di Marco Tarchi
Dieci anni fa, di questi
tempi, le parole d'ordine imposte dalla giaculatoria massmediale alla
opinione del pubblico erano due. Dopo l'11 settembre, si diceva, il
mondo non sarebbe stato «mai più come prima»: l'Occidente era stato
ferito al cuore e avrebbe dovuto, di lì in poi, fronteggiare la
tentacolare minaccia di un estremismo islamico che rischiava di metterlo
in ginocchio. E per questo - ecco il secondo slogan - era venuto il
momento del «siamo tutti americani», ovvero della solidarietà
incondizionata con Washington, riassurta, a solo dodici anni dal crollo
del muro di Berlino, al ruolo di baluardo del Mondo Libero contro l'Asse
del Male, gli Stati canaglia e i loro sgherri, votati all'odio perché
invidiosi del livello di vita e di ricchezza raggiunto dagli Usa e dai
loro più fedeli alleati. Un'invidia che, non si mancava di aggiungere,
si nascondeva dietro le invettive contro l'empietà e l'arroganza dei
nemici dell'islam. Fummo tra i pochi, allora e dopo, che cercarono di
opporre al frastuono della propaganda la voce critica della ragione,
proponendo argomenti invece di proclami. Dicemmo chiaramente - chi
vuole, può sincerarsene leggendo due libri (entrambi editi da Laterza)
come il nostro Contro l'americanismo e La paura e l'arroganza curato da
Franco Cardini - che, nei suoi tratti essenziali, la dinamica politica,
economica e culturale del mondo non sarebbe stata modificata
dall'attacco aereo alle Torri gemelle: la scalata all'egemonia
planetaria degli Stati Uniti, in atto ormai da un abbondante decennio,
ne avrebbe semmai tratto un ulteriore impulso; l'Europa avrebbe
accentuato la già marcata sudditanza ai voleri d'oltre Atlantico,
rinunciando a qualsiasi iniziativa indipendente; la tanto temuta
propagazione di sentimenti antiamericani nell'ex Terzo mondo non ci
sarebbe stata; il mondo islamico non avrebbe imboccato la via del
radicalismo oltranzista. E, soprattutto, l'infiltrazione dell'american
way of life, con il suo carico di precetti individualistici,
materialistici e cosmopoliti, negli anfratti dell'immaginario collettivo
delle popolazioni di ogni angolo del globo non solo non sarebbe
rallentata ma avrebbe tratto nuova linfa dalla vittimizzazione degli
States che gli attentati di New York e di Washington favorivano:
rappresentare il paese della più potente, spietata e attiva macchina da
guerra esistente nei panni del gigante buono e vulnerabile
vigliaccamente colpito dai malvagi era un'arma formidabile per
rafforzarne il mito e creare, sulla base della compassione, complicità
verso le nuove imprese belliche che si annunciavano all'orizzonte.
A
distanza di un decennio, è inevitabile constatare che avevamo azzeccato
l'analisi. Sulle ali della retorica dell'11 settembre, che le attuali
celebrazioni si incaricano di tenere ben viva con un intento politico
celato, come di consueto, dietro il richiamo ai buoni e doverosi
sentimenti, gli Usa hanno costruito un percorso lastricato di guerre,
bombardamenti a tappeto, massacri di militari e civili dei paesi nemici,
che soltanto in virtù degli accorgimenti tecnologici che consentono
agli aggressori di distruggere dall'alto ogni bersaglio senza rischiare
danni non hanno prodotto una contabilità di vittime equiparabile a
quella dei maggiori conflitti del XX secolo. E nel loro sanguinoso
itinerario verso il dominio, oltre a godere del plauso dell'apparato
comunicativo dell'intera area di influenza occidentale, pronto a tacere,
distorcere, negare, mentire a comando ogniqualvolta veniva ritenuto
necessario, hanno potuto contare sull'efficace azione di una nutrita
retroguardia economico-finanziaria, pronta a ricostruire ciò che era
stato distrutto traendone e in parte distribuendo ai più servizievoli
amici ampi profitti, e soprattutto sull'impegno di una fureria
intellettuale, che nei paesi soggiogati a suon di bombe ha diffuso a
piene mani, seguendo una tradizione consolidata, quei formidabili
strumenti di condizionamento mentale che sono i gadgets della cultura di
massa made in Usa.
La conquista dell'agognato ruolo di gendarme
planetario è stata però, bisogna riconoscerlo, ostacolata dalla forte
crescita economica di concorrenti inattesi, prime fra tutti Cina e
India, e lo scenario unipolare disegnato dagli strateghi neoconservatori
dell'amministrazione Bush si è rivelato sin qui impraticabile.
L'esplosione della bolla economica interna del 2008 ha poi accentuato i
problemi. Ma per assurgere a padroni del mondo, gli eredi dei Padri
pellegrini ce l'hanno messa davvero tutta. E nella partita più
importante, quella per il controllo delle mentalità collettive, il loro
vantaggio è ancora straordinariamente consistente. Le aspettative che si
sono create attorno alla cosiddetta "primavera araba", dalla quale ci
si attende formalmente un'ondata di democratizzazione ma si esige
sostanzialmente una robusta occidentalizzazione - dei costumi, dei
consumi, delle leggi, degli stili di vita, delle credenze - ne sono una
spia evidente. E non si può negare, come invece piace fare da sempre
agli ambienti pervasi di un antiamericanismo pregiudiziale, rancoroso e
sommario, mosso non dalla critica rigorosa di un modello di civiltà ma
da un confuso mix di nostalgie ereditarie (di destra e/o di sinistra) e
wishful thinking, che l'azione condotta dagli Usa e dai loro volenterosi
complici sia stata, e sia, molto efficace. Tanto da rendersi pressoché
impermeabile agli argomenti con cui coloro che non ne condividevano né
le premesse né gli obiettivi hanno tentato di contrastarla.
I motivi
di questo successo attengono sia all'ordine delle sue premesse teoriche
sia a quello degli strumenti empirici incaricati di tradurle in realtà.
Sul
primo di questi versanti, la carta vincente degli Usa è stata il
ricorso sistematico e onnipervadente all'ideologia dei diritti
dell'uomo, costruita ad immagine e somiglianza del loro modello di
società e dei progetti di espansione imperiale connaturati al paese che
aveva già partorito nel corso degli oltre due secoli di vita le dottrine
del «destino manifesto» e del «cortile di casa» e che fin dalla nascita
ha coltivato la convinzione di aver ricevuto da Dio il compito di
adempiere ad una missione universale di conversione al Bene dei
miscredenti, non esitando a ricorrere ai mezzi più crudeli per
adempierla (gli ormai dimenticati nativi, ridotti dopo il genocidio a
stereotipo per un genere cinematografico oggi non più di moda, ne sanno
qualcosa). In nome e per conto dei dogmi contenuti in queste nuove
Tavole della Legge, si è fatto strame del concetto di sovranità
nazionale che per secoli aveva costituito un cardine del tentativo di
imporre un diritto internazionale condiviso, si è negata la nozione di
autodeterminazione dei popoli quando le scelte da questi compiute non
andavano nella direzione auspicata, e soprattutto si è varata la
mortifera formula della "guerra umanitaria" che ha derubricato le
uccisioni di civili dei paesi aggrediti a "danni collaterali" riparabili
a suon di scuse postume, ha legittimato l'uso di ordigni micidiali come
i proiettili al fosforo e all'uranio impoverito. Insomma, si è
celebrato il trionfo del principio per cui il fine giustifica i mezzi se
ad utilizzare anche i più abietti fra questi sono i Buoni contro i
Cattivi.
A far da velo a questa evidenza e a magnificare, per
coprirla, la nobiltà del nuovo umanesimo sterminatore e devastatore ha
provveduto un'armata intellettuale variegata, fatta perlopiù di
convertiti dell'utopia comunista pronti a tutto pur di allinearsi al
clima di opinione dominante e di goderne le rendite — si pensi a
Bernard-Henri Lévy e André Glucksmann, esempi estremi di una specie
molto diffusa e assai ben pagata dai giornali che ne pubblicano i
periodici violenti sfoghi umorali —, mentre sui pochi critici (come
l'Alain de Benoist di Oltre i diritti dell'uomo o il Danilo Zolo di Chi
dice umanità) si è abbattuta la scure del silenzio, aggravata dallo
stato semicomatoso in cui vegetano gli ambienti sedicenti
nonconformisti, da tempo incapaci anche soltanto di leggere, far proprie
e far circolare al di fuori delle rispettive nicchie le riflessioni
attorno alle quali potrebbe essere costruita una linea di resistenza
culturale all'omologazione sistemica.
L'imposizione di questa
ideologia ipocrita e insidiosa, veicolata dalle migliaia di voci - dai
conduttori di talk shows televisivi agli inviati sugli scenari bellici,
dagli editorialisti dei quotidiani ai bloggers consenzienti, dai
redattori radiofonici agli opinionisti, ai romanzieri, ai filosofi,
sociologi e politologi accademici allineati allo spirito del tempo - di
cui la odierna fabbrica del consenso dispone non sarebbe tuttavia stata
sufficiente a raggiungere gli scopi che gli occidentalizzatori del mondo
si proponevano se la declamazione teorica non fosse stata seguita dai
fatti. Cioè dalle risoluzioni delle istituzioni internazionali, dagli
embarghi, e poi dalle forniture di armi e denaro
a dissidenti e
ribelli, dal lavorio dei servizi segreti, dalle incursioni aeree, dai
bombardamenti, dalle invasioni di truppe. Delegittimazione del nemico e
suo assoggettamento con la forza dovevano procedere di pari passo. E
così è stato. Una volta dipinti i soggetti ostili come spietati tiranni e
sfoderata la risorsa della demonizzazione dei "nuovi Hitler" - una
galleria infinita, che dopo Milosevic, Saddam Hussein, Osama Bin Laden,
non ha risparmiato né Assad né Gheddafi, inevitabilmente rappresentati
con balletti e ciuffetto ribelle malgrado le evidenti incongruenze
fisiognomiche, e ha sfiorato i capi di Hezbollah e Hamas e perfino
Mubarak (I) -, si è potuti passare alle maniere spicce.
Un ruolo
fondamentale è stato svolto, in questo quadro, dall'Organizzazione delle
Nazioni Unite, di cui gli Usa e i loro vassalli da decenni deplorano e
neutralizzano le ripetute pronunce di Assemblea, quando sono dirette a
deplorare gli atti di violenza perpetrati da Israele, ma utilizzano le
opportunità quando è il ristretto Consiglio di Sicurezza ad avallare,
grazie a bilanciamenti di interessi, ricatti e compensi, le loro
decisioni. Dall'indecorosa sceneggiata di Colin Powell all'epoca
dell'invenzione delle inesistenti armi di distruzione di massa irachene
ai contorsionismi dialettici adoperati per giustificare i diversi atti
di aggressione, gonfiando o nascondendo a seconda dei casi e dei
soggetti implicati stragi e repressioni, fino alla grottesca risoluzione
che ha dato il via alle migliaia di bombardamenti contro gli obiettivi
libici che hanno consentito di vincere la resistenza di Gheddafi e dei
suoi, il catalogo delle genuflessioni dell'organo supremo dell'Onu ai
voleri statunitensi è vastissimo, e ancora una volta basterebbe leggere
quanto ha scritto in argomento uno studioso libero da tutele e
condizionamenti come Danilo Zolo, in libri come Cosmopolis, I signori
della pace e La giustizia dei vincitori per rendersene conto.
Se
l'Onu ha costituito l'elemento fondamentale del circuito legittimante
che ha all'altro capo l'ideologia dei diritti dell'uomo, e ha consentito
di far apparire come repressioni di regimi tirannici contro popolazioni
plebiscitariamente insorte quelle che erano in realtà guerre civili tra
contrapposte minoranze desiderose di conquistare o mantenere il potere
con ogni mezzo, autorizzando forze estranee allo scenario dello scontro a
scendere in campo militarmente a favore dell'una fazione contro
l'altra, a fare da braccio armato all'interventismo umanitario (sul
quale la lettura d'obbligo è quella degli studi di Alessandro Colombo:
La lunga alleanza, La guerra ineguale e La disunità del mondo) è stata,
come è noto, la Nato. All'organizzazione militare transatlantica spetta
infatti il ruolo più pesante ed ambiguo nella trama dell'imperialismo
statunitense tessuta nell'arco dell'ultimo ventennio, dall'Afghanistan
al Kosovo alla Libia senza trascurare i molti scenari collaterali e
minori, e la trasfigurazione dei suoi obiettivi originari - in realtà,
un vero e proprio tradimento degli intenti proclamati alla sua nascita —
è la prova più eclatante dell'inconsistenza politica dell'Europa, che
per suo tramite si è soggiogata completamente ai disegni e agli
interessi dell'alleato-padrone d'oltreoceano, rinunciando anche solo ad
un motivato diritto a dissentire dalle sue iniziative. Il bombardamento
di Belgrado ha reso trasparenti gli intenti che i promotori
dell"'adeguamento strategico" dell'Organizzazione del Trattato
Nord-Atlantico (la cui ragion d'essere si era estinta con lo
scioglimento del Patto di Varsavia) si prefiggevano: riaffermare ed
ampliare il dominio sul Vecchio Continente, legarlo completamente a sé
con le buone o con le cattive (il soft e l'hard power) e poi
trascinarlo, facendogli pagare costi salati, nelle proprie avventure
bellico-umanitarie. La spedizione libica, che si è tradotta in migliaia
di bombardamenti giustificati sino all'ultimo, con suprema ipocrisia,
dalla necessità di «proteggere la popolazione civile» che soltanto le
loro micidiali incursioni contro gli obiettivi urbani potevano
minacciare, ha dimostrato che, con l'andar del tempo, il potenziale
bellico della struttura l'ha resa utilizzabile per scopi ancora più
vasti, nel contesto di un piano di addomesticamento agli interessi
occidentali in genere — e a quelli di alcuni paesi dell'area più in
particolare — dei residui paesi riottosi. Giunti a questo punto, non è
azzardato immaginare che in futuro la Nato potrà servire
sistematicamente da maschera di comodo degli Stati Uniti in ogni
conflitto, potendo vantare quella parvenza internazionale, ormai a
vocazione universalistica, che nell'ambito della strategia adottata dai
governi di Washington è una carta cruciale da giocare.
Lultimo
tassello di questo mosaico, a suo modo non meno efficace degli altri, è
il meccanismo dei Tribunali internazionali, primo fra tutti quello de
L'Aia, che consente di ricorrere ad un altro strumento di
condizionamento psicologico dell'opinione pubblica mondiale, l'accusa di
crimini contro l'umanità, sostituto ben più impressionante della
precedente nozione di crimini di guerra. Celando il sempiterno Vae
victis sotto le prescrizioni di una legislazione ad hoc, voluta,
amministrata ed interpretata ad hoc dai vincitori, questo presunto
sistema di giustizia si è finora distinto per il rifiuto di assoggettare
a procedimenti giudiziari i responsabili di notori atti di violenza
perpetrati dalla "parte giusta" e per il clamore mediatico offerto ai
processi o ai mandati d'arresto che hanno avuto per. oggetto alcune
"bestie nere" degli Usa, da Milosevic a Karadzic e Mladic, da Bashir a
Gheddafi (con il supporto di qualche capro espiatorio croato o bosniaco,
utile per un'equanimità puramente di facciata e comunque additabile
come esempio delle colpe del-l'esecrato nazionalismo altrui). Appare
sempre più chiaro che la sua funzione, nell'ottica degli ispiratori, non
consiste nel cercare le prove delle colpe degli indagati, ma nel
dissuadere esemplarmente chiunque osi contrastare i principi santificati
dall'ideologia dei diritti umani e, soprattutto, ostacolare
l'omologazione del pianeta alla volontà e ai valori di chi si refigge di
controllarlo integralmente. Pur con qualche intoppo, e con una
rilevanza massmediale variabile a seconda dei casi, il meccanismo ha
svolto il compito che gli era stato assegnato.
Il combinato di questi
fattori ha prodotto nell'ultimo decennio, pur con modalità diverse e
non sempre riuscendo a controllare sino in fondo gli esiti delle mosse
compiute, un notevole impulso del processo di occidentalizzazione del
mondo pilotato dagli Stati Uniti d'America. I vaticini sull'imminente
implosione degli States che si ripetono periodicamente ad ogni accenno
di crisi economica, e hanno trovato rinnovato vigore dall'autunno 2008
in poi, hanno nascosto agli occhi di molti osservatori pur non prevenuti
questo dato di fatto, ma la sua sostanza resta, ed occorre capire, come
il dossier di «Eléments» che pubblichiamo in questo numero si propone,
se i recenti sconvolgimenti del mondo arabo siano o no un altro decisivo
passo avanti in tale direzione. Ce lo dirà, comunque, il prossimo
futuro.
Quel che è certo è che il progetto imperiale coltivato a
Washington ai tempi di George W. Bush non si è estinto con la pur più
riluttante e incerta presidenza Obama. E che ha trovato, oltre ai molti
entusiasti corifei, un numero crescente di servitori volontari, talvolta
inconsapevoli, i quali, abbracciando la dottrina che ne è alla base,
predispongono il terreno per nuovi gravi conflitti a venire (in Siria?
In Iran? In Libano? Nell'Asia orientale?) proprio mentre vanno
celebrando l'epopea di una presunta età di. Pace perpetua, di Giustizia e
di Libertà. Come ha scritto Alessandro Colombo, uno studioso attento
delle relazioni internazionali che, oltre a conoscerle, sa interpretare
ed applicare all'attualità le analisi schmittiane, nel suo recente La
disunità del mondo (Feltrinelli), dopo il 1989 «l'eccezionale coerenza
del mondo bipolare ha lasciato il posto a un sistema internazionale nel
quale le diverse aree regionali continuano a essere in contatto tra loro
grazie alla globalizzazione dell'economia e dell'informazione, ma nel
quale ogni regione tende sempre più ad abbracciare protagonisti,
interessi, conflitti e linguaggi diversi. Tale scomposizione è un
potentissimo fattore di instabilità: accentua le differenze
istituzionali e culturali tra le diverse regioni, aumenta il peso delle
gerarchie di prestigio e potere al loro interno e, in questo modo, apre
la strada a nuove diffidenze e competizioni sulla sicurezza. Ma,
soprattutto, tale scomposizione rende sempre più inadeguate le risposte
di portata globale, anzi rischia di trasformarle da fattori di ordine in
fattori di disordine internazionale».
Questo è il lascito velenoso
che la predicazione universalistica dell'ideologia liberale reca dentro
di sé e che il progetto di dominio planetario statunitense sta
liberando. Sarebbe davvero tempo di accorgersene e di reagire. Questa
sì, ben più di altre, è una ragione profonda per indignarsi dello stato
di cose che siamo costretti a sopportare.
(editoriale di Diorama Letterario, n. 305)