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Contro il sostituzionismo


Qual è il contrario della Grande Sostituzione? Qual è la buona ragione, in fin dei conti, affinché sia un popolo e non un altro a dover vivere in un dato territorio? Non è forse vero, come ci ripetono le élite immigrazioniste, che nessuno di noi è originario o autoctono, che le radici possono essere “decostruite”, che l’identità è un’illusione?
Il sostituzionismo è come un Dio terribile per cui tutti gli uomini sono uguali e intercambiabili, dato che gli sono indifferenti. Il contrario del sostituzionismo è non solamente l’identità, ma il carattere “insostituibile” degli individui e dei popoli. L’esilio ha una sua nobiltà tragica e metafisica, certo, ma non c’è esilio che a partire da un fondo di appartenenza. È la propaganda cosificante che pretende di decostruire l’essere. Amo più la morale de I nutrimenti terrestri, di Gide: “Non legarti in te se non a ciò che senti non essere altrove che in te stesso, e crea di te, impazientemente o pazientemente, ah! il più insostituibile degli esseri”.

Quando l' immigrazione selvaggia travolge una società, come in Euroamerica, il pericolo di stupri lo devi mettere in conto




Quando una immigrazione selvaggia travolge una società, come sta accadendo nell' occidente americanizzato, il pericolo di stupri lo devi mettere in conto, indipendentemente da questioni che riguardano la razza o la religione. Dobbiamo però riconoscere che  c'è una componente particolare nella cultura araba, non generalmente Islamica, nell'Islam esistono visioni diverse e interpretazioni diverse della religione, dovute anche a fatti culturali, ed etnici, basta guardare l'Iran e l'Arabia Saudita ed osservare il ruolo totalmente diverso della donna nella società e io aggiungerei anche la tolleranza verso le altre fedi. Ricordiamo anche che il Mullah Omar, che pur rappresenta un Islam quattrocentesco, si distinse per la durezza con cui reprimeva lo stupro, nei villaggi dove una donna veniva stuprata, il Mullah si presentava, prendeva lo stupratore che finiva velocemente appeso ad un palo nella piazza principale. Gli Afghani e gli Iraniani non sono Arabi. Ricordiamo quello che è accaduto nel 2013 in Piazza Tahrir, alle reporter di France 2 e Cbs, e ad una incauta turista olandese. Quindi c'è sicuramente nel mondo arabo, come in altre realtà, penso all'India, una certa propensione allo stupro di massa. Con questo non voglio dire che tutti gli Arabi sono uguali, ma è un fatto di cui occorre tenere conto. Anche i fatti accaduti nel territorio dello Stato Islamico sono elementi di valutazione. C'è un altro fatto da aggiungere, basta andare alla memoria di quanto è accaduto in Italia con l'ingresso di centinaia di migliaia di romeni, gli stupri si sono moltiplicati, è il risultato del fatto che l'elemento sessuale è una componente importante nella vita delle persone, si badi che con questo non voglio essere giustificativo di alcunchè, ma solo dire che tecnicamente nella gestione di un fenomeno migratorio importante che riguarda centinaia di maschi adulti, chi governa o dovrebbe governare, questi flussi dovrebbe tenerne conto. Quando pretendi di governare un fenomeno, tenevi tenere conto delle ricadute che questo ha nella società reale.
 Ad esempio con l'entrata della Romania nell'area Schengen nel 2007, centinaia di migliaia di cittadini romeni sono entrati in Italia, tanto che già nel 2008 la comunità romena con 796.477 si classifica come prima comunità straniera sul territorio nazionale, nel 2008 saliva a 887.763 presenze. Nel 2007 è stato registrato un aumento dei casi di stupro addirittura del 5% rispetto al 2006, da 4.821 a 5.062 episodi. Roma ad esempio ha fatto registrare un picco del 13 % in più nel 2007, con 339 delitti, il 24 % ad opera di romeni e nel 3 % dei casi da egiziani. Non era prevedibile tutto ciò? certo che lo era. L'applicazione del trattato di Shengen doveva prevedere step differenti, un piano triennale di applicazione, ci sarebbe stata una integrazione migliore e ci saremmo risparmiati parecchi dolori. La cosa non riguarda solo i casi di stupro ma anche una variegata tipologia di reati. Nel 2007 a Roma su 3577 stranieri arrestati i rumeni erano stati 2.689. 

Secondo i dati di uno studio dell' ONU, la Romania era tra i Paesi europei quello con l’indice più alto di violenza alle donne, con 2226 casi nel 2003 e 2198 nel 2004, Ogni anno in Romania, soprattutto in campagna, migliaia di donne anziane o minorenni venivano stuprate e percosse. Questo lo dico senza odio verso la Romania, di cui apprezzo paesaggio, storia e cultura. Non si possono fare leggi, in alcun settore che poi abbiano una ricaduta selvaggia sulla realtà sociale. E chi sbaglia se ne deve andare, e i popoli devono arrivare a capire quale è il rapporto causa ed effetto delle decisioni di chi governa e tornare a presentargli il conto. Esercitiamo la memoria anche ricordando che la più importante sanatoria di immigrazione irregolare della storia della Repubblica Italiana fu fatta con la legge 30 luglio 2002, n. 189, meglio nota come Bossi-Fini. Furono regolarizzati 700.000 clandestini.

Dipingere gli Ungheresi come deportatori di disperati in cerca di asilo e costruttori di muri contro l’umanità è storicamente, moralmente e geograficamente ridicolo.





La corsa all’identificazione dell’Ungheria come nido di egoismo e nazionalismo, non conosce sosta. Prende fiato solo per puntare il dito contro l'ultimo paladino dell’autoconservazione, sempre più sulla gogna mediatica: la Gran Bretagna antieuropeista.
Viene da sé: chi non si appiattisce al bon ton politico che dispensa condanne e assoluzioni morali secondo uno standard unico, viene messo alla porta o meglio sul pubblico patibolo.
Dell’Ungheria di cui non si parlava dai tempi di Puskás, oggi si riempiono i giornali. Mai in epoca moderna si era discusso tanto del confine serbo-ungherese, che a fronte di un grande rilievo storico, ai più risulta difficile da collocare anche geograficamente. Il motivo è semplice. Se si parla di muri e immigrazione, le luci della ribalta brillano sempre.
L’asse balcanico del traffico di umani è una realtà conclamata. A fianco dell’autostrada mediterranea che traduce milioni di indigenti, si è consolidata la nuova via dell’immigrazione illegale e della compravendita di disperazione: quella che parte dalla bucherellata Grecia e dalla doppiogiochista Turchia per entrare nell’Unione Europea da sud est.
Ciò che arriva direttamente da Bulgaria e Romania, interne alla UE, ovviamente non fa notizia. Soprattutto dalla Bulgaria che con la Turchia (e l’Asia) divide anche una frontiera di terra. Da quando con la guerra del Kosovo il passaggio tra Mar Nero e Adriatico può contare sulle connivenze di Pristina e Tirana per inquietanti traffici euro-asiatici, a nessuno interessa che se ne parli. All’occhio indignato del benpensante europeo, importano solo i muri e i fili spinati.

Vediamo meglio.
Il filo spinato steso sui 200 km (scarsi) di frontiera serbo-ungherese ha creato un allarme politico malizioso quanto sproporzionato. In prima pagina ci sono Seghedino (l’ungherese Szeged) e la località di Roszke, posizionate proprio sul confine ma in realtà linea mobile di equilibri geopolitici millenari. Sulle piane fertili oggi oggetto di ossessive attenzioni giornalistiche, per secoli si sono alternati Ungheresi, Asburgo, Ottomani e principi serbi, spostando ora sotto, ora sopra, le rispettive sfere d’influenza.
 
 
La terra fra Subotica e Roszke è un'eterna frontiera, ben al di là della demarcazione attuale fra Ungheria e Repubblica Serba. Fosse per questo anzi, non ci sarebbero ostilità particolari, perfino considerando l’ingresso di Budapest nella UE (votò solo il 44% degli aventi diritto!) e nella NATO.
La provincia serba che confina con l’Ungheria è la Voivodina, area a forte presenza magiara e culla di istanze di autonomia da Belgrado mai rinnegate. Tra Serbia del nord e Ungheria del sud ci sono meno differenze culturali di quanto si possa immaginare. Tutta l’area, allargata fino alla Transilvania, rientra in quella landa europea di confine che fino al diciassettesimo secolo ha fatto i conti con l’espansione turca, pagandone spesso col sangue le conseguenze. 
Dipingere gli Ungheresi come deportatori di disperati in cerca di asilo e costruttori di muri contro l’umanità è storicamente, moralmente e geograficamente ridicolo.
Il filo spinato che oggi corre intorno al sonnacchioso fiume Tisza avrebbe potuto essere posizionato qualche centinaio di km più a Sud, tra Serbia e Macedonia o tra Macedonia e Grecia, senza intaccare minimamente le radici del ragionamento: se l’Europa vuole esistere, deve riconoscersi in un’identità. Quale che sia, ogni identità comporta di per sé il concetto di mantenimento.

A prescindere dalle motivazioni ideali, la decisione ungherese di costruire una barriera e di militarizzare la frontiera, va letta comunque alla luce di un’esigenza pratica. Roszke è collegata alla Repubblica Serba (Subotica ma soprattutto la non lontana e importante Novi Sad) con una grande autostrada, una ferrovia e un importante affluente del Danubio. Tutta la regione, agricola e pianeggiante, consente spostamenti rapidi e penetrazioni facili senza ostacoli naturali. Nella totale assenza di una politica comune europea, Budapest si limita a fare il suo. Ci s’indigna per un rotolo di filo spinato a Roszke, ma si sorvola sul muro tra Texas e Messico nell’America di Obama. La stessa America che per ragioni di sicurezza ha costretto miliardi di persone a rifare il passaporto. Il mondo è strano.
In realtà c’è dell’altro. Il motivo per cui l‘Ungheria siede spesso sul banco degli imputati è essenzialmente politico.
Già nell’occhio della critica da alcuni anni, Budapest è sorvegliata speciale e inserita per default tra i ribelli alla macchina d’integrazione bancario-germanica.
Fidesz e il leader Viktor Orban sono l’antitesi del politically correct europeo. Nemmeno l’Austria di Haider riuscì a farsi tanti nemici.
Il “muro” al confine è solo l’ultima delle polemiche pretestuose alimentate in tempi recenti. Più di tutti hanno potuto gli emendamenti alla Costituzione dal 2011 in poi, bollati come confessionali, clericali e liberticidi perché in controtendenza rispetto alle linee guida di un’Europa che per non offendere le sensibilità altrui, rinnega perfino le proprie origini cristiane. Le politiche sul matrimonio, sull’adozione e sui diritti di coppia sono state rigettate dalle democrazie europee così come il rilievo dato alla religione cattolica e le norme che hanno messo il partito comunista fuori legge.
Non è solo questione di punti di vista. Il tutto andrebbe forse letto alla luce della storia ungherese, che più di altre può insegnare il senso della libertà e il prezzo che si è disposti a pagare per difenderla.
A questo proposito il destino ha una sua ironia. Proprio l’Ungheria che si ribellò ai carri sovietici del ’56, oggi guarda alla Russia di Putin con uno slancio ideale fortissimo. Forse è questo che irrita più di tutti Bruxelles, preoccupata sia come riferimento per le istituzioni europee che come sede NATO.
Impossibile non annotare però che il dito puntato oggi contro Budapest appartenga a coloro che nel ’56, quando l’Ungheria difendeva col sangue la libertà d'espressione e la vita, si sono girati dall’altra parte.
 
La morale è un treno periodico che corre spesso su un doppio binario.
(di Giampiero Venturi

 
 

La "grande sostituzione": gli U.S.A. finanziano neri e scafisti





Sarebbero gli Stati Uniti a finanziare il traffico di migranti africani dalla Libia verso l’Italia.
 Lo afferma l’austriaco InfoDirekt, che dice di averlo appreso da un rapporto interno dello ’Österreichischen Abwehramts (i servizi d’intelligence militari di Vienna): ed InfoDirekt è un periodico notoriamente vicino alle forze armate.

ll titolo dice: “Un Insider: gli Stati Uniti pagano i trafficanti (di immigrati) in Europa”. Il testo non dice molto di più. Dice che i servizi austriaci valutano il costo per ogni persona che arriva in Europa molto più dei 3 mila dollari o euro di cui parlano i media.
“I responsabili della tratta chiedono cifre esorbitanti per portare i profughi in Europa” Si va dai 7 ai 14 mila euro, secondo le aree di partenza e le diverse organizzzioni di trafficanti; e i fuggiaschi sono per lo più troppo poveri per poter pagare simili cifre. La polizia austriaca che tratta i richiedenti asilo sa questi dati da tempo; ma nessuno è disposto a parlare e fare dichirazioni su questo tema, nemmeno sotto anonimato.
Da parte dei servizi, “Si è intuito che organizzazioni provenienti dagli Stati Uniti hanno creato un modello di co-finanziamento e contribuiscono a gran parte dei costi dei trafficanti”. Sarebbero “le stesse organizzazioni che, con il loro lavoro incendiario, hanno gettato nel caos l’Ucraina un anno fa”. Chiara allusione alle “organizzazioni non governative” americane, cosiddette “umanitarie” e per i “diritti civili”, bracci del Dipartimento di Stato o di Georges Soros.


L’articolo termina con un appello “a giornalisti, funzionari di polizia e di intelligence”perché “partecipino attivamente nella ricerca di dati a sostegno delle accuse qui espresse. L’attuale situazione è estremamente pericolosa e il lavoro informativo può prevenire l’intensificarsi della crisi”.
In un successivo articolo, il giornale austriaco rivela che “anche in Austria c’è il “Business
dei profughi”, Una “azienda per i richiedenti asilo” ha ottenuto dallo stato 21 milioni  per assissterli nelle pratiche e nutrirli. E’ una vera e propria azienda a scopo di lucro,   con sede in Svizzera, la ORS Service AG, ed è posseduta da una finanziaria, la British Equistone Partners Europa ( PEE) , che fa’ capo a Barclays Bank:  ossia alla potentissima multinazionale finanziaria nota anche come “La corazzata Rotschild”, che ha come principali azionisti la banca privata NM Rotschild e la loro finanziaria satelletite Lazard Brothers. “Presidente di Barclays è stato per anni il figlio Marcus Agius Rothschild . Questi ha sposato la figlia di Edmund de Rothschild : Katherine Juliette. Di conseguenza, ha il controllo anche della British Broadcasting Corporation (BBC), ed uno dei tre amministratori del comitato direttivo del gruppo Bilderberg”. I Rotschild non disdegnano nessun affare: e quello degli immigrati da “accogliere” e curare con denaro pubblico è certo l’industria di cui hanno previsto ( sanno) che crescerà in modo esponenziale.
Thierry Meyssan (Reseau Voltaire) rilancia l’informazione perché vi trova confermato un suo lungo e complesso articolo da lui postato quattro mesi fa, in cui fra l’altro sosteneva che l’ondata di rifugiati in Europa non è l’effetto collaterale accidentale dei conflitti in Medio Oriente, ma un obiettivo strategico degli Stati Uniti. Meyssan chiamava la strategia Usa “la teoria del Caos”, e la faceva risalire a Leo Strauss (1899-1973), il filosofo padre e guru dei neocon annidati nel potere istituzionale Usa.
Il principio di questa dottrina strategica può essere così riassunto: il modo più semplice per saccheggiare le risorse naturali di un Paese sul lungo periodo non è occuparlo, ma distruggere lo Stato. Senza Stato, niente esercito. Senza esercito nemico, nessun rischio di sconfitta. Da quel momento, l’obiettivo strategico delle forze armate USA e dell’alleanza che esse guidano, la NATO, consiste esclusivamente nel distruggere Stati. Ciò che accade alle popolazioni coinvolte non è un problema di Washington”.
“Le migrazioni nel Mediterraneo, che per il momento sono soltanto un problema umanitario (200.000 persone nel 2014), continueranno a crescere fino a divenire un grave problema economico. Le recenti decisioni della UE (…) non serviranno a bloccare le migrazioni, ma a giustificare nuove operazioni militari per mantenere il caos in Libia (e non per risolverlo)”.
http://www.voltairenet.org/article187426.html
E’ proprio così: la strategia americana sembra effettivamente quella di trascinare gli europei in avventure militari in Libia come in Siria e in Ucraina; una volta impantanati fino al collo in quelle paludi del caos, per cui non abbiamo alcuna preparazione militare, dovremo implorare l’aiuto della sola superpotenza rimasta, a cui ci legheremo più che mai perché “ci difende dal caos”.
Una sola ultima considerazione: la sinistra dell’accoglienza, come sempre la sinistra, “fà l’interesse del grande capitale, a volte perfino senza saperlo”: Ad essa s’è aggiunta, con Bergoglio, la Chiesa di Galantino.
 
di Maurizo Blondet

 

Patrioti di tutta Europa unitevi






"A noi ci hanno insegnato tutto gli americani.
Se non c'erano gli americani... a quest'ora noi eravamo europei...".


Giorgio Gaber 

Diventa ciò che sei 
Friedrich Nietzsche


 di Marcello Veneziani
Due principi ormai si fronteggiano sulla scena mondiale, venuto meno il comunismo: uno. prevalente, che pone il traguar­do dell'umanità nel cosmopolitismo, nella città planetaria. E il Progetto ethos mondiale di cui parlava in un suo  libro il teologo progressista Hans Kung e che trova sulla stessa linea, a differenti livelli, un variegato panorama: dai pacifisti umanitari, ai cattolici democratici, dai liberal-progressisti ai socialdemocra­tici, dai neo-comunisti fino ai liberal-capitalisti. Sullo sfondo non mancano naturalmente circoli finanziari e massonici, multi­nazionali e grandi industrie protese verso la globalizzazione del mercato. Il progetto è far seguire a questo mondialismo degli affari, un mondialismo etico, che trovi fondamento nei diritti dell'uomo ed espressione nel sogno di un'umanità liberata dalle frontiere terrene e ultraterrene. Pendant e sottofondo necessario di questa visione "ecumenica" è l'individualismo, ovvero la con­siderazione dell'uomo come entità irriducibile ed autonoma rispetto ad ogni ambito; e dunque errante, facilmente spostabile, inappartenente. Sviluppo altrettanto necessario è il progetto di un governo mondiale, una sorta di Super-ONU che affianchi il governo effettivo della finanza mondiale, dandole un supporto organizzativo ed anche un supplemento etico di anima. Un governo mondiale umanitario, verde quanto basta, pacifista fino ad un certo punto, inflessibile nel soffocare le zone difformi o i modelli culturali che incrinano questa pax annunciata.

Dall'altra parte, emerge un principio antagonista: quello che si oppone al mondialismo attraverso la rivolta comunitaria. É un principio amico, originario, e insieme nuovo che si esprime nelle società industrializzate del primo mondo, come nelle società uscite dal comunismo del secondo mondo, e infine nelle società ancora non del tutto conquistate dallo sviluppo nel terzo mondo. II suo referente, variamente indicato dalla difesa del territorio alle identità e specificità etniche, culturali e religiose, dalla tutela dell'ambiente e delle città in rovina al recupero del tessuto comunitario, fino ai fondamentalismi nazional-religiosi, è sostanzialmente l'appartenenza e la difesa di una patria. Patria intesa in senso lato, come luogo originario, come luogo culturale o cultuale, ma anche sociale e lavorativo, ambientale e linguisti­co, in cui ciascuno sì trova a casa. In questa prospettiva ciascu­no avverte di sentirsi culturalmente, naturalmente ed elettiva­mente inserito in una serie di ambiti comunitari, dalla famiglia alla città, alla comunità di lavoro, alla regione, alla nazione. E avverte questa appartenenza come un radicamento a cui non può fare a meno, se non facendo a meno di se stesso. E dunque difende la sua patria. Ma la difende non attaccando le patrie altrui, patrie territoriali o ideali, e perfino ideologiche; ma al contrario, difendendo nella propria patria la patria di ciascuno. Anzi, la garanzia dì vita della mia patria è la garanzia di vita della patria di ciascuno, e viceversa. 
Non sì tratta dunque, come spesso ancora si fa nella nostra società frammentata ed egoistica, di contrapporre ad un principio universale come il mondialismo, un principio particolare, come la propria diversità. Sarebbe un discorso debole, perdente, una pura fuga nel microcosmo e nel privato, in definitiva omogenea e funzionale al mondialismo stesso, che ama accreditarsi come un supermercato in cui è possibile esporre ogni merce. Si tratta invece di passare a concepire la difesa della propria diversità, della propria identità, non come un fatto antagonistico a quello delle altre, né come un fatto a sé stante, che mira a isolarsi da un contesto generale. Ma come un principio anch'esso universale.
Ovvero, occorre passare ad una specie di intemazionale delle patrie in cui le patrie si coalizzano per difendere le proprie radici e la propria peculiarità dal comune avversario: il mondialismo che omologa, annienta e trita le diversità e concepisce solo indi­vidui nudi. Ricordiamo un appello rivolto dai movimenti nazional-religiosì russi: 

                                                  " Patrioti di tutto il mondo unitevi".


Un appello che coglie perfettamente l'unica battaglia possibile per ostacola­re la città mondiale senza volto, la poltiglia universale. "Ognì persona che rispetti la cultura e la tradizione del proprio popolo è nostro fratello" dicono gli esponenti di un movimento (peraltro inaccettabile in molte sue valenze) come il Pamjat. E aggiungono: "In Occidente esistono più di duemila popoli, ognuno con la sua cultura particolare, perche a noi, invece di questa ricchezza, viene data una pseudocithura di massa, un simile intruglio di "metalli pesanti", di pornofilm, di kolossal cinematografici e altre produzioni cosmopolite, buone solo a danneggiare ciò che resta della nostra spiritualità? L'intenzione di trasformare i popo­li in un'unica folla senza patria, facile da pilotare..."

Si tratta di superare i nazionalismi aggressivi del passato, i vecchi imperialismi coloniali, o i "patrioti" di giacobina memo­ria. Facile obiezione è far notare l'aggressività con cui si manifestano oggi i conati nazionalistici. Non si può dimenticare che alcuni patriottismi degenerano in violenze o si manifestano con punte di intolleranza, perché a loro volta hanno subito violenze. Non è stato loro concesso il diritto di manifestarsi, sono state calpestate le loro sovranità nazionali e popolari, sono stati nega­ti, spesso a suon di carri armati, i loro diritti di popolo. Si tratta allora di un'intolleranza di ritorno. L'aggressività non nasce dall'istanza patriottica ma dal fatto che è stata repressa. E quan­do viene repressa esplode assumendo a volte toni concitati e forme incontrollate. Differente è il nostro caso di paese occiden­tale, dove le patrie più che represse sono state depresse. E da qui nascono, per virtù omeopatica, semipatriottismi '"depressi" che talvolta, tramite alcune degenerazioni ecologiste e localiste, fini­scono con l'essere pure fughe nel particolare, con l'alibi che lì vi è maggiore concretezza. E con l'esito di non incrinare gli assetti del sistema ma di assecondarti. A volte vengono forniti anche surrogati di patriottismo. É il caso ad esempio del "patriottismo della costituzione" di cui parta un intellettuale tedesco progressista (ma conservatore, anzi retrivo, rispetto alla storia tedesca che cammina e travolge i muri), Jurgen Habermas. E un patriottismo che alberga anche da noi, e che vorrebbe tra­sferire il sentimento collettivo di appartenenza nell'astratto e cartaceo riconoscimento di una Costituzione liberale e democra­tica. Bisecolare vizio illuministico di far nascere le cose con decreto legge della Ragione, dalla carta; senza trarle dalla storia, dalla vita concreta e dall'anima dei popoli.
I due principi antagonistici, serbano naturalmente nello spa­zio che tra loro intercorre, una varietà di posizioni che impedisce una valutazione manichea. C'è perfino un punto di contatto: è rappresentato dall'europeismo. Nell'Europa si incrociano cosmopolitismi e patriottismi. Ma la direzione verso cui marcia­no è opposta: il mondialismo vede l'Europa come un passo per liberarsi dai nazionalismi e per marciare verso la compiuta globalizzazione del sistema: i patriottismi vedono al contrario nell'Europa la macroappartenenza ad una Patria-civiltà e la grande nascita di un soggetto forte che tuteli le specificità dal Progetto di un mondo uniforme e unipolare.   
   
La battaglia dei prossimi anni è dunque questa (Furio Colombo vede il futuro nell'alternativa tra"universalismo e tri­balismo"; e l'impegno verso cui lavorare è quello dt far com­prendere ai vari comunitarismi la loro concordia discors, la loro comune esigenza di coalizzarsi in nome del comune principio delle diversità da tutelale. Questo discorso può largamente appli­carsi, senza perdere la coerenza, anche in chiave politica e socia­le concreta. Rispetto all'onnivoro centrismo che tutto media, neutralizza e digerisce; rispetto all'egemonia del capitale che mira a rendere inorganiche le differenze per organizzare il mer­cato, le diversità politiche, sociali, sindacali e culturali, le "patrie" di ciascuno, devono coalizzarsi, cominciando a non con­cepirsi in antagonismo, superando i confini topografici di destra e di sinistra, di tradizionalismo e di progressismo. Non è il caso di sprecare le proprie energie per insultarsi fra dirimpettai di marciapiede quando il rullo compressore minaccia di spianare tutta la strada.









L' America Giorgio Gaber