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Meglio una dittatura sovrana che una democrazia serva


Il discorso su democrazia e dittatura, lungi dalla solita e perenne retorica dei testi universitari o dei dialoghi televisivi sulla partecipazione pubblica alla vita dello Stato (ridotta ad un gesto banale come quello di fare una croce su un prodotto elettorale), è essenziale per emanare giudizi meno superficiali sui nostri tempi. Che non sono più quelli in cui Churchill poteva affermare, con una battuta, che “la democrazia è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte quelle altre forme che si sono sperimentate finora”. La democrazia è, a questo punto occorre dirlo, una forma di governo modellata sulla prepotenza di un Paese e dei suoi vassalli, che si impone a suon di mazzate e con sempre meno infingimenti su chi non ne accetta il dominio. La democrazia ha gettato la maschera da qualche decennio, diciamo da quando le sfide internazionali hanno alzato la posta in palio, modificando lentamente i rapporti di forza geopolitici, redistribuendo gli equilibri, per ora a livello regionale ma con una tendenza allo scontro crescente tra attori politicamente e militarmente sempre più aggressivi su tutto il planisfero. La pantomima democratica non funziona più nemmeno nei paesi che la sperimentano da lungo tempo, tanto che i gruppi dirigenti, sedicenti democratici, devono ricorrere ad astuzie aggiuntive per riportare le loro pubbliche opinioni alla “ragione” della libertà. Basta vedere il tradimento del responso referendario sulla Brexit. Epitomando: il popolo non è sovrano per niente, in democrazia o in qualsiasi altro sistema politico. Il popolo deve pensare con le idee che altri in alto elaborano mettendogliele in testa e non ha mai coscienza, se non labile, dei veri obiettivi di chi ne condiziona i convincimenti. In altra sede, La Grassa ha scritto che le parti in lotta, anche se sono passate dal voto, in realtà non si fanno eleggere per servire la popolazione, in quanto
“sono strutturate e hanno precisi vertici di comando, tesi a dati (ma non dichiarati) obiettivi di conquista dei posti chiave nelle sfere degli apparati politici, economici e ideologico-culturali. La loro lotta deve ovviamente nascondere gli effettivi intenti di mera conquista del potere (del tutto, o quasi, per quei tot anni) dietro la menzogna degli interessi generali della popolazione, con magari una particolare predisposizione per questo o quel raggruppamento sociale, i cui voti siano preferibilmente “inseguiti” da questo o quel vertice delle parti in lotta, che si ritiene particolarmente organizzato a tale scopo (si pensi, ad es., ai “sindacati dei lavoratori”, organismi fortemente centralizzati, che appoggiano dati partiti). Bando dunque, per favore, alle pantomime sulla “democrazia” come governo del popolo, questo concetto del tutto astratto e il più fortemente ideologico di ogni altro, nel preciso senso di ideologia come falsa coscienza: quella indotta nei cittadini, non quella dei vertici di potere, che se ne servono con notevole consapevolezza dell’inganno da loro perpetrato. Inoltre, e questo è per me decisivo nel deprezzare ogni presunta democrazia elettorale, i cittadini vengono invitati a eleggere questo o quello senza alcun particolare impegno e rischio che non sia l’andare al voto, magari perfino rinunciandoci talvolta se il tempo è particolarmente brutto o invece specialmente bello per andarsene in vacanza, ecc. In altri assai meno miserabili contesti, i cittadini, e facendo magari specificatamente appello alla loro appartenenza a dati gruppi sociali, vengono chiamati alla vera lotta mediante ben altre ideologizzazioni, che sollecitano a volte la loro ira e sempre la speranza di un futuro migliore, perfino l’intelligenza di una decisa fuoriuscita da condizioni di oppressione e di miseria (non solo materiale), ecc”. In casi come questi, gli sciocchi (o qualcosa di peggio a volte) liberali affermano che si va verso la “dittatura”; perché la lotta può farsi cruenta e portare un dato gruppo al vertice della società, per di più rappresentato da un “capo”. In questi casi, però, masse imponenti di esseri umani (senza che si possa calcolare se rappresentano il 50% + 1 della popolazione, per di più quella al di sopra di una data età) si muovono anche a rischio della loro vita, danno il meglio di se stessi, non vanno a bighellonare nei seggi elettorali. Affermo con decisione che questa situazione è mille volte più “democratica” dell’altra. E la “dittatura” è solo nella testa di chi ci rimette, in casi come questi, l’intero suo potere di spremere quella gran massa popolare per i suoi bassi interessi, senza bisogno della benché minima ideologia di supporto: ideologia non come falsa coscienza, bensì come forte credenza che qualcosa di meglio possa essere conquistato. Senza dubbio, in casi del genere viene in evidenza la crudezza dei moti “di massa” e spesso tante altre miserie, perché in simili contingenze s’insinua nel movimento un po’ di tutto; tuttavia, ripeto che chi si muove in tale contesto rischia qualcosa di suo (fino appunto alla pelle). Tale situazione è mille volte migliore della falsa, miserabile, spenta, “democrazia” elettorale dei sedicenti liberali”.
Il democratificio è una fabbrica del potere che produce un certo tipo di funzioni, autolegittimandosi ex-post tramite una volontà generale, chiamata ad esprimersi periodicamente su dei candidati, alla quale si dà la sensazione di entrare nel processo decisionale mentre è già tutto prestabilito da una superiore visione, invisibile agli occhi. On n'échappe pas de la machine. Rancière scriveva: “Le elezioni sono libere. Servono essenzialmente ad assicurare la riproduzione del medesimo personale dominante sotto etichette intercambiabili, ma le urne non sono in genere strapiene ed è possibile rendersene conto senza rischiare la vita. L’amministrazione non è corrotta, tranne in quegli affari di mercato pubblico dove finisce per confondersi con gli interessi dei partiti dominanti. Le libertà individuali sono rispettate, a prezzo di considerevoli eccezioni per tutto quello che riguarda la difesa delle frontiere e la sicurezza del territorio. La stampa è libera: chi voglia fondare, senza l’aiuto di potenze finanziarie, un giornale o una rete televisiva capace di raggiungere l’insieme della popolazione incontrerà serie difficoltà, ma non finirà in galera. I diritti di associazione, di riunione e di manifestazione permettono l’organizzazione di una vita democratica, cioè di una vita politica indipendente dalla sfera statale. Permettere è evidente mente una parola ambigua”. 
Gianfranco La Grassa, nel suo intervento, aggiunge un altro tassello alla questione democrazia vs dittatura. Quest’ultima non è una degenerazione della prima ma il risultato di un differente decisionismo nascente in contesti storici particolari in cui cincischiare con le “apparenze” democratiche può mettere a repentaglio certe prerogative sovrane a causa dell’infiltrazione di modelli culturali e politici non corrispondenti alle esigenze di recupero della potenza o di rafforzamento complessivo del Paese, in un clima di multipolarismo e policentrismo. In alcuni frangenti è possibile “parlamentare” data la stabilità epocale o in virtù di relazioni mondiali consolidate, in altri si deve agire tempestivamente badando al sodo. In ogni caso, il popolo non governa mai e mai governerà perché la politica è soprattutto serie di mosse strategiche, dunque coperte, segrete, per assumere la preminenza. Ora si lamentino pure i liberali che ululano contro i totalitarismi. La loro è solo una cultura del piagnisteo, per di più ipocrita perché la democrazia è altrettanto assassina, subdola, manipolante e intrigante (se cosi non fosse non esisterebbero i servizi segreti), che non commuove chi come noi, si spera, è avvezzo ad andare oltre le esteriorità ideologiche dei loro discorsi del piffero. Ebbene sì, meglio una dittatura che punta alla grandezza dello Stato che una democrazia asservita ad interessi stranieri.



Democrazia e dittatura, solo differente decisionismo.

E’ possibile dirsi ancora Italiani e soprattutto esserlo davvero?





L’Italia esiste solo come entità fiscale. Tende a sparire come sistema-Italia, come servizi, per essere solo un espressione tributaria, una cambiale collettiva, un esercizio implacabile di esattoria. Non ci unisce più nulla ormai, al di fuori della Tassa. L’Italia, insomma si avvia a diventare un paese irreale. Non surreale, come finora si è pensato e forse sperato, confidando nelle nostre abituali risorse di fantasia di genio e di sregolatezza . No irreale nel vero senso della parola.

L’Italia appare sempre più un emanazione della tv, una costola della fiction televisiva. Una specie di realtà virtuale nel senso dei giochi di simulazione. Anche il Partito architrave di questa Italia irreale, è diventato irreale. Ha raggiunto una sua perversa trasparenza che non è sinonimo di onestà e limpidezza, ma di vacuità. Dentro non c’è niente. Se entri in un partito, è come se ti iscrivi al club di Fantomas. La tessera equivale all’anello di Gige, che rende invisibile. Varcata la soglia trovi il nulla, ti nominano cavaliere di gran croce, nel senso che devi mettere una croce sulla scheda al momento delle elezioni.. Ma per il resto? Un esercizio commerciale o poco più. L’impressione è che si stia combattendo una sotterranea ma diffusa guerra di liberazione: la liberazione dall’Italia. Cambia la prospettiva del dopo, per molti è l’Europa, per altri è il Villaggio Globale, per taluni è il Villaggio e basta, o la regione, e per altri semplicemente è il proprio condominio. Non vediamo in giro segnali di gravidanza per una nuova entità politica e culturale, oltre che economica e sociale: vediamo piuttosto l’agonia di un paese allo sfascio che celebra il suo sfascio, lo inscena e lo rende perfino spettacolare. Intendiamoci di sensazioni crepuscolari dell’Italia è piena la storia e la letteratura del nostro Paese. Ma la sensazione era, fino a qualche tempo fa, che esistesse un collante, un residuo e in fondo tenace luogo di identificazione, una risorsa persistente di identità collettiva che sopravviveva a tutte le intemperie. Adesso no, quella sensazione sembra venuta meno. Mentre parlavamo di riforme l’Italia se ne è andata. E’ venuto meno il senso di appartenenza a una identità comune, ad una nazione, un popolo o una patria, prima che uno Stato. Qualcosa d’impalpabile eppure assai concreto, che si respira nell’aria, nelle cose, nel linguaggio, nel paesaggio, nel vivere insieme, oltre che nella cultura e nella memoria.

Ad unirci resta quel che più di ogni altra cosa contribuì a disperderci, la televisione. E’ l’unica  casa comune che resta e ci consente di parlare di cose comuni con un linguaggio comune. Ma l’Italia muore di televisione.

Ci allontaniamo contemporaneamente, e con la stessa sequenza logica, dalla parrocchia e dal municipio.

Il peccato originale fu commesso dai partiti che hanno dissolto la nazione con la parola e con l’esempio, legittimando il pubblico disgusto e i privati affarissimi. Ma dobbiamo riconoscere che il Pese non è meglio della sua classe dirigente.

Certo, la forbice tra dinamismo della società e arretratezza della politica  si è allargata , la società civile si è sviluppata, mentre la società politica è scesa nel sottosviluppo. Ma se il discorso si trasferisce sulla qualità etica e civile, le due società tendono a combaciare. La piazza riproduce in scala ridotta la grande corruzione e la grande inefficienza del palazzo.

L’Italia soffre di cattiva modernità, di una immissione nello sviluppo senza contrappesi forti in termini di tradizioni e di carattere nazionale. Il male d’Italia è la tabula rasa che si è fatta di ogni identità collettiva, il rigetto di ogni radicamento nel proprio tessuto nazionale. : il puro orbitare in uno spazio vacante , in una terra di nessuno, dove siamo cresciuti in grassezza ma non in altezza, in latitudine ma non in profondità. E se il nostro problema non fosse di liberarci dall’identità italiana  ma di esprimerla al meglio?Se il nostro difetto non fosse la nostra italianità ma il nostro complesso di italianità che non ci consente di confrontarci con quel che siamo e ci destina ad esser la controfigura, la degradazione, di quel che vorremmo essere ?  Un Paese non può disegnarsi sul nulla, prescindendo dalla sua stessa realtà e dalla sua storia, ma deve tenere in mente i suoi caratteri radicali. Perché se non lo fa, non diventa un altro Paese, ma diventa la caricatura di se stesso. Su questa tabula rasa è nato un capitalismo senza radicamento etico o nazionale: una partitocrazia senza spirito pubblico e primato degli interessi generali, una democrazia senza popolo, senza valori, senza dignità nazionale.  

Abbiamo pure inventato il peggiore tipo di individualismo, quello fondato sull’irresponsabilità di ciascuno nel disinteresse di tutti.  Abbiamo consentito il dominio del privato, della sua logica e dei suoi interessi, anche laddove sono in gioco interessi pubblici e questioni generali. Mentre i settori pubblici che si vorrebbero privatizzare, non funzionano perché in realtà sono già stati privatizzati , nel senso che rispondono a puri interessi di bande, di clan, siano essi partiti, comitati d’affari, lobbies o vere e proprie cosche,

Da noi ciascuno si chiama fuori dallo sfascio, si deresponsabilizza. E’ la sfiducia assoluta che i comportamenti personali, le responsabilità di ciascuno, possano produrre qualche effetto: il cambiamento è ritenuto possibile solo dall’alto, e da parte di non precisati altri.

Ma c’è una pericolosa sovrapposizione che si tenta di far passare: la difesa dell’identità nazionale viene confusa con la difesa dello status quo, di un regime, di un assetto partitocratrico, di un sistema di potere.

In realtà le due cose non coincidono, ma la crescita dell’una è stata la causa principale del declino dell’altra.

Ripensare l’Italia non può dunque avere il senso di conservare quest’Italia: si riuscirà anzi a ripensare sul serio l’Italia solo quando si riuscirà a coniugare questo pensiero e questa concreta, vivente integrazione nel proprio Paese con l’ineludibile rigetto di “quest’Italia che non ci piace”.

Ma oggi si tratta in realtà di ripensare l’Italia che non c’è, l’Italia che non appare. Ma che esiste non solo nella memoria, ma anche nel paesaggio, nella cultura, nella lingua, nella vita di ciascuno.

Laude dell' Eroismo Ardito


Puoi riconoscere vari personaggi esempio di Eroismo Ardito:
Francesco Baracca, Italo Balbo, Gabriele D'Annunzio, Ettore Muti
Enrico Toti, Ardito Desio, Elia Rossi Passavanti, Edoardo Sala.