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Severità di Patria


Non vogliamo ammetterlo e giriamo in modo estenuante attorno alla questione, ma il buco nero intorno a cui danziamo ha un nome preciso: amor di patria. Gli appelli drastici al rinnova­mento o alla conservazione, le sante alleanze e le leghe nazionali che si invocano da più parti, la Grande Riforma o il Partito degli Onesti, ruotano intorno a quell'omissione, anzi la invocano senza pronunciarla.Se manca il coraggio di richiamare in servizio quel comune senso di appartenenza nazionale non c'è nessuna ragione per interrompere il gioco allo sfascio, o alla decomposizione, come correggono con dotto tartufismo i sociologi. C'era una volta la carità di patria, ma è stata usata con troppa indulgenza, al punto da dissipare la stessa idea di patria. Adesso, ha ragione il CENSIS, si dovrebbe piuttosto inventare la severità di patria, un sen­timento austero che non tollera più pulcinellate né sgravi di responsabilità o fughe nei sofismi, nella retorica e nella demago­gia. Basta con il perdonismo e le indulgenze. Severità di patria. Ma è possibile un patriottismo? É possibile, anzi è necessario. É l'unica via possibile per non chiudere bottega e privatizzare l'Italia nel senso peggiore del termine: cioè spaccarla in tranci, in lotti, in briciole e liqui­darla come nazione. Certo, non si tratta di rispolverare uniformi fatiscenti o retori­che d'annata. Si tratta piuttosto di inventare un patriottismo severo, anti-retorico, asciutto, che non risparmi l'autocritica per carità di patria; ma si sottragga all'autodenigrazione, sport nazionale ad alto tasso di improduttività. In fondo la guerra civile delle istituzioni è in atto perché manca quel collante: e la psicosi del partito die lui ha investito gli arti, come una paralisi progressiva. Ed ognuno dice la sua, si dis­socia e si mette in proprio perché rappresenta un partito o aspira a rappresentarlo. Ogni imprecazione trova un target e dunque in base alla legge di mercato trova legittimazione all' esistere. Ma di mercato si può anche morire. Se tutto si mette in piazza per piazzarsi come merce, l'unica regola è il successo del prodotto. E invece no, ci dev'essere qualcosa che valga di più degli indici di gradimento, dei punti totalizzati nei sondaggi? E questo qualco­sa, fino a prova contraria, non può essere che uno straccio di patriottismo. Che resta, in fondo, l'unica ragione sociale per cui bene o male stiamo insieme e continuiamo a parlarci nella stessa lingua. Insomma un maturo senso della patria fuori da ogni militari­smo o sciovinismo d'occasione. Un senso della patria che nulla ha a che vedere con il centralismo autoritario e con il "sacro egoismo" nazionale. Anche le piccole patrie sono patrie e meri­tano di essere garantite. E anche le patrie altrui sono patrie, anzi la condizione indispensabile per cui la mia patria possa vivere, è che sia garantita anche la sua, la loro patria. Ovunque si difende una patria, si difende la mia patria, il diritto della mia patria a considerarsi tale. Insomma, non un sentimento aggressivo ed esclusivista, ma il suo contrario. Un patriottismo che sappia guardare anche indietro senza perdere l'equilibrio. Quando si riuscirà a comple­tare quell'unificazione nazionale con una autentica integrazione popolare, l'Italia cesserà di vedersi sempre attraverso le lenti della guerra civile: tra nord e sud, tra cattolici e laici, tra fascisti e antifascisti, tra pubblico e privato, tra città e provincia. É necessario ricucire le vecchie fratture per assorbire le nuove. Forse è possibile. E va detto senza cancellare le amarezze e i disincanti, ma cercando di portarseli appresso come antidoto costante alle tentazioni patriottarde da parata. Tutto questo non urta con l'Europa, ma è la condizione per arrivarci bene e, per evitare che si tratti solo di una semplice trasformazione di un negozio in un supermercato. Un patriottismo con i piedi per terra, perché dalla terra, in fondo, trae origine. Ma è necessario per disegnare l'Italia ventura e per fondare un vero senso di cit­tadinanza. Senza del quale, più che connazionali o concittadini, siamo solo occasionali e rissosi concubini.


Noi siamo i Cacciatori delle Alpi 
Castello Cavour Santena, Coro Michele Novaro, direttore Maurizio Benedetti, pianista Carlo Matti, testi Giuseppe Vettori, attore Mario Brusa.