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Sentinelle d'Italia riprendete il vostro posto!

Suona la tromba, ondeggiano
Le insegne gialle e nere
Fuoco, per Dio, sui barbari,
Sulle vendute schiere.
Già ferve la battaglia,
Al Dio dei forti osanna:
Le baionette in canna!



                                                    "Suona la tromba"

E’ possibile dirsi ancora Italiani e soprattutto esserlo davvero?





L’Italia esiste solo come entità fiscale. Tende a sparire come sistema-Italia, come servizi, per essere solo un espressione tributaria, una cambiale collettiva, un esercizio implacabile di esattoria. Non ci unisce più nulla ormai, al di fuori della Tassa. L’Italia, insomma si avvia a diventare un paese irreale. Non surreale, come finora si è pensato e forse sperato, confidando nelle nostre abituali risorse di fantasia di genio e di sregolatezza . No irreale nel vero senso della parola.

L’Italia appare sempre più un emanazione della tv, una costola della fiction televisiva. Una specie di realtà virtuale nel senso dei giochi di simulazione. Anche il Partito architrave di questa Italia irreale, è diventato irreale. Ha raggiunto una sua perversa trasparenza che non è sinonimo di onestà e limpidezza, ma di vacuità. Dentro non c’è niente. Se entri in un partito, è come se ti iscrivi al club di Fantomas. La tessera equivale all’anello di Gige, che rende invisibile. Varcata la soglia trovi il nulla, ti nominano cavaliere di gran croce, nel senso che devi mettere una croce sulla scheda al momento delle elezioni.. Ma per il resto? Un esercizio commerciale o poco più. L’impressione è che si stia combattendo una sotterranea ma diffusa guerra di liberazione: la liberazione dall’Italia. Cambia la prospettiva del dopo, per molti è l’Europa, per altri è il Villaggio Globale, per taluni è il Villaggio e basta, o la regione, e per altri semplicemente è il proprio condominio. Non vediamo in giro segnali di gravidanza per una nuova entità politica e culturale, oltre che economica e sociale: vediamo piuttosto l’agonia di un paese allo sfascio che celebra il suo sfascio, lo inscena e lo rende perfino spettacolare. Intendiamoci di sensazioni crepuscolari dell’Italia è piena la storia e la letteratura del nostro Paese. Ma la sensazione era, fino a qualche tempo fa, che esistesse un collante, un residuo e in fondo tenace luogo di identificazione, una risorsa persistente di identità collettiva che sopravviveva a tutte le intemperie. Adesso no, quella sensazione sembra venuta meno. Mentre parlavamo di riforme l’Italia se ne è andata. E’ venuto meno il senso di appartenenza a una identità comune, ad una nazione, un popolo o una patria, prima che uno Stato. Qualcosa d’impalpabile eppure assai concreto, che si respira nell’aria, nelle cose, nel linguaggio, nel paesaggio, nel vivere insieme, oltre che nella cultura e nella memoria.

Ad unirci resta quel che più di ogni altra cosa contribuì a disperderci, la televisione. E’ l’unica  casa comune che resta e ci consente di parlare di cose comuni con un linguaggio comune. Ma l’Italia muore di televisione.

Ci allontaniamo contemporaneamente, e con la stessa sequenza logica, dalla parrocchia e dal municipio.

Il peccato originale fu commesso dai partiti che hanno dissolto la nazione con la parola e con l’esempio, legittimando il pubblico disgusto e i privati affarissimi. Ma dobbiamo riconoscere che il Pese non è meglio della sua classe dirigente.

Certo, la forbice tra dinamismo della società e arretratezza della politica  si è allargata , la società civile si è sviluppata, mentre la società politica è scesa nel sottosviluppo. Ma se il discorso si trasferisce sulla qualità etica e civile, le due società tendono a combaciare. La piazza riproduce in scala ridotta la grande corruzione e la grande inefficienza del palazzo.

L’Italia soffre di cattiva modernità, di una immissione nello sviluppo senza contrappesi forti in termini di tradizioni e di carattere nazionale. Il male d’Italia è la tabula rasa che si è fatta di ogni identità collettiva, il rigetto di ogni radicamento nel proprio tessuto nazionale. : il puro orbitare in uno spazio vacante , in una terra di nessuno, dove siamo cresciuti in grassezza ma non in altezza, in latitudine ma non in profondità. E se il nostro problema non fosse di liberarci dall’identità italiana  ma di esprimerla al meglio?Se il nostro difetto non fosse la nostra italianità ma il nostro complesso di italianità che non ci consente di confrontarci con quel che siamo e ci destina ad esser la controfigura, la degradazione, di quel che vorremmo essere ?  Un Paese non può disegnarsi sul nulla, prescindendo dalla sua stessa realtà e dalla sua storia, ma deve tenere in mente i suoi caratteri radicali. Perché se non lo fa, non diventa un altro Paese, ma diventa la caricatura di se stesso. Su questa tabula rasa è nato un capitalismo senza radicamento etico o nazionale: una partitocrazia senza spirito pubblico e primato degli interessi generali, una democrazia senza popolo, senza valori, senza dignità nazionale.  

Abbiamo pure inventato il peggiore tipo di individualismo, quello fondato sull’irresponsabilità di ciascuno nel disinteresse di tutti.  Abbiamo consentito il dominio del privato, della sua logica e dei suoi interessi, anche laddove sono in gioco interessi pubblici e questioni generali. Mentre i settori pubblici che si vorrebbero privatizzare, non funzionano perché in realtà sono già stati privatizzati , nel senso che rispondono a puri interessi di bande, di clan, siano essi partiti, comitati d’affari, lobbies o vere e proprie cosche,

Da noi ciascuno si chiama fuori dallo sfascio, si deresponsabilizza. E’ la sfiducia assoluta che i comportamenti personali, le responsabilità di ciascuno, possano produrre qualche effetto: il cambiamento è ritenuto possibile solo dall’alto, e da parte di non precisati altri.

Ma c’è una pericolosa sovrapposizione che si tenta di far passare: la difesa dell’identità nazionale viene confusa con la difesa dello status quo, di un regime, di un assetto partitocratrico, di un sistema di potere.

In realtà le due cose non coincidono, ma la crescita dell’una è stata la causa principale del declino dell’altra.

Ripensare l’Italia non può dunque avere il senso di conservare quest’Italia: si riuscirà anzi a ripensare sul serio l’Italia solo quando si riuscirà a coniugare questo pensiero e questa concreta, vivente integrazione nel proprio Paese con l’ineludibile rigetto di “quest’Italia che non ci piace”.

Ma oggi si tratta in realtà di ripensare l’Italia che non c’è, l’Italia che non appare. Ma che esiste non solo nella memoria, ma anche nel paesaggio, nella cultura, nella lingua, nella vita di ciascuno.