecità, si accorse d'aver perso anche le mani.
E' intitolata:
PREGHIERA
Ebbi
allora il sospetto delle mani che mi pareva fossero tenute; e fui assalito da
terrori insani di colpe antiche sopra me cadute.
Ripercorsi
dai giorni più lontani la via delle promesse inadempiute, e senza più lusinga
del domani mi dolse delle gioie non godute.
Non osavo me stesso interrogare
e feci l'atto delle
mani giunte,
di quando mi segnavo
per pregare:
a
quel modo tentai di unir le punte
e fu lo stesso che
precipitare
da un'altezza di sponde
non raggiunte.
Otto mesi dopo, la notizia della disfatta di Caporetto lo
raggiunse in ospedale a Firenze. Un senso di sgomento si diffuse tra le corsie.
I mutilati, che davano un senso al loro sacrificio come contributo alla
vittoria italiana, per la riunificazione di Trento e Trieste all'Italia, si
trovarono di fronte alla prospettiva vanificante della scon-fitta.Delcroix tra
i vivi era quello che aveva sacrificato di più. Si levò dal suo letto di
angoscia a parlare per rincuorare i compagni e scopre dentro di se quelle risorse di un eccezionale talento oratorio, che ben presto lo
fecero richiedere da ogni parte.Fu con Fulcieri Paolucci di Calboli il più
appassionato ed efficace animatore della resistenza nelle caserme e nei
teatri d'Italia.Come i suoi fratelli alto, biondo, con gli occhi azzurri, di
estremo vigore, da ragazzo era stato manesco e tornò ad esserlo nel dopoguerra,
quando senti beffeggiare la vittoria ed i sacrifici che erano costati. A
Firenze, a Campo di Marte, con il fratello Nicola, prima ancora che certe
offese per reazione suscitassero lo squadrismo, sfasciò una bottega di barbiere
dove fu accolto con il commento che si era ben meritata la perdita delle mani e
degli occhi, perché era stato uno di quegli studenti che avevano voluto la
guerra.
Mentre il fratello Nicola era alle prese a pugni coi mascalzoni, Carlo
con le mani di legno andò a cercare i lumi, le vetrine, gli specchi,
spaccandoli ad uno per uno.
E' un episodio di cui ho avuto notizia confidenziale a che
qui rivelo, perché è doppiamente importante.Perché serve, da un lato, a
conoscere il personaggio anche nei suoi aspetti violenti, nella sua vitalità
prepotente, a non confonderlo con una specie di immaginetta lagnosa, di santino
laico
Dall'altro, perché certamente episodi di questo genere
devono aver contribuito a ridargli un senso di sicurezza, fiducia in se
stesso, nella possibilità appunto di poter essere ancora qualcosa di diverso da
una semplice vittima della guerra, destinata ad incutere solo mormorii di un
compatimento che non sopportava, che considerava anzi tra le conseguenze
peggiori della sua disgrazia.Soprattutto doveva essere molto importante per
lui, a 22 anni, non sentirsi soltanto una voce, ma provare a se stesso di
potere ancora contare, al di là delle orrende mutilazioni, su una propria prestanza
fisica.Essenziale questa coscienza della propria forza anche per poter tornare
ad osare e credere nell'amore, che infatti di li a poco giunse con Cesara
Rosso di San Secondo, la meravigliosa, splendida figura di donna, che egli non
vide mai, così non ha mai potuto vedere i figli e i nipoti, e gli fu sposa e
compagna di lavoro intelligente per tutta la vita.Un pò manesco continuò ad
esserlo sempre, anche da vecchio, quando, lui monarchico, in una seduta di
commissione alla Camera, con un colpo ben preciso della sua mano di legno
riuscì ad assestare un ceffone facendo cascare gli occhiali ad un collega
democristiano che si ostinava a rifiutare le pensioni ai mutilati della
Repubblica Sociale Italiana.Ricordo con quanta soddisfazione lo raccontasse,
soprattutto per la padronanza di udito che aveva guidato lo scatto: non
vedendoci e non volendo rischiare di colpire un altro era riuscito a orientarsi
perfettamente sulla voce dell'avversario. Quando nel primo dopoguerra riprese a
parlare rivendicando i valori della vittoria come esponente del movimento dei
mutilati gli capitò anche di subire violenze, come a Volterra, ove fu
rovesciato a forza da teppisti urlanti dal piedistallo del monumento a
Garibaldi ove egli parlava alla folla.
A
Milano a mettergli le mani addosso fu addirittura la polizia, che giunse a
strappargli gli apparecchi mentre cercava di impedirgli un grande comizio a
favore di Fiume e della Dalmazia italiane.
Anche di queste violenze subite, inclino a credere che egli
fosse al tempo stesso arrabbiato e felice.
Ma
soprattutto felice perché chi gli metteva le mani addosso, superando la
compassione, in fondo lo aiutava a non rinchiudersi, a non rassegnarsi nella
parte del grande invalido ed a sentirsi il più possibile vicino alla normalità.
Fu un grande
organizzatore. Prese l’Associazione dei mutilati e invalidi di guerra, che
vegetava in un appartamentino, e ne fece una potenza rappresentativa durante
il regime.
Certo: fu facilitato dal clima patriottico su cui il regime
fascista basava la la propria investitura nazionalpopolare. Ma la gratitudine
non è di questo mondo, se uno non la sa adeguatamente sollecitare, ed i
mutilati hanno trovato in Delcroix un abile sindacalista, che ottenne per loro
pensioni, lavoro, alloggi, assistenza e soprattutto il rispetto.Le vignette di
George Grosz, che mostrava i mutilati di guerra ridotti alla mendicità nella
Germania di Weimar, sarebbero state inconcepibili nell'Italia di Carlo
Delcroix.Fu eletto Consigliere comunale a Firenze nel 1920 e deputato, in
rappresentanza dei mutilati, nel 1924. Dopo vent'anni di dedizione alla Associazione
dei mutilati ne fu espulso per averla « asservita al fascismo » e ne restò
epurato sino alla vigilia della sua morte, per il timore che ripresentandosi
potesse venire rieletto quasi plebiscitariamente alla presidenza da una base
che non lo aveva dimenticato.Analoghe qualità organizzative dimostrò lanciando
il Maggio musicale fiorentino di cui fu fondatore e primo presidente.La musica,
si pensa immediatamente, è il rifugio naturale del cieco, che la sente con più
intensità, tanto che persino molti melomani preferiscono gustarsela ad occhi
chiusi.
Ma Delcroix, che non si
era mai completamente rassegnato a non vedere, colse l'occasione del Maggio
musicale fiorentino soprattutto per rinnovarvi la regia e la scenografia,
invitando grandi registi anche stranieri ad impostare la parte spettacolare
delle manifestazioni musicali e grandi pittori, tra cui De Chirico, a
disegnarne le scene.I suoi libri conobbero uno straordinario successo. Si
trattò in parte di raccolte di discorsi, dal primo « Dialoghi con la folla »
del 1921, a
« Il sacrificio della parola » del 1924, a « La parola come azione » del 1936,
sino all'ultimo « Quando c'era il Re » del 1959 ove commosse particolarmente
il ricordo dedicato al Duca d'Aosta, morto in prigionia degli inglesi, e quello
della principessa Mafalda, morta in circostanze orrende nel campo di
concentramento tedesco di Buchenwald.Scrisse anche dei racconti lirici in «
Sette santi senza candele » del 1925, rievocazioni storiche in « Guerra di
popolo » ed una biografia di Mussolini intitolata « Un Uomo e un popolo ».E
poesie, che continuò a limare per tutta la vita e raccolse in edizione
definitiva in « Val Cordevole », pubblicato nel 1968. Anche qui il gusto della
concisione: il libro è composto interamente di sonetti. E' uscito
postumo (Carlo Delcroix morì dopo lunga e dolorosa malattia il 26 ottobre
1977), in edizione fuori commercio un libretto di meditazioni religiose su un
suo « Viaggio in Terrasanta » per cui aveva preparato una premessa nel 1975..Cosa potessero significare
i suoi libri per i credenti nei valori di Dio e della Patria l'ho appreso da
un caro e celebre amico, Fra Ginepro da Pompeiana, che Marinetti nel suo «
Poema africano della Divisione 28 ottobre » ha citato fra i poeti futuristi che
hanno partecipato all'impresa etiopica.Come padre cappuccino Fra Ginepro aveva
scelto il saio francescano con il preciso proposito di fare il cappellano
militare, servendo appunto la doppia fede di Dio e della Patria, e, nei giorni
obbligatori di solitaria meditazione che precedono i voti, aveva chiesto una
speciale dispensa per poter portare nella sua cella, insieme ai Vangeli, «
Sette santi senza candele » di Carlo Delcroix.Queste opere sono oggi quasi
completamente dimenticate, così come trascurato è il personaggio, che pure
meriterebbe una monografia. In parte ciò dipende, come si è notato, dalla sorte
piuttosto dispersiva dell'arte oratoria.C'è però un monumento letterario della
nostra epoca, i « Cantos » di Ezra Pound, « Divina Commedia » del secolo XX,
in cui Delcroix è nominato almeno cinque volte col cognome nei canti 88, 92,
95, 97 e 101 ed al canto 107 come « Uncle Carlo », lo zio Carlo.
Si
conoscevano bene e Pound tornò a trovarlo nel 1959, mentre Delcroix si trovava
in villeggiatura in Riviera, a San Michele di Pagana, dopo i tredici anni
trascorsi a Washington in manicomio criminale: una afflizione di tipo
sovietico, che gli americani fecero scontare al loro più grande poeta, perché
nella loro presunzione non riuscirono a spiegare altrimenti che con la follia
le preferenze di Pound per l'Italia fascista.Nel canto 92 della Sezione «
Rock-drill » si legge parzialmente in italiano:
« Io porto »
sd/Delcroix
« la cecità » for I forget
how many ten thousand Italians. « Two evils:
Usury
in the bank rot & theft in les soc/ anonymes. »
Grabbed his phone and called un ministro.
Nella traduzione di Mary de Rachewiltz, la figlia di Pound:
« Io porto / la cecità » per non so / quante migliaia d'italiani, / disse
Delcroix / « Due mali: / usura nelle luride banche / e furto nelle società
anonime. » / Prese il telefono e chiamò un ministro.Anche da altri passi dei «
Cantos » risulta l'importanza del rapporto intellettuale su problemi
poetici, politici ed
economici, tra Delcroix
e Pound, che in « Guida alla cultura » ha scritto: « Mussolini ha detto
al suo popolo che la poesia è una necessità per lo Stato, e Carlo Delcroix è
convinto che i poeti dovrebbero « occuparsi di queste cose », cioè del
credito, della natura della moneta, delle questioni monetarie ecc. Questi due
fatti indicano uno stato di civilizzazione più elevato in Roma che in Londra o
Washington ».Tali citazioni verranno sicuramente indagate e ristudiate nel
Duemila.Delcroix: come era nell'intimità?Le menomazioni fisiche lo rendevano talvolta
impaziente, mai avvilito e piegato.Non solo era un uomo che non si è mai
arreso, ma che non ha mai recitato.Glielo avrebbe impedito, se ne avesse mai
sentita l'inclinazione, lo spirito fiorentino, troppo caustico ed autocritico
per permettergli di vivere in posa, di fare, come volgarmente si dice e si può
immaginare, il trombone.I tre figli e gli otto nipoti, in fondo, non si resero
mai perfettamente conto della sua invalidità. Di eccezionale in lui avvertivamo
piuttosto l'animo, l'intelligenza, che non la gravità delle menomazioni
fisiche.Ma scherzava volentieri, si interessava di tutto ed anche
l'intelligenza non la faceva pesare.Non ci sarebbe riuscito se non avesse
incontrato, con quella fortuna che è degli eroi, una donna
altrettanto eccezionale, che gli sostituì gli occhi e le
mani per il resto della sua esistenza.
Vissero in simbiosi ed è impossibile ricordare l'uno senza ricordare
anche la virtù italica della figura bella, slanciata, elegante, che dal
gennaio 1921 gli fu sempre accanto.In oltre mezzo secolo di matrimonio Cesara
Del-croix non ha più mangiato un pasto caldo, perché ad ogni portata che
arrivava in tavola prima imboccava il marito.L'integrazione non fu solo
fisica, fu intellettuale.Ricordo che tornando con mia moglie da un viaggio a
Parigi fummo interrogati minuziosamente sul Louvre, che Delcroix rammentava
sala per sala, avendolo visitato da cieco, ma con lei accanto che glielo
spiegava.Per aiutarlo usava confronti con i capolavori delle gallerie
fiorentine di Pitti e Palazzo Vecchio di cui Delcroix manteneva una forte
impressione visiva avendole potute vedere quando era ragazzo. Così la moglie
non solo riuscì a sostituirgli la vista tenendolo sempre perfettamente al
corrente nelle letture, in questo integrata col tempo da dei segretari, ma
anche in esperienze visive molto più complesse, la cui trasmissione richiedeva
doti fuori del comune di intelligenza e di sensibilità.Sicché il ricordo di
Carlo Delcroix, a poco più di dieci anni dalla sua morte, mi sembra non potrebbe
chiudersi più coerentemente che suggellandolo con la lettura di questo sonetto
dedicato a sua moglie. E’ intitolato:
Cesara Rosso di San Secondo |
LA PROVVIDENZA
Quando
pareva che l'esausto cuore si fosse chiuso insieme alla ferita, e la malinconia
dopo il dolore si fosse dei miei giorni impadronita;
quando
non davo peso né valore alla impetrata grazia della vita, a me venisti
intrepida d'amore e la gioia mi fu restituita.
Prima
che il grido diventasse canto, e giacevo a me stesso sconosciuto, sentii che il
cielo mi passava accanto:
da
quel momento non ho più saputo
che fosse grave l'ombra
o amaro il pianto;
e scordare si può di aver veduto.
.