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🇮🇹 ORVIETO '23: UN MOVIMENTO PER L'ITALIA








“Forum dell’indipendenza italiana. Un movimento per l’Italia”. Si ritroveranno ad Orvieto, presso il Palazzo del Capitano del Popolo, luogo storico degli incontri della Destra sociale, il 29 e 30 luglio, le numerosissime sigle che Gianni Alemanno ha coinvolto in un progetto che potrebbe assomigliare alla creazione di un nuovo partito.

In un invito, che in questo momento sta raggiungendo migliaia di Italiani, i promotori spiegano e definiscono la loro iniziativa:

"Ripartiamo da qui, con un nuovo, grande appuntamento: IL FORUM

DELL'INDIPENDENZA ITALIANA sollecitato e promosso da 31 associazioni e movimenti che si sono riuniti attorno al Comitato Fermare la Guerra, con la speranza di costruire un MOVIMENTO PER L'ITALIA.

Perché?

Perché emerge la domanda di un nuovo movimento politico e metapolitico che

ascolti i bisogni degli Italiani e difenda veramente i nostri interessi nazionali.

Vogliamo provare a costruirlo con chiunque intenda affrontare seriamente i problemi reali della nostra gente, guardando avanti e cominciando con noi lo stesso

cammino, a prescindere dalla sua provenienza politica e culturale.

Per troppo tempo l'Italia ha subito imposizioni esterne alla nostra democrazia e quindi contrarie alla sua indipendenza. Ci siamo adeguati alle direttive geopolitiche del deep state americano, che ci ha

portato in una globalizzazione senza regole e in un ordine mondiale fondato sulle

aggressioni economiche e militari.

Abbiamo accettato i vincoli economici dell’Unione europea, che con l’austerità e il

iper-liberismo ha impedito lo sviluppo dell’Italia, ha privato i nostri figli del lavoro, ha

tolto alle nostre famiglie la speranza di una vita migliore.

Stiamo diventando poveri.

Con la fine dei governi tecnici e l’avvento del governo Meloni speravamo che tutto

questo fosse finito e si aprisse una nuova epoca in cui fosse possibile difendere gli

interessi del nostro popolo da quei “poteri forti” che hanno costretto l’Italia a

rimanere una Colonia.

Purtroppo con la guerra in Ucraina abbiamo dovuto constatare che ancora le cose

non sono cambiate.

Ancora una volta abbiamo sacrificato i nostri interessi nazionali alle imposizioni

euro-atlantiche: abbiamo accettato di entrare in una guerra, contro il dettato Costituzione e ignorando gli appelli di Papa Francesco. Con le sanzioni alla Russia

vediamo crollare il nostro sistema economico e industriale, mentre rischiamo ogni

giorno un conflitto nucleare nel cuore dell’Europa.

Continuiamo a chiudere gli occhi di fronte all'avvento di un mondo multipolare, in

cui i popoli possono ritrovare la loro libertà e le grandi civiltà il proprio ruolo.

Non basta: dobbiamo subire lo scardinamento di tutti i valori umani e comunitari in

nome del liberismo, la dittatura sanitaria e tecnocratica che attacca le nostre libertà

fondamentali, l’invasione degli immigrati e l’emigrazione degli Italiani, l’aumento dei

tassi della BCE e l’inasprimento dei vincoli economici europei, la distruzione delle

bellezze della nostra Patria, la transizione green che abbatte il valore delle nostre

case e delle nostre auto, una confusa autonomia differenziata che rischia di

dividere ancora di più la nostra Nazione.

Per questo c’è bisogno di UN MOVIMENTO PER L’ITALIA.

Vogliamo far sentire la nostra voce, vogliamo lanciare un grande appello rivolto a

tutti, al di là delle etichette politiche e delle vecchie appartenenze.

Se avremo un’ampia e seria risposta, siamo pronti ad organizzarci in un movimento

politico e metapolitico, che sia pungolo della politica ufficiale.

Per questo nel Forum per l’Indipendenza italiana ci confronteremo con tutti, anche

con chi non la pensa come noi, per cercare la strada giusta PER RIGENERARE LA

POLITICA E PER SALVARE L’ITALIA".





FORUM DELL'INDIPENDENZA ITALIANA
IL PROGRAMMA 
















 

Meglio una dittatura sovrana che una democrazia serva


Il discorso su democrazia e dittatura, lungi dalla solita e perenne retorica dei testi universitari o dei dialoghi televisivi sulla partecipazione pubblica alla vita dello Stato (ridotta ad un gesto banale come quello di fare una croce su un prodotto elettorale), è essenziale per emanare giudizi meno superficiali sui nostri tempi. Che non sono più quelli in cui Churchill poteva affermare, con una battuta, che “la democrazia è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte quelle altre forme che si sono sperimentate finora”. La democrazia è, a questo punto occorre dirlo, una forma di governo modellata sulla prepotenza di un Paese e dei suoi vassalli, che si impone a suon di mazzate e con sempre meno infingimenti su chi non ne accetta il dominio. La democrazia ha gettato la maschera da qualche decennio, diciamo da quando le sfide internazionali hanno alzato la posta in palio, modificando lentamente i rapporti di forza geopolitici, redistribuendo gli equilibri, per ora a livello regionale ma con una tendenza allo scontro crescente tra attori politicamente e militarmente sempre più aggressivi su tutto il planisfero. La pantomima democratica non funziona più nemmeno nei paesi che la sperimentano da lungo tempo, tanto che i gruppi dirigenti, sedicenti democratici, devono ricorrere ad astuzie aggiuntive per riportare le loro pubbliche opinioni alla “ragione” della libertà. Basta vedere il tradimento del responso referendario sulla Brexit. Epitomando: il popolo non è sovrano per niente, in democrazia o in qualsiasi altro sistema politico. Il popolo deve pensare con le idee che altri in alto elaborano mettendogliele in testa e non ha mai coscienza, se non labile, dei veri obiettivi di chi ne condiziona i convincimenti. In altra sede, La Grassa ha scritto che le parti in lotta, anche se sono passate dal voto, in realtà non si fanno eleggere per servire la popolazione, in quanto
“sono strutturate e hanno precisi vertici di comando, tesi a dati (ma non dichiarati) obiettivi di conquista dei posti chiave nelle sfere degli apparati politici, economici e ideologico-culturali. La loro lotta deve ovviamente nascondere gli effettivi intenti di mera conquista del potere (del tutto, o quasi, per quei tot anni) dietro la menzogna degli interessi generali della popolazione, con magari una particolare predisposizione per questo o quel raggruppamento sociale, i cui voti siano preferibilmente “inseguiti” da questo o quel vertice delle parti in lotta, che si ritiene particolarmente organizzato a tale scopo (si pensi, ad es., ai “sindacati dei lavoratori”, organismi fortemente centralizzati, che appoggiano dati partiti). Bando dunque, per favore, alle pantomime sulla “democrazia” come governo del popolo, questo concetto del tutto astratto e il più fortemente ideologico di ogni altro, nel preciso senso di ideologia come falsa coscienza: quella indotta nei cittadini, non quella dei vertici di potere, che se ne servono con notevole consapevolezza dell’inganno da loro perpetrato. Inoltre, e questo è per me decisivo nel deprezzare ogni presunta democrazia elettorale, i cittadini vengono invitati a eleggere questo o quello senza alcun particolare impegno e rischio che non sia l’andare al voto, magari perfino rinunciandoci talvolta se il tempo è particolarmente brutto o invece specialmente bello per andarsene in vacanza, ecc. In altri assai meno miserabili contesti, i cittadini, e facendo magari specificatamente appello alla loro appartenenza a dati gruppi sociali, vengono chiamati alla vera lotta mediante ben altre ideologizzazioni, che sollecitano a volte la loro ira e sempre la speranza di un futuro migliore, perfino l’intelligenza di una decisa fuoriuscita da condizioni di oppressione e di miseria (non solo materiale), ecc”. In casi come questi, gli sciocchi (o qualcosa di peggio a volte) liberali affermano che si va verso la “dittatura”; perché la lotta può farsi cruenta e portare un dato gruppo al vertice della società, per di più rappresentato da un “capo”. In questi casi, però, masse imponenti di esseri umani (senza che si possa calcolare se rappresentano il 50% + 1 della popolazione, per di più quella al di sopra di una data età) si muovono anche a rischio della loro vita, danno il meglio di se stessi, non vanno a bighellonare nei seggi elettorali. Affermo con decisione che questa situazione è mille volte più “democratica” dell’altra. E la “dittatura” è solo nella testa di chi ci rimette, in casi come questi, l’intero suo potere di spremere quella gran massa popolare per i suoi bassi interessi, senza bisogno della benché minima ideologia di supporto: ideologia non come falsa coscienza, bensì come forte credenza che qualcosa di meglio possa essere conquistato. Senza dubbio, in casi del genere viene in evidenza la crudezza dei moti “di massa” e spesso tante altre miserie, perché in simili contingenze s’insinua nel movimento un po’ di tutto; tuttavia, ripeto che chi si muove in tale contesto rischia qualcosa di suo (fino appunto alla pelle). Tale situazione è mille volte migliore della falsa, miserabile, spenta, “democrazia” elettorale dei sedicenti liberali”.
Il democratificio è una fabbrica del potere che produce un certo tipo di funzioni, autolegittimandosi ex-post tramite una volontà generale, chiamata ad esprimersi periodicamente su dei candidati, alla quale si dà la sensazione di entrare nel processo decisionale mentre è già tutto prestabilito da una superiore visione, invisibile agli occhi. On n'échappe pas de la machine. Rancière scriveva: “Le elezioni sono libere. Servono essenzialmente ad assicurare la riproduzione del medesimo personale dominante sotto etichette intercambiabili, ma le urne non sono in genere strapiene ed è possibile rendersene conto senza rischiare la vita. L’amministrazione non è corrotta, tranne in quegli affari di mercato pubblico dove finisce per confondersi con gli interessi dei partiti dominanti. Le libertà individuali sono rispettate, a prezzo di considerevoli eccezioni per tutto quello che riguarda la difesa delle frontiere e la sicurezza del territorio. La stampa è libera: chi voglia fondare, senza l’aiuto di potenze finanziarie, un giornale o una rete televisiva capace di raggiungere l’insieme della popolazione incontrerà serie difficoltà, ma non finirà in galera. I diritti di associazione, di riunione e di manifestazione permettono l’organizzazione di una vita democratica, cioè di una vita politica indipendente dalla sfera statale. Permettere è evidente mente una parola ambigua”. 
Gianfranco La Grassa, nel suo intervento, aggiunge un altro tassello alla questione democrazia vs dittatura. Quest’ultima non è una degenerazione della prima ma il risultato di un differente decisionismo nascente in contesti storici particolari in cui cincischiare con le “apparenze” democratiche può mettere a repentaglio certe prerogative sovrane a causa dell’infiltrazione di modelli culturali e politici non corrispondenti alle esigenze di recupero della potenza o di rafforzamento complessivo del Paese, in un clima di multipolarismo e policentrismo. In alcuni frangenti è possibile “parlamentare” data la stabilità epocale o in virtù di relazioni mondiali consolidate, in altri si deve agire tempestivamente badando al sodo. In ogni caso, il popolo non governa mai e mai governerà perché la politica è soprattutto serie di mosse strategiche, dunque coperte, segrete, per assumere la preminenza. Ora si lamentino pure i liberali che ululano contro i totalitarismi. La loro è solo una cultura del piagnisteo, per di più ipocrita perché la democrazia è altrettanto assassina, subdola, manipolante e intrigante (se cosi non fosse non esisterebbero i servizi segreti), che non commuove chi come noi, si spera, è avvezzo ad andare oltre le esteriorità ideologiche dei loro discorsi del piffero. Ebbene sì, meglio una dittatura che punta alla grandezza dello Stato che una democrazia asservita ad interessi stranieri.



Democrazia e dittatura, solo differente decisionismo.

Salvini: l'Italia è una porcheria


Questi sono i mostri che il centrodestra ha portato al governo della Nazione e non solo per l’inabilità del personaggio Berlusconi, perché Berlusconi ragionava, e ragiona, da imprenditore e non da statista e quindi non ha capito nulla di quanto stava accadendo in termini di smantellamento globale dell’Italia, ma anche per responsabilità di una destra italiana che ha sempre preferito il salotto alla trincea, le prebende individuali, alla fatica di costruire un futuro alla Nazione, e tra le rincorse alle poltrone ha visto non solo evaporare l'Italia ma anche se stessa. 



L'Italia è una porcheria

Boia chi Molla: espressione nata sulle barricate della Repubblica Partenopea

Il 29 luglio 1917 nasce il primo reparto d'Assalto al comando del colonnello Giuseppe Alberto Bassi, il reparto assume come motto "Boia chi molla", espressione nata sulle barricate della Repubblica Partenopea del 1799 e poi ripresa nelle 5 giornate di Milano del 1848, e più recentemente divenuto slogan simbolico della rivolta di Reggio Calabria svoltasi  dal luglio del 1970 al febbraio del 1971.


28 ottobre 1922: l'Italia di Vittorio Veneto marcia su Roma


C’è stato, in fondo, ed è inutile negarlo, un solo momento della storia unitaria nel quale gli italiani si sono sentiti veramente italiani ed orgogliosi di esserlo e fu durante il ventennio fascista. La nazionalizzazione delle masse, in quegli anni, funzionò per davvero, benché in un’ottica di dinamica politica autoritaria. E se è vero che la nazionalizzazione fascista si poneva in continuità con quella inutilmente tentata, soprattutto attraverso la scuola e l’esercito di leva, dai governi liberali post-unitari, la differenza tra le precedenti esperienze sabaude e quella fascista stava in due cose: l’integrazione, secondo una politica di nazionalismo sociale, delle classi popolari le quali in precedenza, nel regime liberal-borghese risorgimentale, erano escluse da qualunque partecipazione politica e, soprattutto, la Conciliazione con la Chiesa cattolica che consentì agli italiani di superare il divario, imposto da Vittorio Emanuele II, Cavour e Garibaldi, tra fede e appartenenza nazionale.il Nord, che oggi vive di pulsioni autonomiste ed indipendentiste, ha goduto per primo ed in misura superiore al meridione dei vantaggi della politica interventista e dirigista, eredità del fascismo, praticata nell’Italia del decollo industriale ed economico negli anni ’50, ’60 e ’70, le cui basi erano già state poste nel decennio che precedette il secondo conflitto mondiale. L’Eni di Enrico Mattei fu lo sviluppo dell’Agip fascista, l’IRI era stato istituito negli anni ’30 da Alberto Beneduce con il pieno appoggio di Mussolini dando così inizio all’economia delle partecipazioni statali che modernizzò il nostro Paese, la legislazione bancaria del 1936 aveva posto sotto controllo il credito onde finalizzarlo all’investimento sociale e non alla speculazione ed aveva assegnato alla Banca centrale il ruolo di Istituto finanziatore a basso o nullo interesse del fabbisogno statale (il nostro attuale debito pubblico è schizzato alle stelle a partire del 1981 con l’indipendenza dell’Istituto di Emissione che ha costretto lo Stato a finanziarsi presso i mercati a tassi elevatissimi o a comprimere la spesa pubblica), la politica di collaborazione capitale-lavoro, consacrati in articoli semi-attuati della Costituzione quali il 46 e il 49, continuava, nonostante tutto, in clima democratico l’esperienza corporativista del fascismo.Senza lo Stato nazionale il Nord non avrebbe avuto le infrastrutture necessarie alla sua sviluppata economia. Senza lo Stato nazionale il conflitto di classe, molto forte nelle zone industrializzate , non avrebbe trovato quelle soluzioni interclassiste, anche queste sulla scia già tracciata dal fascismo, che hanno consentito all’industria di prosperare con evidenti vantaggi – almeno fino a quando il neoliberismo globalizzatore non ha spiazzato l’idea stessa di Stato nazionale e sociale – anche per i ceti operai e piccolo borghesi.Nel 1992 sul Britannia si programmò la svendita del nostro patrimonio pubblico mettendo fine all’esperienza dell’IRI.. Si passò, così, a smantellare il Welfare ed a precarizzare il lavoro ossia a praticare politiche economiche dal solo lato dell’offerta, che significa politiche vantaggiose solo al capitale ed in particolare al capitale finanziario, favorendo le liberalizzazioni e la mobilità transnazionale dei capitali.Le rivendicazioni di autonomia o di indipendenza dallo Stato nazionale giocano oggettivamente tutte a favore dei processi economici globalizzanti perché la frammentazione fa venir meno i protezionismi, o quel che di essi rimane, anche il protezionismo sociale, e incentiva il liberismo di mercato e senza la sovranità militare, ossia dipendendo da un esercito “di occupazione” inserito nella Nato, non c’è affatto sovranità.

La Patria ? "Dio creandola sorrise"


di Giuseppe Mazzini

La patria è la fede nella patria. Dio che creandola sorrise sovr'essa, le assegnò per confine le due più sublimi cose ch'ei ponesse in Europa, simboli dell'eterna forza e dell'eterno moto, l'Alpi e il mare. Dalla cerchia immensa dell'Alpi, simile alla colonna di vertebre che costituisce l'unità della forma umana, scende una catena mirabile di continue giogaie che si stende sin dove il mare la bagna e più oltre nella divelta Sicilia. E il mare la ricinge quasi d'abbraccio amoroso ovunque l'Alpi non la ricingono: quel mare che i padri dei padri chiamarono Mare Nostro. E come gemme cadute dal suo diadema stanno disseminate intorno ad essa in quel mare Corsica, Sardegna, Sicilia, ed altre minori isole dove natura di suolo e ossatura di monti e lingua e palpito d'anime parlan d'Italia.

Buon Natale e Buon 2016 Italia

 
 Un 2016 di  civile dibattito su delle tesi che possono avere comunque «l'effetto di ridurre le distanze psicologiche, le diffidenze e avversioni che dividono fra di loro milioni di italiani». Per arrivare a un'Italia meno lacerata, meno nevrotica, più tollerante, più capace di comprendere se stessa e le parti che la compongono.
 
Italiani d’ogni generazione e d’ ogni confessione, nati dell’unica madre, gente nostra, sangue nostro, fratelli.

La distruzione del bel paese




 Il discorso pubblico, soprattutto quello politico, non è mai orientato alla verità. La sua funzione non è quella di spiegare ai cittadini l’azione e i risultati reali che un soggetto o gruppo di potere intende conseguire, se non in minima parte. La sua versione essoterica sta a quella esoterica nello stesso rapporto in cui le manifestazioni superfi
ciali dei fenomeni stanno all’essenza invisibile e alla concatenazione recondita degli stessi che solo con l’analisi scientifica approfondita è possibile cogliere e spiegare.
Esso, cioè il discorso pubblico, deve creare innanzitutto quelle forme di coinvolgimento generale per ottenere il sostegno dei vari settori sociali a puntellamento della propria opera. Del resto, essendo la Politica, quella che si dispiega in tutte le sfere collettive (economica, ideologica, culturale,ecc. ecc. quindi non solo nella sfera politica propriamente detta), una serie di mosse e di strategie per prevalere su agenti concorrenti con disegni più o meno affini (con insorgenza di alleanze temporanee) o del tutto antitetici (con scatenamento di conflittualità aperta e asserita) miranti a raggiungere degli scopi (di predominanza) quasi mai dichiarabili, è corretto che i suoi intendimenti restino coperti.
Tuttavia, c’è una bella differenza tra tenere nascosti elementi che se svelati porterebbero la strategia a fallire, mettendo a repentaglio la sicurezza del Paese e del raggruppamento in azione, e mentire spudoratamente sui propri propositi, fondare tutto sulla menzogna e sul raggiro dei meno riflessivi, ovvero avere in mente, già in partenza, un’assoluta mistificazione dei fatti, della situazione e dei propri progetti per interessi ristretti di corporazione o di cordata (senza comunque lesinare colpi di pugnale pure a chi sta accanto) a danno dell’intero Stato e corpo sociale.
Quando, per l’appunto, manca il disegno di ampio respiro, il fine ultimo che non giustifica i mezzi ma li forgia per l’esito agognato – il quale sarà sempre diverso da quanto elaborato astrattamente (eterogenesi dei fini) – oppure quando il fine medesimo coincide con la propria misera autoconservazione di consorteria, ottenuta anche a costo di una cessione totale della propria autonomia gestionale, a terze forze esterne (sia chiamino Ue o mercato globale a guida Usa) al contesto di riferimento, abbiamo l’incancrenimento delle istituzioni e degli apparati statali ed il saccheggio delle sue principali risorse che vengono divorate tra traditori autoctoni e controparti straniere.
Questo fa anche aumentare i famigerati vincoli esterni i quali sono lo sbocco naturale di tale sottomissione ad agenti internazionali che assicurando protezione ti svuotano definitivamente le tasche e la sovranità. Per di più i suddetti vincoli che rappresentano una vile subordinazione vengono persino esaltati in quanto consentirebbero alla nazione – questa è la vulgata della quale si servono i cialtroni che ci sgovernano – una condotta più confacente all’area culturale ed economica di riferimento.
Senza farla troppo lunga possiamo affermare che la descrizione fatta coincide perfettamente con quanto sta accadendo in Italia. Parlino uomini di destra o di sinistra, con la loro propaganda in lingua estera o in vernacolo della Brianza, l’inganno non cambia. Sono due anni che lo Stivale è governato da quisling scelti direttamente al di fuori dei nostri confini con l’assenso di tutti i partiti dell’arco costituzionale. Ormai sono scomparsi gli uomini politici e sono apparsi i sensali di cricche globaliste, dietro le quali si celano potenze occidentali con i loro specifici interessi, che puntano a spartirsi l’Italia e i suoi tesori. L’accelerazione verso il massacro è stata impressa dal Presidente della Repubblica che ha scelto i suoi premier e i suoi ministri per calcoli occidentali, laddove Occidente significa innanzitutto Stati Uniti.
Il prossimo passo, peraltro dichiarato con la solita faccia di tolla, è il completamento di quell’operazione di fagocitazione delle nostre imprese di punta riuscito solo parzialmente nell’epoca delle grandi dismissioni e degli stravolgimenti giudiziari, agli inizi degli anni ’90. Il governo Letta resterà in carica fino a che non si sarà concretata questa svendita e non avrà sistemato ai vertici delle partecipate del Tesoro personale compiacente alla liquidazione. L’esecutivo delle ex larghe intese regge unicamente per questa ragione. Renzi e Napolitano giocano dunque allo stesso tavolo di trucchi e bluff. Come scriveva ieri il sito Dagospia: …Sono le nomine nelle grandi società partecipate dallo Stato ad essere l’oggetto del desiderio di Matteo Renzi. Il segretario del Pd ha ben chiaro che presidenti e amministratori delegati di società come Eni, Enel, Finmeccanica, Terna e Poste valgono ben più di un ministro, per la loro capacità di orientare le scelte di politica industriale, per il serbatoio di assunzioni che ancora garantiscono pur in un momento di crisi e per la massa di investimenti (quasi 50 miliardi l’anno) che hanno capacità di trasferire al sistema delle imprese dei fornitori.” Il nuovo corso dell’Italia puzza di stravecchio. Ecco un lampante esempio di discorso pubblico di rinnovamento le cui premesse incantatorie fanno il paio con i futuri risvolti ingannatori. L’Italia non è ad un bivio, tra Renzi ed i suoi finti avversari di centro-destra, essa è completamente al buio.

di Gianni Petrosillo
da "conflitti e strategie".

A Legnano i comuni d'Italia cominciarono a sentire la prima solidarietà,cancellando lo spirito settario, nel nome dell'Italia

 
AURORA DI SPIRITI RIDESTI. In questa ora solenne, il nuovo giuramento rievocante quello di Pontida, unisca tutti i cuori in una sola volontà. Dalla piazza di Trento, Dante Alighieri chiama a se' il figlio che morì per non morire: Cesare Battisti, l'annunziatore infallibile. Dalla piazza di Trieste, Giuseppe Verdi ispira la melodia trionfale che solleva laggiù, a Pola, dalla Fossa degli Impiccati, il cuore eroico di Nazario Sauro. O fede tenuta nell'ombra, ribattezzata nel sangue, custodita nella sventura come l'intatta spada nella guaina, rifulsa come l'alta lampada del faro tra nembi e marosi. Le sante milizie che i Comuni della Lega strinsero intorno al Carroccio, in una volontà di Vittoria, in un voto di morte, rivissero popolando di Eroi le desolate nudità del Carso, le contrastate rive del Piave, le aspre giogaie trentine. Sul giuramento di Pontida, la Patria riconiò il nuovo patto di fede. A Legnano i comuni d'Italia cominciarono a sentire la prima solidarietà, affinché, nelle officine e nei campi e fra il popolo si imparasse a mortificare e a cancellare lo spirito settario, nel nome d'Italia. Legnano fu grande, perché assai grande era l'Idea di Roma, sede del pensiero universale, erede del passato di gloria, tempio della preghiera, di quella che da diritto agli uomini di elevarsi fino a Dio. PASSEREMO!


Identità sportiva e identità nazionale





L' autorappresentazione della nazione attraverso lo sport assume forma compiuta. Il regime mussoliniano crea un modello, più tardi imitato anche dai regimi totalitari dei paesi dell'Est, attraverso il quale lo sport diviene rappresentazione della potenza e della identità nazionale : Mussolini - ha scritto lo storico americano John M. Hoberman - fu senza dubbio «il maggior atleta politico del periodo fascista». E Filippo Tommaso Marinetti fu l'ispiratore di una concezione antropomorfica dello Stato atletico. « Se pregare significa comunicare con la divinità, il correre a forte velocità è una preghiera - scriveva nel 1916 Marinetti in La nuova moralità-religione della velocità -. L'ebbrezza di un'auto lanciata a forte velocità non è altro che la gioia di sentirsi interamente fusi con la sola divinità. Gli atleti sono i primi catecumeni di questa religione».
Se il regime fascista fa propria la concezione del dinamismo marinettiano per esasperare nell'immaginario collettivo l'idea di una nazione atletica, forte e vincente è comunque nella seconda meta dell'Ottocento che prende corpo la fisionomia del binomio sport/nazione. O, ancor meglio il corpo diviene il luogo di rappresentazione plastica del vitalismo e del dinamismo della nazione. Già nel 1902 Hobson nel suo saggio sull'imperialismo scriveva che l'essenza dello sport consisteva in un arcaico istinto predatorio. «La brama animale di lotta - scriveva Hobson — [...] soprawive nel sangue, e proprio nella misura in cui una nazione o una classe conservano un margine di energia e di tempo libero dalle attività dell'industria pacifica, chiede di essere soddisfatta attraverso lo sport».
La genealogia del rapporto sport/identità nazionale non può non partire da Federico Ludovico Jahn che all'inizio dell'Ottocento elabora un modello di educazione fisica inteso ad esaltare il senso di appartenenza alla comunità nazionale. Sostenitore del primato morale della nazione, Jahn considerava il Turn, la palestra, il luogo ideale in cui il giovane non solo si addestrava agli esercizi fisici, ma si formava corne membro della comunità nazionale.
L'opera e l'eredità di Jahn, ampiamente analizzati da Mosse, divengono nel corso dell'Ottocento un modello per i movimenti ginnastici europei: da quello italiano a quello francese, dai Sokols dei paesi slavi al Maccabi delle comunità ebraiche. Anche in Italia le origini del movimento ginnastico affondano le radici nel risorgimento nazionale. L'origine e lo sviluppo dei vari sodalizi schermistici, delle società di tiro a segno, dei club alpinistici (emanazione delle società ginnastiche) è inscindibilmente legata alla epopea risorgimentale e al culto degli ideali della nazione. La lettura degli statuti e dei programmi dell'universo ginnastico italiano specifica ulteriormente il patrimonio di valori ideali e simbolici di cui si faceva portavoce : la «difesa della patria», il «miglioramento fisico e intellettuale del popolo», il «cittadino soldato» sono concetti continuamente richiamati a voler ribadire, in ultima istanza, una esperienza diretta a costituire uno dei caratteri fondamentali della costruzione della identità nazionale al pari della istruzione, della diffusione della lingua nazionale o della difesa dei costumi. «Far ginnastica e far nazione dunque» diviene dunque un imperativo categorico dell'educazione fisica ottocentesca.
Guido Verucci ha sostenuto che le idealità della educazione fisica, (idealità profondamente laiche) erano direttamente relazionabili ad una delle più diffuse ideologie di fine Ottocento : ossia a quella del self-help. E questo perché la sanità, la robustezza e il vigore fisico erano ritenuti i po-stulati imprescindibili di una pedagogia popolare diretta ad educare al «primato délia vittoria» nelle difficoltà délia vita e del lavoro. A sviluppare, in ultima analisi, la volontà, il carattere, la disciplina.
Io ho indagato la realtà di questo modello ginnastico in un contesto del tutto particolare corne quello délia Trieste di fine Ottocento e d'inizio No-vecento ancora sotto il dominio asburgico. Nella città giuliana la Società Ginnastica Triestina ha rappresentato uno dei centri e dei simboli più vitali dell'irredentismo. Una palestra non solo di esercizi fisici ma di educazione ai valori délia italianità.
Esemplati sul modello e sull'insegnamento di Jahh i movimenti ginnastici divengono, nelle singole realtà nazionali, i difensori di una ortodossia nazionale volta alla difesa della lingua, alla valorizzazione dei costumi e usi locali, alla esaltazione delle tradizioni. E questo soprattutto all'indomani della vittoria delle truppe prussiane a Sedan, nel 1870, allorché quella vittoria fu unanimemente considerata corne il frutto di un addestramento militare che aveva alla sua base la pratica ginnastica.
Anche in Italia a partire dal 1870 in Italia la questione dell'educazione fisica diviene oggetto di un intenso dibattito. Di piu', la questione del «corpo malato» dell'italiano e dunque délia sua rigenerazione diviene uno degli obiettivi primari della nation building della nuova classe diligente liberale.
Le prime visite di leva indette dal neonato stato unitario avevano in effetti denunciato un preoccupante quadro sanitario dei giovani in età militare. Fra il 1866 e il 1871 oltre il 40% dei giovani sottoposti alle visite milita-re risultava riformabile per imperfezioni fisiche.
E proprio questo dibattito conduce al varo della legge scolastica sull'obbligo ginnastico nel 1878. Nel presentare il disegno di legge in Parlamento l'allora ministro della pubblica istruzione Francesco De Sanctis sottolineava che «L'insegnamento della ginnastica sia considerato non corne un vano spasso, ma corne una istituzione nazionale, fondamento dei nostri metodi educativi [...] se dobbiamo ricuperare il posto dovuto alla nostra nazione, stata due volte capo e maestra del mondo - proseguiva De Sanctis - dobbiamo procurare che questi esercizi [...] penetrino nei costumi e diventino parte integrante delle nostre feste e delle nostre istituzioni nazionali».
Manca il tempo, e comunque altrove è stato fatto, per seguire l'evoluzione della realtà ginnastica di fine Ottocento. Ma su un punto vale la pena soffermare l'attenzione per capire corne il bagaglio culturale e ideale dell'universo ginnastico si trasferiscano, a partire dall'inizio del Novecento, nel mondo dello sport.
Allorché lo sport inizia a diffondersi in Italia, fra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento, il movimento ginnastico oppone una forte resistenza considerandolo corne un prodotto di «marca straniera» in quanto nato nella Inghilterra vittoriana.
«Veicolo dei vizi inglesi», «infezione morbosa», «insana passione» : queste le espressioni più comuni che il mondo ginnastico italiano usa nel descrivere lo sport all'inizio del secolo. Al coro si univano i maestri di ginnastica i quali deploravano il fatto che quando i giovani «giuocano al calcio, vestono, mangiano, bevono, e bestemmiano all'inglese!»
A mettere per primo in crisi la funzione pedagogica, civile e sociale della ginnastica è Angelo Mosso.,, Fisiologo di fama internazionale (nonché presidente della Società ginnastica torinese) Mosso, sostenuto da una nutrita schiera di seguaci, suggerisce, verso la fine dell'Ottocento, di accantonare il vetusto sistema della ginnastica basata sulla contrazione dei musco-li e di introdurre in sua vece una ginnastica semplice e naturale tesa alla loro distensione. Ma soprattutto Mosso sosteneva che occorreva abbandonare il chiuso delle palestre e l'uso degli attrezzi per forgiare all'aria aperta il «nuovo corpo» dell'italiano. I giochi inglesi, dal football al lawn tennis, dal canotaggio al nuoto, dai salti alla corsa, avrebbero meglio preparato i giovani alla modernità del nuovo secolo proprio perché codificati nella patria della rivoluzione industriale e quindi espressione di una «filosofia» moderna di fronte alla quale la ginnastica appariva anacronistica e legata al passato.
Consequenzialmente, argomentava Mosso, il gioco all'aria aperta avrebbe non solo forgiato corpi e caratteri in sintonia con quella modernità l'allora ministro della pubblica istruzione Francesco De Sanctis sottolineava che «L'insegnamento della ginnastica sia considerato non corne un vano spasso, ma corne una istituzione nazionale, fondamento dei nostri metodi educativi [...] se dobbiamo ricuperare il posto dovuto alla nostra nazione, stata due volte capo e maestra del mondo - proseguiva De Sanctis - dobbiamo procurare che questi esercizi [...] penetrino nei costumi e diventino parte integrante delle nostre feste e delle nostre istituzioni nazionali».
Manca il tempo, e comunque altrove è stato fatto, per seguire l'evoluzione della realtà ginnastica di fine Ottocento. Ma su un punto vale la pen-na soffermare l'attenzione per capire corne il bagaglio culturale e idéale deU'universo ginnastico si trasferiscano, a partire dall'inizio del Novecento, nel mondo dello sport.
Allorché lo sport inizia a diffondersi in Italia, fra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento, il movimento ginnastico oppone una forte resi-stenza considerandolo corne un prodotto di «marca straniera» in quanto nato nella Inghilterra vittoriana.
«Veicolo dei vizi inglesi», «infezione morbosa», «insana passione» : queste le espressioni più comuni che il mondo ginnastico italiano usa nel descrivere lo sport all'inizio del secolo. Al coro si univano i maestri di ginnastica i quali deploravano il fatto che quando i giovani «giuocano al calcio, vestono, mangiano, bevono, e bestemmiano all'inglese!»
A mettere per primo in crisi la funzione pedagogica, civile e sociale della ginnastica è Angelo Mosso.,, Fisiologo di fama internazionale (nonché presidente della Sociétà ginnastica torinese) Mosso, sostenuto da una nutrita schiera di seguaci, suggerisce, verso la fine dell'Ottocento, di accantonare il vetusto sistema della ginnastica basata sulla contrazione dei musco-li e di introdurre in sua vece una ginnastica semplice e naturale tesa alla lo-ro distensione. Ma soprattutto Mosso sosteneva che occorreva abbandonare il chiuso délie palestre e l'uso degli attrezzi per forgiare all'a-ria aperta il «nuovo corpo» dell'italiano. I giochi inglesi, dal football al lawn tennis, dal canotaggio al nuoto, dai salti alla corsa, avrebbero meglio preparato i giovani alla modernità del nuovo secolo proprio perché codificati nella patria della rivoluzione industriale e quindi espressione di una «filosofia» moderna di fronte alla quale la ginnastica appariva anacronistica e legata al passato.
Consequenzialmente, argomentava Mosso, il gioco all'aria aperta avrebbe non solo forgiato corpi e caratteri in sintonia con quella modernità che i nuovi sistemi produttivi richiedevano ma (tema caro al patriottismo risorgimentale) avrebbe preparato più adeguatamente i giovani alle moderne necessità militari e alla difesa dei confini della nazione. Del resto, secondo una battuta allora ricorrente negli ambienti ginnastici internazionali, proprio sui campi di cricket si erano formate schiere di ufficiali e soldati che avevano esteso a quasi un quarto dell'intero pianeta l'impero di sua maestà britannica.
Lo sport - nella concezione di Angelo Mosso - si configurava corne strumento di formazione di una nuova antropologia dell'italiano. Una an-tropologia certo più moderna rispetto a quella deU'universo ginnastico ma che proprio dal movimento ginnastico ne ereditava una délie componenti essenziali : quella di una educazione a sfondo nazionalistico.
Sia pure a fatica lo sport (dal foot-ball, al ciclismo, al canotaggio) sostituiva o comunque conviveva nelle società ginnastiche, a partire dall'inizio del Novecento, accanto ai vecchi esercizi ginnastici.
Certo che vale forse la pena ricordare che il movimento ginnastico sottopose gli sport inglesi ad una sorta di rivisitazione in chiave nazionalistica. Pierre Milza in un saggio di qualche anno fa ha notato che l'Italia sia l'unico paese al mondo in cui il gioco più popolare del mondo non conservi la radice linguistica délia patria d'origine. In realtà non è il fascismo che ribattezza il foot-ball col nome di calcio ma è, per l'appunto, il mondo ginnastico d'inizio secolo. E questo perché i ginnasti sostengono che il football non è nato in Inghilterra ma in Italia. Giulio Franceschi in uno dei più diffusi manuali sui giochi italiani pubblicato nelle edizioni Hoepli nel 1903, il foot-ball - codificato dagli inglesi attorno alla meta dell'Ottocento - altro non era che una semplificazione del gioco del calcio fiorentino «rimandadaci dall' lnghilterra [...] semplificazione che, probabilmente soltanto pee il nome esotico è tornata subito in voga tra noi».
Certo di fronte a quella che gli osservatori d'inizio Novecento definivano la « febbre » e l'invasione dello sport inglese non tutte le realtà nazionali reagivano allô stesso modo. Se in Italia lo sport subisce una sorta di rivisitazione tesa a rivendicare le radici nazionali di alcuni sport, negli Stati Uni-ti esiste una vera e propria dinamica del rifiuto nei confronti di alcuni giochi inglesi. Il sociologo americano Andrei Markovits analizzando la scarsa fortuna che fin dall'origine ha avuto negli Stati Uniti il football è giunto alla conclusione che il rifiuto del football - sport britannico per eccellenza -da parte degli americani sottointende la creazione di una «nuova identità»
Dunque nei giochi tradizionali è la città, il villaggio, il quartiere o una determinata realtà sociale che afferma la propria identità e la propria su-premazia. Ne puô essere altrimenti perché i giochi tradizionali hanno regole e codici riconoscibili in aree geografiche circoscritte.
Lo sport muta radicalmente questa prospettiva perché, a differenza dei giochi tradizionali, è un modello ludico universale ossia si gioca allo stesso modo (con le stesse regole, le stesse modalità, gli stessi tempi) in ogni angolo del continente. E questa sua fisionomia consente il confronto con altre realtà nazionali. Se Yagon di cui parla Caillois esprime, nei giochi tradizionali la fierezza, l'orgoglio, la supremazia del villaggio o del quartiere, lo sport trasferisce quei caratteri nei confronto fra realtà nazionali enfatiz-zando la posta in gioco, cioè la vittoria, che si carica di significati che van-no ben oltre il puro fatto agonistico.
E per capire corne lo sport enfatizzi il ruolo della identità nazionale occorre riflettere sul fatto che proprio fra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento inizia l'era dei grandi confronti internazionali.
De Coubertin, allorché nei 1896 promuove i primi Giochi Olimpici ad Atene, inaugura in realtà una manifestazione nella quale l'elemento di fon-do sarebbe diventato, a suon di medaglie, la supremazia di una nazione sull'altra attraverso la competizione.
Nei 1900 si disputa fra Inglesi e Americani la prima edizione della Coppa Davis che, da subito, assume la fisionomia di uno scontro a sfondo nazionalistico fra i tennisti del Nuovo Mondo e quelli dell'antica madrepatria.
Nei calcio il primo incontro fra due squadre nazionali (Austria e Ungheria) si disputa il 12 ottobre 1902 e nei 1904 si costituisce la FIFA (Federazione internazionale delle associazioni calcistiche). La nazionale ita-liana di calcio esordirà il 15 maggio 1910 a Milano contro la nazionale di Francia.
Ed è proprio l'era dei confronti internazionali che contribuisce ad enfatizzare il binomio sport/identità nazionale, rendendo anacronistico l'aforisma decoubertiniano secondo il quale «l'importante non è vincere ma partecipare».
Lo sport diviene, a partire dall'inizio del secolo, simbolo di una supremazia non solo fisica, ma anche morale e politica délia nazione.
Questa, in sintesi, l'evoluzione del rapporto fra sport e identità nazionale nell'età libérale. Il fascismo, corne anticipato in apertura del mio intervento, avrebbe enfatizzato il mito della nazione sportiva esasperandolo anche corne simbolo di una superiorità razziale.
Johan Huizinga nei 1939 dalle pagine di Homo ludens osservava corne poco a poco nella società moderna lo sport si fosse allontanato dalla pura sfera del gioco e avesse in definitiva perduto qualche cosa délia pura attivi-tà ludica». Osservava ancora Huizinga che nelle culture arcaiche le gare rientravano nelle feste sacrali e annotava che «questo nesso col culto è an-dato completamente perduto». Fin qui Huizinga. A voler integrare il quale si potrebbe affermare che la nuova sacralità alla quale si accompagna lo sport nell'età contemporanea è appunto quella délia nazione.

Stefano Pivato

Tutto Per La Patria Manifesto per Una Italia Migliore




L’Italia esiste solo come entità fiscale. Tende a sparire come sistema-Italia, come servizi, per essere solo un espressione tributaria, una cambiale collettiva, un esercizio implacabile di esattoria. Non ci unisce più nulla ormai, al di fuori della Tassa. L’Italia, insomma si avvia a diventare un paese irreale. Non surreale, come finora si è pensato e forse sperato, confidando nelle nostre abituali risorse di fantasia di genio e di sregolatezza . No irreale nel vero senso della parola.

L’Italia appare sempre più un emanazione della tv, una costola della fiction televisiva. Una specie di realtà virtuale nel senso dei giochi di simulazione. Anche il Partito architrave di questa Italia irreale, è diventato irreale. Ha raggiunto una sua perversa trasparenza che non è sinonimo di onestà e limpidezza, ma di vacuità. Dentro non c’è niente. Se entri in un partito, è come se ti iscrivi al club di Fantomas. La tessera equivale all’anello di Gige, che rende invisibile. Varcata la soglia trovi il nulla, ti nominano cavaliere di gran croce, nel senso che devi mettere una croce sulla scheda al momento delle elezioni.. Ma per il resto? Un esercizio commerciale o poco più. L’impressione è che si stia combattendo una sotterranea ma diffusa guerra di liberazione: la liberazione dall’Italia. Cambia la prospettiva del dopo, per molti è l’Europa, per altri è il Villaggio Globale, per taluni è il Villaggio e basta, o la regione, e per altri semplicemente è il proprio condominio. Non vediamo in giro segnali di gravidanza per una nuova entità politica e culturale, oltre che economica e sociale: vediamo piuttosto l’agonia di un paese allo sfascio che celebra il suo sfascio, lo inscena e lo rende perfino spettacolare. Intendiamoci di sensazioni crepuscolari dell’Italia è piena la storia e la letteratura del nostro Paese. Ma la sensazione era, fino a qualche tempo fa, che esistesse un collante, un residuo e in fondo tenace luogo di identificazione, una risorsa persistente di identità collettiva che sopravviveva a tutte le intemperie. Adesso no, quella sensazione sembra venuta meno. Mentre parlavamo di riforme l’Italia se ne è andata. E’ venuto meno il senso di appartenenza a una identità comune, ad una nazione, un popolo o una patria, prima che uno Stato. Qualcosa d’impalpabile eppure assai concreto, che si respira nell’aria, nelle cose, nel linguaggio, nel paesaggio, nel vivere insieme, oltre che nella cultura e nella memoria.

Ad unirci resta quel che più di ogni altra cosa contribuì a disperderci, la televisione. E’ l’unica  casa comune che resta e ci consente di parlare di cose comuni con un linguaggio comune. Ma l’Italia muore di televisione.

Ci allontaniamo contemporaneamente, e con la stessa sequenza logica, dalla parrocchia e dal municipio.

Il peccato originale fu commesso dai partiti che hanno dissolto la nazione con la parola e con l’esempio, legittimando il pubblico disgusto e i privati affarissimi. Ma dobbiamo riconoscere che il Pese non è meglio della sua classe dirigente.

Certo, la forbice tra dinamismo della società e arretratezza della politica  si è allargata , la società civile si è sviluppata, mentre la società politica è scesa nel sottosviluppo. Ma se il discorso si trasferisce sulla qualità etica e civile, le due società tendono a combaciare. La piazza riproduce in scala ridotta la grande corruzione e la grande inefficienza del palazzo.

L’Italia soffre di cattiva modernità, di una immissione nello sviluppo senza contrappesi forti in termini di tradizioni e di carattere nazionale. Il male d’Italia è la tabula rasa che si è fatta di ogni identità collettiva, il rigetto di ogni radicamento nel proprio tessuto nazionale. : il puro orbitare in uno spazio vacante , in una terra di nessuno, dove siamo cresciuti in grassezza ma non in altezza, in latitudine ma non in profondità. E se il nostro problema non fosse di liberarci dalla identità italiana  ma di esprimerla al meglio? Se il nostro difetto non fosse la nostra italianità ma il nostro complesso di italianità che non ci consente di confrontarci con quel che siamo e ci destina ad esser la controfigura, la degradazione, di quel che vorremmo essere ?  Un Paese non può disegnarsi sul nulla, prescindendo dalla sua stessa realtà e dalla sua storia, ma deve tenere in mente i suoi caratteri radicali. Perché se non lo fa, non diventa un altro Paese, ma diventa la caricatura di se stesso. Su questa tabula rasa è nato un capitalismo senza radicamento etico o nazionale: una partitocrazia senza spirito pubblico e primato degli interessi generali, una democrazia senza popolo, senza valori, senza dignità nazionale.  

Abbiamo pure inventato il peggiore tipo di individualismo, quello fondato sull’irresponsabilità di ciascuno nel disinteresse di tutti.  Abbiamo consentito il dominio del privato, della sua logica e dei suoi interessi, anche laddove sono in gioco interessi pubblici e questioni generali. Mentre i settori pubblici che si vorrebbero privatizzare, non funzionano perché in realtà sono già stati privatizzati , nel senso che rispondono a puri interessi di bande, di clan, siano essi partiti, comitati d’affari, lobbies o vere e proprie cosche,

Da noi ciascuno si chiama fuori dallo sfascio, si deresponsabilizza. E’ la sfiducia assoluta che i comportamenti personali, le responsabilità di ciascuno, possano produrre qualche effetto: il cambiamento è ritenuto possibile solo dall’alto, e da parte di non precisati altri.

Ma c’è una pericolosa sovrapposizione che si tenta di far passare: la difesa dell’identità nazionale viene confusa con la difesa dello status quo, di un regime, di un assetto partitocratrico, di un sistema di potere.

In realtà le due cose non coincidono, ma la crescita dell’una è stata la causa principale del declino dell’altra.

Ripensare l’Italia non può dunque avere il senso di conservare quest’Italia: si riuscirà anzi a ripensare sul serio l’Italia solo quando si riuscirà a coniugare questo pensiero e questa concreta, vivente integrazione nel proprio Paese con l’ineludibile rigetto di “quest’Italia che non ci piace”.

Ma oggi si tratta in realtà di ripensare l’Italia che non c’è, l’Italia che non appare. Ma che esiste non solo nella memoria, ma anche nel paesaggio, nella cultura, nella lingua, nella vita di ciascuno.









Siamo Italici ancor prima di essere Italiani;

L'Italia e' una Repubblica, la sovranità' appartiene al popolo;

Il Presidente della Repubblica e' eletto direttamente dal popolo. Rimane in carica per cinque anni. 
E' capo del Governo ha potere di nomina e revoca dei ministri. E' capo delle Forze Armate e responsabile della politica estera;

La camera legislativa della Nazione e' il Senato della Repubblica, e' composto da 321 membri, dura in carica 5 anni;

La Banca d'Italia appartiene alla nazione la funzione di presidente pro tempore è svolta dal ministro dell'economia;

Sono quattro le festività nazionali della Repubblica: il 17 marzo nascita della Nazione; il 4 novembre Festa dell'Unita' Nazionale; il 2 giugno nascita della Repubblica; il 21 Aprile Natale di Roma; 

La Corte Costituzionale ha una funzione meramente consultiva;


Il processo (penale e civile) ha due gradi di giudizio. La carriera dei giudici e' separata;

Lo straniero che risiede legalmente da almeno 10 anni nel territorio italiano può fare istanza per richiedere la cittadinanza italiana;

Reddito di cittadinanza alle famiglie


Sospendere l' habeas corpus per i reati connessi alla criminalità organizzata


Abolizione delle regioni


Per appropriazione indebita di soldi pubblici deve essere prevista la detenzione in carcere; la pena deve essere commisurata all'entità del furto commesso fino a prevedere il carcere a vita.