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Identità sportiva e identità nazionale





L' autorappresentazione della nazione attraverso lo sport assume forma compiuta. Il regime mussoliniano crea un modello, più tardi imitato anche dai regimi totalitari dei paesi dell'Est, attraverso il quale lo sport diviene rappresentazione della potenza e della identità nazionale : Mussolini - ha scritto lo storico americano John M. Hoberman - fu senza dubbio «il maggior atleta politico del periodo fascista». E Filippo Tommaso Marinetti fu l'ispiratore di una concezione antropomorfica dello Stato atletico. « Se pregare significa comunicare con la divinità, il correre a forte velocità è una preghiera - scriveva nel 1916 Marinetti in La nuova moralità-religione della velocità -. L'ebbrezza di un'auto lanciata a forte velocità non è altro che la gioia di sentirsi interamente fusi con la sola divinità. Gli atleti sono i primi catecumeni di questa religione».
Se il regime fascista fa propria la concezione del dinamismo marinettiano per esasperare nell'immaginario collettivo l'idea di una nazione atletica, forte e vincente è comunque nella seconda meta dell'Ottocento che prende corpo la fisionomia del binomio sport/nazione. O, ancor meglio il corpo diviene il luogo di rappresentazione plastica del vitalismo e del dinamismo della nazione. Già nel 1902 Hobson nel suo saggio sull'imperialismo scriveva che l'essenza dello sport consisteva in un arcaico istinto predatorio. «La brama animale di lotta - scriveva Hobson — [...] soprawive nel sangue, e proprio nella misura in cui una nazione o una classe conservano un margine di energia e di tempo libero dalle attività dell'industria pacifica, chiede di essere soddisfatta attraverso lo sport».
La genealogia del rapporto sport/identità nazionale non può non partire da Federico Ludovico Jahn che all'inizio dell'Ottocento elabora un modello di educazione fisica inteso ad esaltare il senso di appartenenza alla comunità nazionale. Sostenitore del primato morale della nazione, Jahn considerava il Turn, la palestra, il luogo ideale in cui il giovane non solo si addestrava agli esercizi fisici, ma si formava corne membro della comunità nazionale.
L'opera e l'eredità di Jahn, ampiamente analizzati da Mosse, divengono nel corso dell'Ottocento un modello per i movimenti ginnastici europei: da quello italiano a quello francese, dai Sokols dei paesi slavi al Maccabi delle comunità ebraiche. Anche in Italia le origini del movimento ginnastico affondano le radici nel risorgimento nazionale. L'origine e lo sviluppo dei vari sodalizi schermistici, delle società di tiro a segno, dei club alpinistici (emanazione delle società ginnastiche) è inscindibilmente legata alla epopea risorgimentale e al culto degli ideali della nazione. La lettura degli statuti e dei programmi dell'universo ginnastico italiano specifica ulteriormente il patrimonio di valori ideali e simbolici di cui si faceva portavoce : la «difesa della patria», il «miglioramento fisico e intellettuale del popolo», il «cittadino soldato» sono concetti continuamente richiamati a voler ribadire, in ultima istanza, una esperienza diretta a costituire uno dei caratteri fondamentali della costruzione della identità nazionale al pari della istruzione, della diffusione della lingua nazionale o della difesa dei costumi. «Far ginnastica e far nazione dunque» diviene dunque un imperativo categorico dell'educazione fisica ottocentesca.
Guido Verucci ha sostenuto che le idealità della educazione fisica, (idealità profondamente laiche) erano direttamente relazionabili ad una delle più diffuse ideologie di fine Ottocento : ossia a quella del self-help. E questo perché la sanità, la robustezza e il vigore fisico erano ritenuti i po-stulati imprescindibili di una pedagogia popolare diretta ad educare al «primato délia vittoria» nelle difficoltà délia vita e del lavoro. A sviluppare, in ultima analisi, la volontà, il carattere, la disciplina.
Io ho indagato la realtà di questo modello ginnastico in un contesto del tutto particolare corne quello délia Trieste di fine Ottocento e d'inizio No-vecento ancora sotto il dominio asburgico. Nella città giuliana la Società Ginnastica Triestina ha rappresentato uno dei centri e dei simboli più vitali dell'irredentismo. Una palestra non solo di esercizi fisici ma di educazione ai valori délia italianità.
Esemplati sul modello e sull'insegnamento di Jahh i movimenti ginnastici divengono, nelle singole realtà nazionali, i difensori di una ortodossia nazionale volta alla difesa della lingua, alla valorizzazione dei costumi e usi locali, alla esaltazione delle tradizioni. E questo soprattutto all'indomani della vittoria delle truppe prussiane a Sedan, nel 1870, allorché quella vittoria fu unanimemente considerata corne il frutto di un addestramento militare che aveva alla sua base la pratica ginnastica.
Anche in Italia a partire dal 1870 in Italia la questione dell'educazione fisica diviene oggetto di un intenso dibattito. Di piu', la questione del «corpo malato» dell'italiano e dunque délia sua rigenerazione diviene uno degli obiettivi primari della nation building della nuova classe diligente liberale.
Le prime visite di leva indette dal neonato stato unitario avevano in effetti denunciato un preoccupante quadro sanitario dei giovani in età militare. Fra il 1866 e il 1871 oltre il 40% dei giovani sottoposti alle visite milita-re risultava riformabile per imperfezioni fisiche.
E proprio questo dibattito conduce al varo della legge scolastica sull'obbligo ginnastico nel 1878. Nel presentare il disegno di legge in Parlamento l'allora ministro della pubblica istruzione Francesco De Sanctis sottolineava che «L'insegnamento della ginnastica sia considerato non corne un vano spasso, ma corne una istituzione nazionale, fondamento dei nostri metodi educativi [...] se dobbiamo ricuperare il posto dovuto alla nostra nazione, stata due volte capo e maestra del mondo - proseguiva De Sanctis - dobbiamo procurare che questi esercizi [...] penetrino nei costumi e diventino parte integrante delle nostre feste e delle nostre istituzioni nazionali».
Manca il tempo, e comunque altrove è stato fatto, per seguire l'evoluzione della realtà ginnastica di fine Ottocento. Ma su un punto vale la pena soffermare l'attenzione per capire corne il bagaglio culturale e ideale dell'universo ginnastico si trasferiscano, a partire dall'inizio del Novecento, nel mondo dello sport.
Allorché lo sport inizia a diffondersi in Italia, fra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento, il movimento ginnastico oppone una forte resistenza considerandolo corne un prodotto di «marca straniera» in quanto nato nella Inghilterra vittoriana.
«Veicolo dei vizi inglesi», «infezione morbosa», «insana passione» : queste le espressioni più comuni che il mondo ginnastico italiano usa nel descrivere lo sport all'inizio del secolo. Al coro si univano i maestri di ginnastica i quali deploravano il fatto che quando i giovani «giuocano al calcio, vestono, mangiano, bevono, e bestemmiano all'inglese!»
A mettere per primo in crisi la funzione pedagogica, civile e sociale della ginnastica è Angelo Mosso.,, Fisiologo di fama internazionale (nonché presidente della Società ginnastica torinese) Mosso, sostenuto da una nutrita schiera di seguaci, suggerisce, verso la fine dell'Ottocento, di accantonare il vetusto sistema della ginnastica basata sulla contrazione dei musco-li e di introdurre in sua vece una ginnastica semplice e naturale tesa alla loro distensione. Ma soprattutto Mosso sosteneva che occorreva abbandonare il chiuso delle palestre e l'uso degli attrezzi per forgiare all'aria aperta il «nuovo corpo» dell'italiano. I giochi inglesi, dal football al lawn tennis, dal canotaggio al nuoto, dai salti alla corsa, avrebbero meglio preparato i giovani alla modernità del nuovo secolo proprio perché codificati nella patria della rivoluzione industriale e quindi espressione di una «filosofia» moderna di fronte alla quale la ginnastica appariva anacronistica e legata al passato.
Consequenzialmente, argomentava Mosso, il gioco all'aria aperta avrebbe non solo forgiato corpi e caratteri in sintonia con quella modernità l'allora ministro della pubblica istruzione Francesco De Sanctis sottolineava che «L'insegnamento della ginnastica sia considerato non corne un vano spasso, ma corne una istituzione nazionale, fondamento dei nostri metodi educativi [...] se dobbiamo ricuperare il posto dovuto alla nostra nazione, stata due volte capo e maestra del mondo - proseguiva De Sanctis - dobbiamo procurare che questi esercizi [...] penetrino nei costumi e diventino parte integrante delle nostre feste e delle nostre istituzioni nazionali».
Manca il tempo, e comunque altrove è stato fatto, per seguire l'evoluzione della realtà ginnastica di fine Ottocento. Ma su un punto vale la pen-na soffermare l'attenzione per capire corne il bagaglio culturale e idéale deU'universo ginnastico si trasferiscano, a partire dall'inizio del Novecento, nel mondo dello sport.
Allorché lo sport inizia a diffondersi in Italia, fra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento, il movimento ginnastico oppone una forte resi-stenza considerandolo corne un prodotto di «marca straniera» in quanto nato nella Inghilterra vittoriana.
«Veicolo dei vizi inglesi», «infezione morbosa», «insana passione» : queste le espressioni più comuni che il mondo ginnastico italiano usa nel descrivere lo sport all'inizio del secolo. Al coro si univano i maestri di ginnastica i quali deploravano il fatto che quando i giovani «giuocano al calcio, vestono, mangiano, bevono, e bestemmiano all'inglese!»
A mettere per primo in crisi la funzione pedagogica, civile e sociale della ginnastica è Angelo Mosso.,, Fisiologo di fama internazionale (nonché presidente della Sociétà ginnastica torinese) Mosso, sostenuto da una nutrita schiera di seguaci, suggerisce, verso la fine dell'Ottocento, di accantonare il vetusto sistema della ginnastica basata sulla contrazione dei musco-li e di introdurre in sua vece una ginnastica semplice e naturale tesa alla lo-ro distensione. Ma soprattutto Mosso sosteneva che occorreva abbandonare il chiuso délie palestre e l'uso degli attrezzi per forgiare all'a-ria aperta il «nuovo corpo» dell'italiano. I giochi inglesi, dal football al lawn tennis, dal canotaggio al nuoto, dai salti alla corsa, avrebbero meglio preparato i giovani alla modernità del nuovo secolo proprio perché codificati nella patria della rivoluzione industriale e quindi espressione di una «filosofia» moderna di fronte alla quale la ginnastica appariva anacronistica e legata al passato.
Consequenzialmente, argomentava Mosso, il gioco all'aria aperta avrebbe non solo forgiato corpi e caratteri in sintonia con quella modernità che i nuovi sistemi produttivi richiedevano ma (tema caro al patriottismo risorgimentale) avrebbe preparato più adeguatamente i giovani alle moderne necessità militari e alla difesa dei confini della nazione. Del resto, secondo una battuta allora ricorrente negli ambienti ginnastici internazionali, proprio sui campi di cricket si erano formate schiere di ufficiali e soldati che avevano esteso a quasi un quarto dell'intero pianeta l'impero di sua maestà britannica.
Lo sport - nella concezione di Angelo Mosso - si configurava corne strumento di formazione di una nuova antropologia dell'italiano. Una an-tropologia certo più moderna rispetto a quella deU'universo ginnastico ma che proprio dal movimento ginnastico ne ereditava una délie componenti essenziali : quella di una educazione a sfondo nazionalistico.
Sia pure a fatica lo sport (dal foot-ball, al ciclismo, al canotaggio) sostituiva o comunque conviveva nelle società ginnastiche, a partire dall'inizio del Novecento, accanto ai vecchi esercizi ginnastici.
Certo che vale forse la pena ricordare che il movimento ginnastico sottopose gli sport inglesi ad una sorta di rivisitazione in chiave nazionalistica. Pierre Milza in un saggio di qualche anno fa ha notato che l'Italia sia l'unico paese al mondo in cui il gioco più popolare del mondo non conservi la radice linguistica délia patria d'origine. In realtà non è il fascismo che ribattezza il foot-ball col nome di calcio ma è, per l'appunto, il mondo ginnastico d'inizio secolo. E questo perché i ginnasti sostengono che il football non è nato in Inghilterra ma in Italia. Giulio Franceschi in uno dei più diffusi manuali sui giochi italiani pubblicato nelle edizioni Hoepli nel 1903, il foot-ball - codificato dagli inglesi attorno alla meta dell'Ottocento - altro non era che una semplificazione del gioco del calcio fiorentino «rimandadaci dall' lnghilterra [...] semplificazione che, probabilmente soltanto pee il nome esotico è tornata subito in voga tra noi».
Certo di fronte a quella che gli osservatori d'inizio Novecento definivano la « febbre » e l'invasione dello sport inglese non tutte le realtà nazionali reagivano allô stesso modo. Se in Italia lo sport subisce una sorta di rivisitazione tesa a rivendicare le radici nazionali di alcuni sport, negli Stati Uni-ti esiste una vera e propria dinamica del rifiuto nei confronti di alcuni giochi inglesi. Il sociologo americano Andrei Markovits analizzando la scarsa fortuna che fin dall'origine ha avuto negli Stati Uniti il football è giunto alla conclusione che il rifiuto del football - sport britannico per eccellenza -da parte degli americani sottointende la creazione di una «nuova identità»
Dunque nei giochi tradizionali è la città, il villaggio, il quartiere o una determinata realtà sociale che afferma la propria identità e la propria su-premazia. Ne puô essere altrimenti perché i giochi tradizionali hanno regole e codici riconoscibili in aree geografiche circoscritte.
Lo sport muta radicalmente questa prospettiva perché, a differenza dei giochi tradizionali, è un modello ludico universale ossia si gioca allo stesso modo (con le stesse regole, le stesse modalità, gli stessi tempi) in ogni angolo del continente. E questa sua fisionomia consente il confronto con altre realtà nazionali. Se Yagon di cui parla Caillois esprime, nei giochi tradizionali la fierezza, l'orgoglio, la supremazia del villaggio o del quartiere, lo sport trasferisce quei caratteri nei confronto fra realtà nazionali enfatiz-zando la posta in gioco, cioè la vittoria, che si carica di significati che van-no ben oltre il puro fatto agonistico.
E per capire corne lo sport enfatizzi il ruolo della identità nazionale occorre riflettere sul fatto che proprio fra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento inizia l'era dei grandi confronti internazionali.
De Coubertin, allorché nei 1896 promuove i primi Giochi Olimpici ad Atene, inaugura in realtà una manifestazione nella quale l'elemento di fon-do sarebbe diventato, a suon di medaglie, la supremazia di una nazione sull'altra attraverso la competizione.
Nei 1900 si disputa fra Inglesi e Americani la prima edizione della Coppa Davis che, da subito, assume la fisionomia di uno scontro a sfondo nazionalistico fra i tennisti del Nuovo Mondo e quelli dell'antica madrepatria.
Nei calcio il primo incontro fra due squadre nazionali (Austria e Ungheria) si disputa il 12 ottobre 1902 e nei 1904 si costituisce la FIFA (Federazione internazionale delle associazioni calcistiche). La nazionale ita-liana di calcio esordirà il 15 maggio 1910 a Milano contro la nazionale di Francia.
Ed è proprio l'era dei confronti internazionali che contribuisce ad enfatizzare il binomio sport/identità nazionale, rendendo anacronistico l'aforisma decoubertiniano secondo il quale «l'importante non è vincere ma partecipare».
Lo sport diviene, a partire dall'inizio del secolo, simbolo di una supremazia non solo fisica, ma anche morale e politica délia nazione.
Questa, in sintesi, l'evoluzione del rapporto fra sport e identità nazionale nell'età libérale. Il fascismo, corne anticipato in apertura del mio intervento, avrebbe enfatizzato il mito della nazione sportiva esasperandolo anche corne simbolo di una superiorità razziale.
Johan Huizinga nei 1939 dalle pagine di Homo ludens osservava corne poco a poco nella società moderna lo sport si fosse allontanato dalla pura sfera del gioco e avesse in definitiva perduto qualche cosa délia pura attivi-tà ludica». Osservava ancora Huizinga che nelle culture arcaiche le gare rientravano nelle feste sacrali e annotava che «questo nesso col culto è an-dato completamente perduto». Fin qui Huizinga. A voler integrare il quale si potrebbe affermare che la nuova sacralità alla quale si accompagna lo sport nell'età contemporanea è appunto quella délia nazione.

Stefano Pivato

Camicie rosse camicie nere




Il governo fascista ha voluto dedicare alla memoria di Anita, la presenza galoppante, nell’atteggiamento di guerriera che insegue il nemico e di madre che protegge il figlio. L’artista insigne, che ha così dato oltre l’effige lo spirito di Anita, che conciliò sempre, durante la rapida avventurosa sua vita, i doveri alti della madre con quelli della combattente intrepida al fianco di Garibaldi. E’ nel cinquantenario della morte dell’eroe, cinquantenario che vorremmo celebrato come nazionale solennità, che il monumento si inaugura alla vostra augusta presenza, alla presenza dei discendenti di Garibaldi e dei prodi garibaldini, alla presenza ideale di tutto il popolo italiano. Di Garibaldi fu detto prima  e dopo la morte, dalla storia, dall' arte, dalla poesia, dalla leggenda che vive nelle anime delle moltitudini più a lungo della storia. Adolescenti, il nome di Garibaldi ci apparve circonfuso dalle luci di questa leggenda. Le camicie nere che seppero lottare e morire negli anni dell’umiliazione, si posero politicamente sulla linea delle camicie rosse e del prode condottiero.
Durante tutta la sua vita egli ebbe il cuore infiammato da una sola passione: l’unità e l’indipendenza della Patria. Tra i due periodi giganteggia Garibaldi che ha un solo pensiero, un solo programma, un sola fede: l’Italia. Coerente, di una perfetta coerenza, che gli apologeti postumi del suo nome non sempre compresero, fu coerente, e quando offriva la sua spada a Pio IX, e quando vent’anni dopo, lanciava i suoi disperati legionari sulle colline di Mentana. Coerente quando collaborava con Cavour, seguiva Mazzini, serviva Vittorio Emanuele II, osava Aspromonte. La marcia dei Mille, da Marsala al Volturno, guerra e rivoluzione insieme, elemento portentoso che ha dato per sempre l’unità della Patria. Il suono della vita, anche in quella di Garibaldi, le minori e le mediocri cose che accompagnano inevitabilmente l’azione – polemiche, ingratitudine, abbandoni -, un uomo non sarebbe più grande se non fosse uomo fra gli uomini.
Ma la storia ha già tratto dalle fatali antitesi la sintesi della definitiva giustizia, e Garibaldino è vivo più alto e più possente che mai nella coscienza della nazione e nelle coscienze di libertà.
Le generazioni del nostro secolo, cariche già di sanguinose esperienze, attraverso la più grande guerra che l’umanità ricordi, ebbero un pregio. Se il cavaliere bronzeo che sorge qui vicino diventasse uomo vivo e aprisse gli occhi mi piace sperare che egli riconoscerebbe la discendenza delle sue camicie rosse nei soldati di Vittorio Veneto e nelle camicie nere che da un decennio continuano sotto forma ancora più popolare e più feconda, il suo volontarismo. E sarebbe lieto di posare il suo sguardo su questa Roma, luminosa, vasta, pacificata, che egli amò di infinito amore e che fin dai primi anni della giovinezza identificò con l’Italia.
Sire, finchè su questo colle dominerà la statua dell’eroe sicuro e forte sarà il destino della Patria.

Benito Mussolini Roma maggio 1932




                                                                                    

                            A Roma l'inaugurazione del monumento ad Anita Garibaldi




                                                                             

                                                                                    Il trasporto a Roma delle spoglie di Anita Garibaldi




                                       Anita Garibaldi





                                         inaugurazione del busto di Anita Garibaldi, offerto da Costanza Garibaldi



                                                   A Roma lo scultore La Spina termina la testa di Garibaldi


La destra e la sinistra rovina della Patria



È un buon motivo per rassegnarsi? Sicuramente no, per chi sa guardare al di là delle cortine fumogene della disinformazione e coglie senso e sostanza della posta in gioco nel conflitto, ancor più asimmetrico degli altri per la dismisura delle forze in campo, che è in atto fra l’occidentalismo e i suoi oppositori. Il cui primo dovere è recare ovunque sia possibile parole di verità: denunciare, documentare, smascherare. Per non doversi poi sentire complici dei disastri che il fanatismo ideologico liberale e i disegni politici di chi se ne avvale stanno seminando, e continueranno a seminare, sul nostro pianeta.
Marco Tarchi 



Il disgusto del sordido è solo un'altra manifestazione della sensibilità alle cose più belle. 
Non vi è percezione di bellezza che non abbia un corrispondente senso di disgusto.
Ezra Loomis Pound


La destra e la sinistra Giorgio Gaber

Sentinelle d'Italia riprendete il vostro posto




 Le loro parole saran presto polvere dispersa

Serbate inviolato il principio sul quale si fonda la vostra esistenza come Nazione. Questa voce non è spenta e si fa sentire ancor oggi monito e rampogna contro i fiacchi rassegnati…

In questo momento Oberdan ha ancora qualche parola da dire al popolo italiano che sta subendo nuovi soprusi e dolorose rinunzie. …Ora da un pezzo tacciono le rane petulanti,mentre l’eroe e il poeta sono assunti numi tutelari, nel Pantheon dell’anima nazionale. E tale pure sarà la sorte dei mentori pigmei che garriscono contro l’uomo – Sentinella d’Italia: le loro parole saran presto polvere dispersa, mentre lui grandeggerà sempre più in alto e radioso nel cielo della Patria.


Aurelio Saffi, 24 dicembre 1882 



                                   Le Campane di San Giusto -Beniamino Gigli

Terni: "Il denaro pubblico sarà trattato come sacro al bene del popolo"







"Il danaro pubblico sarà trattato come sacro al bene del popolo".
Elia Rossi Passavanti


Il Giornale d’Italia, 31 marzo 1924

Terni: “Un corteo di oltre ventimila persone con trenta musiche e centinaia di bandiere ha percorso le vie della città, tra l’entusiasmo delirante della folla che faceva ala al suo passaggio. Dalle finestre sono stati gettati a piene mani fasci di fiori sull’eroico combattente che G. D’Annunzio predilige tra i suoi più nobili e più puri legionari.”. In piazza Vittorio Emanuele, l’attuale piazza della Repubblica, “davanti a una folla immensa”, Elia Rossi Passavanti pronuncia “un’orazione semplicemente meravigliosa, strappando le lacrime di commozione ed ovazioni frequenti, interminabili…”. “Da questa città – risuonante di opere audaci – forgiatrice di ogni tempra, generatrice fulminea, balenante di energie vitali e mortali, e da un croscio profondo di una fusione magnanima, deve uscire l’Italia della pace e del lavoro. Uomini usi a tutto osare, conoscitori del dolore e degli stenti, della debolezza e della forza, delle potenze note e ignote, d’angoscia in angoscia, di errore in errore, di timore in timore, di presagio in presagio, di preghiera in preghiera, ci siamo sollevati alla santità di questo ternano mattino. Accendiamo, accendiamo l’immensa fornace o popolo mio, o fratelli, e che accesa resti per trenta secoli e che il fuoco fatichi, sino a che tutto il metallo si strugga, sino a che la colata sia pronta, sino a che l’urto del ferro apra il varco al sangue rovente della rinascita e della salvazione…”.


Elia Rossi Passavanti fu eletto alla Camera dei Deputati con grande suffragio, giurò il 24 maggio, aveva 28 anni.






                                                  "Inno del sole"
                                      Pietro Mascagni  su libretti  di Luigi Illica

Patrioti di tutta Europa unitevi






"A noi ci hanno insegnato tutto gli americani.
Se non c'erano gli americani... a quest'ora noi eravamo europei...".


Giorgio Gaber 

Diventa ciò che sei 
Friedrich Nietzsche


 di Marcello Veneziani
Due principi ormai si fronteggiano sulla scena mondiale, venuto meno il comunismo: uno. prevalente, che pone il traguar­do dell'umanità nel cosmopolitismo, nella città planetaria. E il Progetto ethos mondiale di cui parlava in un suo  libro il teologo progressista Hans Kung e che trova sulla stessa linea, a differenti livelli, un variegato panorama: dai pacifisti umanitari, ai cattolici democratici, dai liberal-progressisti ai socialdemocra­tici, dai neo-comunisti fino ai liberal-capitalisti. Sullo sfondo non mancano naturalmente circoli finanziari e massonici, multi­nazionali e grandi industrie protese verso la globalizzazione del mercato. Il progetto è far seguire a questo mondialismo degli affari, un mondialismo etico, che trovi fondamento nei diritti dell'uomo ed espressione nel sogno di un'umanità liberata dalle frontiere terrene e ultraterrene. Pendant e sottofondo necessario di questa visione "ecumenica" è l'individualismo, ovvero la con­siderazione dell'uomo come entità irriducibile ed autonoma rispetto ad ogni ambito; e dunque errante, facilmente spostabile, inappartenente. Sviluppo altrettanto necessario è il progetto di un governo mondiale, una sorta di Super-ONU che affianchi il governo effettivo della finanza mondiale, dandole un supporto organizzativo ed anche un supplemento etico di anima. Un governo mondiale umanitario, verde quanto basta, pacifista fino ad un certo punto, inflessibile nel soffocare le zone difformi o i modelli culturali che incrinano questa pax annunciata.

Dall'altra parte, emerge un principio antagonista: quello che si oppone al mondialismo attraverso la rivolta comunitaria. É un principio amico, originario, e insieme nuovo che si esprime nelle società industrializzate del primo mondo, come nelle società uscite dal comunismo del secondo mondo, e infine nelle società ancora non del tutto conquistate dallo sviluppo nel terzo mondo. II suo referente, variamente indicato dalla difesa del territorio alle identità e specificità etniche, culturali e religiose, dalla tutela dell'ambiente e delle città in rovina al recupero del tessuto comunitario, fino ai fondamentalismi nazional-religiosi, è sostanzialmente l'appartenenza e la difesa di una patria. Patria intesa in senso lato, come luogo originario, come luogo culturale o cultuale, ma anche sociale e lavorativo, ambientale e linguisti­co, in cui ciascuno sì trova a casa. In questa prospettiva ciascu­no avverte di sentirsi culturalmente, naturalmente ed elettiva­mente inserito in una serie di ambiti comunitari, dalla famiglia alla città, alla comunità di lavoro, alla regione, alla nazione. E avverte questa appartenenza come un radicamento a cui non può fare a meno, se non facendo a meno di se stesso. E dunque difende la sua patria. Ma la difende non attaccando le patrie altrui, patrie territoriali o ideali, e perfino ideologiche; ma al contrario, difendendo nella propria patria la patria di ciascuno. Anzi, la garanzia dì vita della mia patria è la garanzia di vita della patria di ciascuno, e viceversa. 
Non sì tratta dunque, come spesso ancora si fa nella nostra società frammentata ed egoistica, di contrapporre ad un principio universale come il mondialismo, un principio particolare, come la propria diversità. Sarebbe un discorso debole, perdente, una pura fuga nel microcosmo e nel privato, in definitiva omogenea e funzionale al mondialismo stesso, che ama accreditarsi come un supermercato in cui è possibile esporre ogni merce. Si tratta invece di passare a concepire la difesa della propria diversità, della propria identità, non come un fatto antagonistico a quello delle altre, né come un fatto a sé stante, che mira a isolarsi da un contesto generale. Ma come un principio anch'esso universale.
Ovvero, occorre passare ad una specie di intemazionale delle patrie in cui le patrie si coalizzano per difendere le proprie radici e la propria peculiarità dal comune avversario: il mondialismo che omologa, annienta e trita le diversità e concepisce solo indi­vidui nudi. Ricordiamo un appello rivolto dai movimenti nazional-religiosì russi: 

                                                  " Patrioti di tutto il mondo unitevi".


Un appello che coglie perfettamente l'unica battaglia possibile per ostacola­re la città mondiale senza volto, la poltiglia universale. "Ognì persona che rispetti la cultura e la tradizione del proprio popolo è nostro fratello" dicono gli esponenti di un movimento (peraltro inaccettabile in molte sue valenze) come il Pamjat. E aggiungono: "In Occidente esistono più di duemila popoli, ognuno con la sua cultura particolare, perche a noi, invece di questa ricchezza, viene data una pseudocithura di massa, un simile intruglio di "metalli pesanti", di pornofilm, di kolossal cinematografici e altre produzioni cosmopolite, buone solo a danneggiare ciò che resta della nostra spiritualità? L'intenzione di trasformare i popo­li in un'unica folla senza patria, facile da pilotare..."

Si tratta di superare i nazionalismi aggressivi del passato, i vecchi imperialismi coloniali, o i "patrioti" di giacobina memo­ria. Facile obiezione è far notare l'aggressività con cui si manifestano oggi i conati nazionalistici. Non si può dimenticare che alcuni patriottismi degenerano in violenze o si manifestano con punte di intolleranza, perché a loro volta hanno subito violenze. Non è stato loro concesso il diritto di manifestarsi, sono state calpestate le loro sovranità nazionali e popolari, sono stati nega­ti, spesso a suon di carri armati, i loro diritti di popolo. Si tratta allora di un'intolleranza di ritorno. L'aggressività non nasce dall'istanza patriottica ma dal fatto che è stata repressa. E quan­do viene repressa esplode assumendo a volte toni concitati e forme incontrollate. Differente è il nostro caso di paese occiden­tale, dove le patrie più che represse sono state depresse. E da qui nascono, per virtù omeopatica, semipatriottismi '"depressi" che talvolta, tramite alcune degenerazioni ecologiste e localiste, fini­scono con l'essere pure fughe nel particolare, con l'alibi che lì vi è maggiore concretezza. E con l'esito di non incrinare gli assetti del sistema ma di assecondarti. A volte vengono forniti anche surrogati di patriottismo. É il caso ad esempio del "patriottismo della costituzione" di cui parta un intellettuale tedesco progressista (ma conservatore, anzi retrivo, rispetto alla storia tedesca che cammina e travolge i muri), Jurgen Habermas. E un patriottismo che alberga anche da noi, e che vorrebbe tra­sferire il sentimento collettivo di appartenenza nell'astratto e cartaceo riconoscimento di una Costituzione liberale e democra­tica. Bisecolare vizio illuministico di far nascere le cose con decreto legge della Ragione, dalla carta; senza trarle dalla storia, dalla vita concreta e dall'anima dei popoli.
I due principi antagonistici, serbano naturalmente nello spa­zio che tra loro intercorre, una varietà di posizioni che impedisce una valutazione manichea. C'è perfino un punto di contatto: è rappresentato dall'europeismo. Nell'Europa si incrociano cosmopolitismi e patriottismi. Ma la direzione verso cui marcia­no è opposta: il mondialismo vede l'Europa come un passo per liberarsi dai nazionalismi e per marciare verso la compiuta globalizzazione del sistema: i patriottismi vedono al contrario nell'Europa la macroappartenenza ad una Patria-civiltà e la grande nascita di un soggetto forte che tuteli le specificità dal Progetto di un mondo uniforme e unipolare.   
   
La battaglia dei prossimi anni è dunque questa (Furio Colombo vede il futuro nell'alternativa tra"universalismo e tri­balismo"; e l'impegno verso cui lavorare è quello dt far com­prendere ai vari comunitarismi la loro concordia discors, la loro comune esigenza di coalizzarsi in nome del comune principio delle diversità da tutelale. Questo discorso può largamente appli­carsi, senza perdere la coerenza, anche in chiave politica e socia­le concreta. Rispetto all'onnivoro centrismo che tutto media, neutralizza e digerisce; rispetto all'egemonia del capitale che mira a rendere inorganiche le differenze per organizzare il mer­cato, le diversità politiche, sociali, sindacali e culturali, le "patrie" di ciascuno, devono coalizzarsi, cominciando a non con­cepirsi in antagonismo, superando i confini topografici di destra e di sinistra, di tradizionalismo e di progressismo. Non è il caso di sprecare le proprie energie per insultarsi fra dirimpettai di marciapiede quando il rullo compressore minaccia di spianare tutta la strada.









L' America Giorgio Gaber