In EUROPA esistono ormai tre poli: uno e' quello dei partiti di centro destra e sinistra che vogliono mantenere l'Unione Europea tale e quale la conosciamo ora: una entita' in cui e' organizzato l'occidente americanizzato, con una politica estera ed economica al servizio degli USA, il rinnegamento della cultura europea, sostituita in tutti i campi del pensiero dal modello di societa' americana, fino ad arrivare alla sostituzione etnica delle popolazioni europee con altri popoli; un secondo polo e' costituito da quei partiti che predicano l'uscita dall'Euro, dall'Unione Europea, il ritorno di monete nazionali e a singoli stati separati l'uno dall'altro; poi esiste un terzo polo, il cui riferimento principale e' il presidente ungherese Victor Orban e comprende uno schieramento di forze che sono al governo di stati europei, soprattutto collocati nell'Europa Centro-Orientale, questo terzo polo, capisce che un Unione Europea che esiste principalmente per sostenere le politiche e gli interessi statunitensi non può andare bene agli europei, d'altra parte capisce anche che nella geopolitica dei grandi spazi che caratterizza la modernità, il ritorno alle singole nazioni isolate o alle monete nazionali costituirebbe un suicidio per i popoli europei, come la prima ipotesi della sudditanza USA, e quindi ha iniziato a lavorare ad Unione Europea diversa, basata sugli interessi degli europei e non su quelli USA, applicando ipotesi concrete nelle scelte di governo dei propri paesi che non colli mano con le decisioni prese dalla commissione europea, e dai manutengoli degli americani. Questa e' l'unica è autentica via da opprre alla prima ipotesi, cioè di Unione Europea entita' dipendente da padroni di oltre atlantico.
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Dipingere gli Ungheresi come deportatori di disperati in cerca di asilo e costruttori di muri contro l’umanità è storicamente, moralmente e geograficamente ridicolo.
La corsa all’identificazione dell’Ungheria come nido di egoismo e nazionalismo, non conosce sosta. Prende fiato solo per puntare il dito contro l'ultimo paladino dell’autoconservazione, sempre più sulla gogna mediatica: la Gran Bretagna antieuropeista.
Viene da sé: chi non si appiattisce al bon ton politico che dispensa condanne e assoluzioni morali secondo uno standard unico, viene messo alla porta o meglio sul pubblico patibolo.
Dell’Ungheria di cui non si parlava dai tempi di Puskás, oggi si riempiono i giornali. Mai in epoca moderna si era discusso tanto del confine serbo-ungherese, che a fronte di un grande rilievo storico, ai più risulta difficile da collocare anche geograficamente. Il motivo è semplice. Se si parla di muri e immigrazione, le luci della ribalta brillano sempre.
L’asse balcanico del traffico di umani è una realtà conclamata. A fianco dell’autostrada mediterranea che traduce milioni di indigenti, si è consolidata la nuova via dell’immigrazione illegale e della compravendita di disperazione: quella che parte dalla bucherellata Grecia e dalla doppiogiochista Turchia per entrare nell’Unione Europea da sud est.
Ciò che arriva direttamente da Bulgaria e Romania, interne alla UE, ovviamente non fa notizia. Soprattutto dalla Bulgaria che con la Turchia (e l’Asia) divide anche una frontiera di terra. Da quando con la guerra del Kosovo il passaggio tra Mar Nero e Adriatico può contare sulle connivenze di Pristina e Tirana per inquietanti traffici euro-asiatici, a nessuno interessa che se ne parli. All’occhio indignato del benpensante europeo, importano solo i muri e i fili spinati.
Vediamo meglio.
Il filo spinato steso sui 200 km (scarsi) di frontiera serbo-ungherese ha creato un allarme politico malizioso quanto sproporzionato. In prima pagina ci sono Seghedino (l’ungherese Szeged) e la località di Roszke, posizionate proprio sul confine ma in realtà linea mobile di equilibri geopolitici millenari. Sulle piane fertili oggi oggetto di ossessive attenzioni giornalistiche, per secoli si sono alternati Ungheresi, Asburgo, Ottomani e principi serbi, spostando ora sotto, ora sopra, le rispettive sfere d’influenza.
La terra fra Subotica e Roszke è un'eterna frontiera, ben al di là della demarcazione attuale fra Ungheria e Repubblica Serba. Fosse per questo anzi, non ci sarebbero ostilità particolari, perfino considerando l’ingresso di Budapest nella UE (votò solo il 44% degli aventi diritto!) e nella NATO.
La provincia serba che confina con l’Ungheria è la Voivodina, area a forte presenza magiara e culla di istanze di autonomia da Belgrado mai rinnegate. Tra Serbia del nord e Ungheria del sud ci sono meno differenze culturali di quanto si possa immaginare. Tutta l’area, allargata fino alla Transilvania, rientra in quella landa europea di confine che fino al diciassettesimo secolo ha fatto i conti con l’espansione turca, pagandone spesso col sangue le conseguenze.
Dipingere gli Ungheresi come deportatori di disperati in cerca di asilo e costruttori di muri contro l’umanità è storicamente, moralmente e geograficamente ridicolo.
Il filo spinato che oggi corre intorno al sonnacchioso fiume Tisza avrebbe potuto essere posizionato qualche centinaio di km più a Sud, tra Serbia e Macedonia o tra Macedonia e Grecia, senza intaccare minimamente le radici del ragionamento: se l’Europa vuole esistere, deve riconoscersi in un’identità. Quale che sia, ogni identità comporta di per sé il concetto di mantenimento.
A prescindere dalle motivazioni ideali, la decisione ungherese di costruire una barriera e di militarizzare la frontiera, va letta comunque alla luce di un’esigenza pratica. Roszke è collegata alla Repubblica Serba (Subotica ma soprattutto la non lontana e importante Novi Sad) con una grande autostrada, una ferrovia e un importante affluente del Danubio. Tutta la regione, agricola e pianeggiante, consente spostamenti rapidi e penetrazioni facili senza ostacoli naturali. Nella totale assenza di una politica comune europea, Budapest si limita a fare il suo. Ci s’indigna per un rotolo di filo spinato a Roszke, ma si sorvola sul muro tra Texas e Messico nell’America di Obama. La stessa America che per ragioni di sicurezza ha costretto miliardi di persone a rifare il passaporto. Il mondo è strano.
In realtà c’è dell’altro. Il motivo per cui l‘Ungheria siede spesso sul banco degli imputati è essenzialmente politico.
Già nell’occhio della critica da alcuni anni, Budapest è sorvegliata speciale e inserita per default tra i ribelli alla macchina d’integrazione bancario-germanica.
Fidesz e il leader Viktor Orban sono l’antitesi del politically correct europeo. Nemmeno l’Austria di Haider riuscì a farsi tanti nemici.
Il “muro” al confine è solo l’ultima delle polemiche pretestuose alimentate in tempi recenti. Più di tutti hanno potuto gli emendamenti alla Costituzione dal 2011 in poi, bollati come confessionali, clericali e liberticidi perché in controtendenza rispetto alle linee guida di un’Europa che per non offendere le sensibilità altrui, rinnega perfino le proprie origini cristiane. Le politiche sul matrimonio, sull’adozione e sui diritti di coppia sono state rigettate dalle democrazie europee così come il rilievo dato alla religione cattolica e le norme che hanno messo il partito comunista fuori legge.
Non è solo questione di punti di vista. Il tutto andrebbe forse letto alla luce della storia ungherese, che più di altre può insegnare il senso della libertà e il prezzo che si è disposti a pagare per difenderla.
A questo proposito il destino ha una sua ironia. Proprio l’Ungheria che si ribellò ai carri sovietici del ’56, oggi guarda alla Russia di Putin con uno slancio ideale fortissimo. Forse è questo che irrita più di tutti Bruxelles, preoccupata sia come riferimento per le istituzioni europee che come sede NATO.
Impossibile non annotare però che il dito puntato oggi contro Budapest appartenga a coloro che nel ’56, quando l’Ungheria difendeva col sangue la libertà d'espressione e la vita, si sono girati dall’altra parte.
La morale è un treno periodico che corre spesso su un doppio binario.
(di Giampiero Venturi)
A settembre il via alla campagna anti immigrazione del governo ungherese anche in Turchia e Afghanistan
Dopo aver esaminato le possibilità di pubblicità nei paesi dilaniati dalla guerra e nelle zone di conflitto, gli Ungheresi sono giunti alla conclusione che solo molto piccoli gruppi possano essere raggiunti attraverso Internet e i social media, e ha optato piuttosto per una campagna d'informazione negli spazi pubblici e nei giornali . Ai sensi della decisione, i manifesti saranno installati nel mese di settembre, parallelamente al completamento della recinzione temporanea sul confine ungherese con la Serbia, in diverse lingue e dialetti locali.
La campagna anti-immigrazione clandestina di affissioni del governo è in corso all'interno del paese dal mese di maggio.
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