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Le menzogne di partito: i secessionisti della Catalogna



I partiti secessionisti catalani, come quelli italiani inventano la storia.
La prima menzogna
I secessionisti dicono che la guerra del 1714 fu una guerra di secessione, sostengono che la guerra di successione spagnola che fu combattuta all’inizio del Diciottesimo secolo fu in realtà una guerra di secessione della Catalogna dalla Spagna. Secondo questa interpretazione, la sconfitta dell’esercito catalano segnò la fine delle istituzioni autonome della Catalogna sperimentate durante l’Impero Carolingio e l’inizio di un periodo di sottomissione al potere spagnolo.
Le cose però non andarono così:
Nel 1700, alla morte di Carlo II, che era senza un diretto discendente, iniziò una guerra per la corona di Spagna: si scontrarono Filippo V di Borbone (nipote del re Luigi XIV di Francia) e l’arciduca Carlo VI d’Asburgo. Fu una guerra europea che divenne anche una guerra civile: il regno di Castiglia appoggiava i Borbone, mentre il principato di Catalogna stava dalla parte degli Asburgo. Vinsero i Borbone e la Coronela, l’esercito catalano, fu sconfitto. Non fu una guerra di una nazione contro l’altra, né d’indipendenza, né di secessione, né patriottica. Fu una guerra tra due case regnanti per ottenere il potere e basta.

Seconda menzogna :La Costituzione del 1978 è ostile ai catalani
Gli indipendentisti catalani sostengono che sia necessario superare la Costituzione del 1978, ovvero la Costituzione adottata in Spagna dopo che Francisco Franco ha rimesso il potere aĺla Monarchia costituzionale, perché sarebbe a loro ostile; inoltre vorrebbero cambiarla tramite una decisione appoggiata dal Parlamento catalano, ci sono diverse cose sbagliate e false riguardo a questo punto. Anzitutto c'e' un problema di rappresentatività nel modo tramite il quale gli indipendentisti vorrebbero modificare la Costituzione: gli indipendentisti nell’attuale Parlamento catalano sono stati votati da 1,9 milioni di persone, pari al 47,7 per cento del totale dei votanti; la Costituzione del 1978 fu appoggiata da 2,7 milioni di catalani, pari al 91,09 per cento dei votanti. La Catalogna fu, insieme all’Andalucía, la comunità autonoma spagnola ad appoggiare con la maggioranza più ampia la Costituzione, alla cui scrittura parteciparono tra l’altro catalani molto importanti. Il testo votato non si può considerare in nessun modo quello di uno “stato ostile” ai catalani, ma tipico di uno stato profondamente decentralizzato.

La terza menzogna: la Autonomia ha fallito
Gli indipendentisti catalani sostengono che i quasi 40 anni di autogoverno – ovvero la decentralizzazione del potere disegnata con la Costituzione del 1978 – siano stati un fallimento; dicono che oggigiorno sarebbe in corso un nuovo processo di centralizzazione del potere, e che quindi l’autonomia debba essere trasformata in indipendenza. Non e' corretto parlare di fallimento. Nel 1979, un anno dopo l’adozione della Costituzione, fu adottato un nuovo Statuto di Autonomia della Catalogna che tra le altre cose stabilì un sistema di autogoverno senza precedenti nella storia della Spagna»: fu recuperata la lingua catalana, il cui uso era stato vietato durante il franchismo, si fecero passi avanti sulla corresponsabilità fiscale e si ridistribuirono le competenze tra stato e comunità autonoma. Nel 2006 fu approvato un nuovo Statuto di Autonomia, che dava ulteriori poteri alla Catalogna, anche se alcune sue parti furono dichiarate incostituzionali dal Tribunale costituzionale spagnolo. Il grande livello di autogoverno delle comunità autonome spagnole e' una cosa ormai consolidata ed innegabile e se comparato con altri stati del mondo il piu' avanzato.

Quarta menzogna; La Spagna è uno stato autoritario
Gli indipendentisti hanno accusato in diverse occasioni il governo spagnolo di comportarsi in modo autoritario: l’ultima volta è successo meno di una settimana fa, dopo le perquisizioni e gli arresti effettuati dalla Guardia civile spagnola negli edifici del governo catalano a Barcellona, accusato di continuare a organizzare il referendum sull’indipendenza nonostante fosse stato definito illegale dal Tribunale costituzionale spagnolo. L’account Twitter del governo catalano aveva scritto cose tipo: «I cittadini sono convocati per l’1 ottobre per difendere la democrazia da un regime repressivo e intimidatorio»; oppure: «Pensiamo che il governo spagnolo abbia oltrepassato la linea rossa che lo separava dai regimi autoritari e repressivi».non c’è ragione di pensare che la Spagna non sia uno stato democratico. In Spagna esistono lo stato di diritto e la separazione dei poteri; il paese fa parte di tutte le convenzioni internazionali sul rispetto dei diritti umani e le libertà politiche delle Nazioni Unite e dell’Unione Europea; Freedom House ha dato un punteggio di 95/100 al rispetto dei diritti civili e politici in Spagna, lo stesso dato attribuito alla Germania. Né il governo catalano né uno dei gruppi indipendentisti della regione hanno mai fatto ricorso a tribunali internazionali per denunciare delle violazioni dei diritti, né tantomeno lo stato spagnolo è mai stato condannato per questo tipo di violazioni.

Quinta menzogna;La Spagna ci ruba i soldi
(Qui vale ricordare anche certe castronerie nostrane)
L’idea che la Spagna “ruba” i soldi della Catalogna, sostanzialmente ridando indietro molti meno soldi di quelli che riceve, risale al 2012, quando fu diffusa dal governo dell’indipendentista Artur Mas. Allora si disse che la Catalogna contribuiva con 16,4 miliardi di euro al bilancio della Spagna, cioè l’8,4 per cento del PIL catalano: troppo, sostenevano gli indipendentisti.
In realtà i numeri diffusi dal governo catalano, si sono poi dimostrati più bassi, soprattutto dopo la crisi economica: non così lontani dalle percentuali trasferite in media da altri territori prosperi verso i governi centrali a capo dei loro stati federali, e nemmeno così lontano dalle stesse proposte catalane. In alcuni periodi storici il contributo della Catalogna al PIL spagnolo è stato anche più basso di quello di altre regioni della Spagna: per esempio, secondo i dati ufficiali diffusi dal governo spagnolo, nel 2014 la Catalogna è stata la seconda comunità autonoma contribuente netta (con il 5 per cento del suo PIL) dietro a Madrid (9,8 per cento). C’è anche da tenere conto che calcolare con precisione quanto torni indietro indirettamente a una regione che ha versato un contributo allo Stato è molto difficile: questo perché per esempio le tasse catalane finanziano il governo centrale, i ministeri e il Parlamento che legiferano anche per la Catalogna, oltre che l’esercito che protegge l’intero paese. Quantificare questa somma di denaro non è per niente facile.

Sesta menzogna: Da soli saremo più ricchi
Gli indipendentisti catalani sostengono che da soli, quindi staccati dalla Spagna, sarebbero più ricchi. Già oggi la Catalogna è una delle comunità autonome più ricche del paese, insieme a Madrid, Paesi Baschi e Baleari, e ha un PIL pro-capite simile a quello di alcune tra le regioni più avanzate d’Europa. Una Catalogna indipendente aumenterebbe il suo PIL e migliorerebbe i suoi servizi pensionistici e sociali, sostengono gli indipendentisti.
Il problema, è che questa interpretazione minimizza i costi che deriverebbero dall’indipendenza: .la perdita delle sinergie economiche e degli stimoli intellettuali ottenuti dal fatto di appartenere all’ampio spazio economico europeo, sono difficilmente quantificabili, ma dovrebbero essere presi in considerazione. Il ministero dell’Economia spagnolo ha stimato che l’eventuale secessione ridurrebbe il PIL catalano di una cifra compresa tra il 25 e il 30 per cento rispetto a quello attuale; uno studio del ministero degli Esteri, meno catastrofico, parla di un calo del 19 per cento del PIL. Non è comunque possibile dire cose certe su questo tema.

Settima menzogna: Abbiamo diritto a separarci
Nella “Ley del referéndum de autodeterminación vinculante sobre la independencia de Cataluña”, cioè la legge approvata il 6 settembre dal Parlamento catalano che regola il referendum, c’è scritto che la Catalogna ha il «diritto imprescrittibile e inalienabile all’autodeterminazione», in senso «favorevole all’indipendenza». Non è proprio così.
È vero che il diritto internazionale riconosce il principio di autodeterminazione dei popoli, ma non inteso come diritto alla secessione, quanto piuttosto diritto del popolo, o di una parte di esso, a essere cittadino e potersi realizzare politicamente, a partecipare alla vita democratica delle istituzioni del proprio paese. Il diritto alla secessione viene riconosciuto solo in alcuni specifici casi, per esempio dove c’è un dominio coloniale, un’occupazione militare di una forza straniera e dove vengono compiute gravi e sistematiche violazioni dei diritti umani. Nel resto dei casi il diritto internazionale fa prevalere la “garanzia del confine”, ovvero l’integrità territoriale dello stato, sulle esigenze di autodeterminazione.
La Costituzione spagnola non prevede il diritto alla secessione e un cambiamento dello status quo richiederebbe una riforma costituzionale con procedimento aggravato, quindi con una maggioranza rafforzata, proprio come in Italia. Ci sarebbe anche la possibilità di organizzare direttamente un referendum, ma il voto dovrebbe essere organizzato dal governo spagnolo e il risultato non sarebbe comunque vincolante (si parlerebbe di un referendum consultivo).

Ottava menzogna:Non usciremo dall’Unione Europea
Gli indipendentisti sostengono che la Catalogna sicuramente non uscirà dall’Unione Europea, una volta raggiunta l’indipendenza, ma non è una cosa certa o automatica.
Dal 2004 a oggi tutti i presidenti della Commissione europea hanno sostenuto il contrario: se un territorio di uno stato membro smette di esserne parte, perché diventa indipendente, i trattati dell’Unione Europea non potranno continuare ad essere applicati automaticamente a questa parte di territorio. Se vorrà diventare membro dell’Unione Europea, il nuovo stato dovrà fare formale richiesta, secondo quanto prevede l’articolo 49 del Trattato sull’Unione Europea: significa che la sua candidatura dovrà essere accettata da tutti gli attuali stati membri, quindi anche dalla Spagna, che però potrebbe non essere d’accordo in caso di dichiarazione unilaterale di indipendenza della Catalogna.
C’è poi un’altra questione. Per come è fatto oggi il sistema internazionale, uno stato per essere tale deve avere un ampio riconoscimento internazionale (un’entità può definirsi stato in maniera unilaterale, ma se non viene riconosciuto dagli altri non può avviare relazioni diplomatiche, non può entrare a far parte di grandi trattati internazionali, e così via). Come disse lo scorso 25 marzo Artur Mas, ex presidente catalano, «se non ti riconosce nessuno, le indipendenze sono un disastro». Un passaggio fondamentale per ottenere questo riconoscimento è l’ONU. Per ammettere un nuovo stato nell’ONU, questo deve essere raccomandato dal Consiglio di Sicurezza, dove ci sono cinque stati con poteri di veto tra cui la Francia, che non sembra troppo incline a favorire spinte separatiste in un altro paese europeo. La candidatura deve poi essere approvata dai due terzi dell’Assemblea generale, organo che rappresenta tutti gli stati membri dell’ONU. È difficile dire come potrebbe finire tutto questo, visto che ci sono altri stati europei che sono soggetti a spinte indipendentiste e che probabilmente si opporrebbero a un riconoscimento della Catalogna indipendente, per non alimentare gli autonomismi o indipendentismi locali.

Nona menzogna Il referendum dell’1 ottobre è legale
Il governo catalano sostiene che il referendum dell’1 ottobre sia legale e il vicepresidente catalano Oriol Junqueras ha aggiunto che non è contrario al Codice penale. Ma non è vero. La Costituzione affida la competenza esclusiva di indire un referendum di particolare importanza al Parlamento e al governo spagnoli, mentre il referendum dell’1 ottobre è stato convocato unilateralmente dal governo catalano.


Le due leggi approvate dal Parlamento catalano per realizzare il referendum – quella del 6 settembre e un’altra dell’8 settembre – siano illegali, anzitutto per questioni procedurali: sono state votate dal Parlamento catalano senza la maggioranza dei due terzi richiesta per la modifica dello Statuto di Autonomia della Catalogna, e senza avere ottenuto il parere preventivo del Consell de Garanties Estatutàries, il tribunale costituzionale della Catalogna, l’organo che controlla la legalità delle leggi approvate dalla comunità autonoma. La Ley del referéndum sarebbe illegale anche per il suo contenuto: una legge ordinaria non può infatti autoproclamare che «prevale gerarchicamente» sullo Statuto di Autonomia e sulla Costituzione, e non può stabilire un’autorità elettorale con la sola maggioranza assoluta.
Decima menzogna:Votare è sempre democraticoUno degli slogan usati nella campagna degli indipendentisti è: «Referendum è democrazia», ma non esiste alcun automatismo che leghi questi due concetti.Il referendum è stato ampiamente usato in passato dai regimi autoritari, tra cui quello di Franco in Spagna, che nel dicembre 1966 ne fece ricorso per approvare l’allora nuova Costituzione. Inoltre nel programma elettorale di Junts pel Sí, la coalizione al governo in Catalogna, non si parlava di referendum per l’indipendenza: non ci sarebbe nemmeno un mandato elettorale su cui fare leva. Affinché un referendum sia democratico, , deve tenersi in un paese democratico rispettando le norme costituzionali di quello stato: una cosa che non sta avvenendo con il referendum sull’indipendenza catalana.

Le regioni? Aboliamole tutte











 Il sistema naturale Italiano di organizzare le autonomie è quello che da sempre è esistito, municipia e provinciae, e ha dimostrato di funzionare nei secoli, i comuni e le province. Storicamente "l'idea regionale" ha radici nell'Ottocento, in quei movimenti di pensiero d'epoca risorgimentale facenti capo ad Antonio Rosmini, a Vincenzo Gioberti e a Carlo Cattaneo. Mazzini stesso nel 1861 sostenne l'esigenza di riconoscere la Regione quale ente intermedio fra la Nazione e il Comune, precisando che l'unitarietà non doveva identificarsi necessariamente con l'accentramento. Ma fu nel primo dopoguerra che, soprattutto da parte di Luigi Sturzo, si riaccesero i riflettori su tale problematica. Per la dottrina dello Stato fascista è l'autorità dello Stato sovrano, che ha fini superiori a quelli degli individui e dei gruppi e che la sua sovranità (in vista degli interessi supremi e collettivi della Nazione) esso deve  rigorosamente e indefessamente attuare. "La Repubblica si riparte in Regioni, Province e Comuni". Nel secondo dopo guerra con articolo 114, ora modificato dalla riforma costituzionale del 2001, i costituenti vollero introdurre nella Costituzione le Regioni, come nuova ripartizione territoriale della Repubblica in aggiunta alle due già esistenti delle Province e dei Comuni. Il progetto cosi' come proposto, trovò l'avversione di Togliatti il quale rilevava come ci si trovasse di fronte ad un complesso di norme che, lungi dall'essere coerenti, erano, anzi, "contradittorie" e "ridicole", osservando in esse "un difetto fondamentale": rimanevano tracce profonde di federalismo mentre non esisteva il decentramento poiché si finiva con l'appesantire "in modo molto grave" l'apparato amministrativo. Anche il discorso di una autonomia finanziaria regionale preoccupava non poco il dirigente comunista per "il pericolo di creare una divisione economica fra le singole Regioni". Anche Benedetto Croce mostrò tutta la sua contrarietà per uno sconvolgimento dell'ordinamento giuridico che suscitava «il gran dolore di chi, come noi, crede che il solo bene che ci resti intatto degli acquisti del Risorgimento sia l'unità statale che dobbiamo mantenere saldissima se anche nel presente non ci dia altro conforto (ed è pure un conforto) che di soffrire in comune le comuni sventure.Togliatti stesso vide il pericolo di "tanti piccoli Staterelli" in lotta l'un contro l'altro per contendersi le risorse del Paese. Per Nitti «L'autonomia regionale è intesa, in fondo, come un distacco di cui si possono avere tutti i vantaggi della unità senza il peso. Presto o tardi, potete essere sicuri, si arriverà alla separazione, e voi, che siete più giovani di me, ne vedrete le terribili conseguenze. La Regione autonoma, con amministrazioni basate sulla proporzionale, non può sboccare che nella diffidenza, e la diffidenza non può sboccare che nella difficoltà della convivenza. (.) L'Italia non può avere che un nome, un'anima unica nazionale. Noi non possiamo rompere il nostro paese in pezzetti e governarlo con l'assurdo delle Regioni e poi sprofondare le Regioni nelle lotte e nelle diffidenze delle proporzionali». Nel gennaio 1970 si apre il dibattito sui provvedimenti finanziari per l'attuazione delle regioni a statuto ordinario. Nel dibattito parlamentare fu Almirante a caratterizzarsi come decisamente contrario, " Perché? Perché le regioni tanto più costeranno quanto più saranno politicizzate; tanto meno costeranno quanto più rappresenteranno o potranno rappresentare o potrebbero rappresentare (poiché la mia credo sia ormai una vana illusione) degli organismi meramente amministrativi. L'articolo 15, sia attraverso il congegno della delega, sia e soprattutto attraverso l'abrogazione, improvvisa e improvvisata con enorme leggerezza, dell'articolo 9 della legge n. 62 del 1953, è esattamente l'articolo che politicizza al massimo, che autonomizza al massimo ma in senso politico, vorrei dire, con brutto neologismo, che «sovranizza» al massimo, sino a trasformare lo Stato in uno Stato federale, le regioni a statuto ordinario." Il 2002 e stato l'anno della concreta attuazione della riforma del titolo V della Costituzione. La cessione di sovranità che è avvenuta a favore delle Regioni, sulla base della nuova suddivisione delle funzioni legislative tra stato centrale e periferico ha aperta la forbice che sta ora dilaniando i rapporti tra il governo (Renzi arriva dopo Berlusconi, Letta, Monti e Prodi) e i governatori. Tutti si sono trovati a fare i conti con una situazione sempre più precaria dal punto di vista dei trasferimenti dello Stato alle Regioni. Sono proprio questi gli anni (dal 2001 ad oggi) in cui, non sarà un caso, il debito pubblico italiano è passato da 1.620 miliardi di euro (solo il 108% del Pil) a oltre 2.160 miliardi (più del 133% del Pil): in termini assoluti, 540 miliardi in più, uno score catastrofico.Eppure basta rileggersi con attenzione l'articolo 117 della Costituzione, novellato proprio da quella revisione di inizio millennio, per capire che si sarebbe andati a sbattere. È lunghissima e piena di ricadute finanziarie la lista delle cosiddette materie "di legislazione concorrente" e cioè di competenza esclusiva delle Regioni, un mare magnum che soffoca ogni logica senza un adeguato sistema di controlli ex ante della spesa e un analogo potere impositivo territoriale. La lista dei poteri ''devoluti'' offre un'idea compiuta della mostruosità economica e forse anche giuridica di una tale riforma. Si tratta di rapporti internazionali e con l'Unione europea; commercio con l'estero, tutela e sicurezza del lavoro; istruzione (salva l'autonomia delle istituzioni scolastiche e con esclusione della istruzione e della formazione professionale); professioni; ricerca scientifica e tecnologica e sostegno all'innovazione per i settori produttivi; tutela della salute; alimentazione; ordinamento sportivo; protezione civile; governo del territorio; porti e aeroporti civili; grandi reti di trasporto e di navigazione; ordinamento della comunicazione; produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell'energia; previdenza complementare e integrativa; armonizzazione dei bilanci pubblici e coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario; valorizzazione dei beni culturali e ambientali e promozione e organizzazione di attività culturali; casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere regionale; enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale. Gran parte di queste mansioni va gestita con i soldi dello Stato centrale. Un'assurdità. Le regioni si sono rivelati mega-organismi dai piedi (e dai bilanci) d'argilla. Questo al netto delle inchieste che hanno interessato molti consigli regionali. Lo Stato è diventato una Ferrari che deve consumare come una Panda, il sistema delle Regioni è l'esatto contrario. La benzina è la stessa e sta finendo per tutti. Abbiamo così, non uno ma oltre 20 parlamenti, fonte di sprechi, favori, clientele e privilegi. Le regioni si sono trasformate come previde Togliatti in "tanti piccoli Staterelli" in lotta l'un contro l'altro per contendersi le risorse del Paese, dove spesso, come temeva Almirante, attecchisce il germe della "sovranizzazione", e come ebbe a prevedere Nitti, "Presto o tardi, potete essere sicuri, si arriverà alla separazione", avaporerà così " il solo bene che ci resti intatto degli acquisti del Risorgimento", come Del Noce affermava, l'unità statale. Oggi infatti La Lombardia governata da Maroni della Lega Nord per l'Indipendenza della Padania invoca lo statuto autonomo, una pazzia. Il Veneto governato da Luca Zaia dello stesso movimento separatista, invoca l'indipendenza del Veneto.

Centomila firme affermano i leghisti sono state raccolte per l'indipendenza del Veneto nei gazebo allestiti dalla  Lega nella regione. Matteo Salvini, segretario federale della Lega Nord, ha  ringraziato: "La Lega c'è, la Lega corre. Quest'anno - ha chiosato - ci saranno i referendum per l'indipendenza in Catalgona e in Scozia, e io spero che il Veneto faccia da apripista in Italia".

 Nel linguaggio e nei metodi usati dagli esponenti della Lega Nord per l'indipendenza della Padania si intravede il fomento dell'odio nei confronti dei fratelli, nei confronti dei simboli dello Stato, la sua capitale Roma, (poi abbiamo visto che i ladroni si trovano ovunque) la sua Bandiera il Tricolore. L'attuale segretario della Lega Nord per l'Indipendenza della Padania è venuto per la prima volta alla ribalta della cronaca perchè agitatore delle notti alcoliche dei Giovani Padani, usi a bruciare Tricolori, con coretti da stadio che inveiscono contro i Napoletani " Senti che puzza scappano anche i cani stanno arrivando i Napoletani".Oggi fa l'indossatore di mode di stagione. L'on Grimoldi, segretario nazionale (sic) della Lega della Lombardia quando rivendica fondi lo fa attaccando altri progetti che si realizzerebbero altrove, è una politica. . Le sante milizie che i Comuni della Lega Lombarda strinsero intorno al Carroccio, in una volontà di Vittoria, in un voto di morte, rivissero popolando di Eroi le desolate nudità del Carso, le contrastate rive del Piave, le aspre giogaie trentine. Sul giuramento di Pontida, la Patria riconiò il nuovo patto di fede. A Legnano i comuni d'Italia cominciarono a sentire la prima solidarietà, affinché, nelle officine e nei campi e fra il popolo si imparasse a mortificare e a cancellare lo spirito settario, nel nome d'Italia. Legnano fu grande, perché assai grande era l'Idea di Roma, sede del pensiero universale, erede del passato di gloria, tempio della preghiera, di quella che da diritto agli uomini di elevarsi fino a Dio. Grazie prof. Miglio le regioni vanno abolite, e non abbiamo davvero bisogno di creare altri mostri.









La  ruspa di Salvini contro l'Italia