Io bambino di Kobanê accuso e accuso te Occidente.

 
Ayn al-Arab (in arabo: عين العرب‎, ʿAyn al-ʿArab, fonte degli Arabi, in curdo: کۆبانی‎‎, Kobânî / Kobânê) è una cittànel nord della Siria di circa 54.000 abitanti, nell'attuale Kurdistan siriano (in lingua curda Rojavayê Kurdistanê e in arabo: کوردستان السورية‎, Kūrdistān al-Sūriya, o più genericamente, Rojava, "ovest" in curdo), situata nei pressi della frontiera con la Turchia. Secondo il censimento del 2007, ha una popolazione di 54 681 abitanti ed è abitata da curdi, arabi, turcomanni e armeni, in base a una stima del 2013.Il nome della città deriva da quello di una società tedesca che, nel secondo decennio del XX secolo, costruì sul sito una delle stazioni della ambiziosa ferrovia Berlino-Baghdad.[2] Rifugiati armeni cristiani, scampati ai massacri dei Giovani Turchi ottomani in Anatolia, fondarono un villaggio nelle vicinanze della stazione già nel 1915 e qui furono subito raggiunti da curdi musulmani che vivevano nelle aree circostanti. I Curdi Siriani, vivevano una vita tranquilla, rispetto alle altre realtà in Irak, e soprattutto in Turchia. L'intesa tra la minoranza Curda e il governo siriano era buona. 
Perché allora oggi nel 2015 un bambino di Kobane giace riverso, senza vita, su di una spiaggia turca?
Nel 2012 Gli Stati Uniti di America, nel perseguire i loro piani espansionistici decidono che è il momento di un cambio di regime in Siria. In accordo con i loro alleati regionali, principalmente con Arabia Saudita e Qatar, sostengono, organizzano ed armano il cosidetto Siryan Free Army, principalmente rappresentato da Jabhat al-Nuṣra, gruppo islamista legato Al Qaeda. ed operativo in Siria a fianco di Daesh, che noi conosciamo con l'acronimo Isis. I piani americani ottengono l'entusiastico (sic) consenso dei paesi dell'occidente americanizzato di cui insieme all'Inghilterra si fa portavoce il presidente francese Hollande.
La salmeria mediatica occidentale, compreso tutti i mezzi di informazione italiani, lancia una grande campagna tesa alla criminalizzazione del presidente siriano Assad, accusato di tutte le peggiori nefandezze possibili. Agli osservatori più attenti, iniziava a non sfuggire il fatto, che questi pretesi ribelli siriani non erano altro che fanatici tagliagole. Occorreva un casus belli, nel 2013 il presidente americano Obama  parla alla stampa. Accusa il regime di Assad e conferma la scelta di attaccare, nel 2013 la Nato posiziona missili Patriot al confine con turco siriano per impedire il sorvolo del territorio da parte dell'aviazione siriana. Decine di migliaia di miliziani di Al Nusra, addestrati in Arabia Saudita  si riversano sulla Siria e ne conquistano la parte Nord del paese, che nel 2014 entrerà a far parte dello Stato Islamico dell'Irak e del Levante.Il casus belli per muovere guerra alla Siria gli americani lo troveranno sollevando la questione  dell'uso di armi chimiche da parte del governo siriano contro la popolazione civile ( sic). Susan Rice, consigliere per la Sicurezza nazionale, su Twitter scrive: “La questione è solo come punire Assad”. E anche il premier britannico David Cameron sostiene le dichiarazioni del presidente: “Comprendo e sostengo la posizione di Barack Obama sulla Siria”, ha scritto sul sito di microblogging. Tutti i media di servizio indicano al mondo la figura del mostro Assad che gasa la popolazione civile e che come afferma la Rice "va punito".
Era tutto pronto per esportare la democrazia in Siria, si allargava però il fronte del dubbio su questi presunti alleati rappresentanti della "Siria libera", soprattutto grazie ai racconti di prigionieri, presi in ostaggio dagli islamisti, i quali tornando a casa iniziarono a raccontare una versione diversa da quella della propaganda. Racconti di atrocità terribili compiute dagli "alleati" di Obama in Siria.
 La macchina della guerra era comunque pronta a scattare se non ci fosse stato l'intervento della Federazione Russa. I Russi in sede ONU produssero prove inconfutabili, rilevate dal sistema satellitare, che escludevano la possibilità di ogni responsabilità dell'esercito siriano nell'uso di sostanze chimiche nel conflitto in cui era ed è impegnato a difesa della Patria. Di più gli episodi di cui trattasi dovrebbero aver avuto come protagonista miliziani Daesh (ISIS), venuti in possesso tramite l'Arabia Saudita di armi chimiche di fabbricazione statunitense, il lancio di questi gas, sarebbe accaduto principalmente per la mancanza di preparazione di questi miliziani nell'utilizzo di tali armamenti. Fatto sta che la gioiosa macchina da guerra americana si scontrò contro un muro di verità, e il suo comandante in capo Barak Obama dette una bella smusata. Intanto Kobanê, ai primi di ottobre del 2014 era stretta d'assedio dalle forze dell'ISIS che si muovevano da sud e da ovest finché, penetrate nei sobborghi della città, sono state costrette a combattere casa per casa dai resistenti curdi, giungendo il 12 ottobre a conquistare l'80% circa dell'intera area urbana prima di essere costrette a un parziale arretramento a causa dell'efficace contrattacco dei curdi di ambo i sessi che giorno e notte difendono la città, armati e sostenuti dal governo siriano.e dall'esercito siriano che con grandi sacrifici e senza copertura aerea (interdetta dai missili NATO) era riuscito ad arrivare a 30 km da Kobanê. La responsabilità della morte del bambino di   Kobanê, e delle altre decine di migliaia di bambini siriani è di chi ha portato l'inferno in Siria. Il sogno faustiano dell'occidente, che promette sempre il bene, ma realizza sempre il male, questo è il bambino di Kobanê..

Dipingere gli Ungheresi come deportatori di disperati in cerca di asilo e costruttori di muri contro l’umanità è storicamente, moralmente e geograficamente ridicolo.





La corsa all’identificazione dell’Ungheria come nido di egoismo e nazionalismo, non conosce sosta. Prende fiato solo per puntare il dito contro l'ultimo paladino dell’autoconservazione, sempre più sulla gogna mediatica: la Gran Bretagna antieuropeista.
Viene da sé: chi non si appiattisce al bon ton politico che dispensa condanne e assoluzioni morali secondo uno standard unico, viene messo alla porta o meglio sul pubblico patibolo.
Dell’Ungheria di cui non si parlava dai tempi di Puskás, oggi si riempiono i giornali. Mai in epoca moderna si era discusso tanto del confine serbo-ungherese, che a fronte di un grande rilievo storico, ai più risulta difficile da collocare anche geograficamente. Il motivo è semplice. Se si parla di muri e immigrazione, le luci della ribalta brillano sempre.
L’asse balcanico del traffico di umani è una realtà conclamata. A fianco dell’autostrada mediterranea che traduce milioni di indigenti, si è consolidata la nuova via dell’immigrazione illegale e della compravendita di disperazione: quella che parte dalla bucherellata Grecia e dalla doppiogiochista Turchia per entrare nell’Unione Europea da sud est.
Ciò che arriva direttamente da Bulgaria e Romania, interne alla UE, ovviamente non fa notizia. Soprattutto dalla Bulgaria che con la Turchia (e l’Asia) divide anche una frontiera di terra. Da quando con la guerra del Kosovo il passaggio tra Mar Nero e Adriatico può contare sulle connivenze di Pristina e Tirana per inquietanti traffici euro-asiatici, a nessuno interessa che se ne parli. All’occhio indignato del benpensante europeo, importano solo i muri e i fili spinati.

Vediamo meglio.
Il filo spinato steso sui 200 km (scarsi) di frontiera serbo-ungherese ha creato un allarme politico malizioso quanto sproporzionato. In prima pagina ci sono Seghedino (l’ungherese Szeged) e la località di Roszke, posizionate proprio sul confine ma in realtà linea mobile di equilibri geopolitici millenari. Sulle piane fertili oggi oggetto di ossessive attenzioni giornalistiche, per secoli si sono alternati Ungheresi, Asburgo, Ottomani e principi serbi, spostando ora sotto, ora sopra, le rispettive sfere d’influenza.
 
 
La terra fra Subotica e Roszke è un'eterna frontiera, ben al di là della demarcazione attuale fra Ungheria e Repubblica Serba. Fosse per questo anzi, non ci sarebbero ostilità particolari, perfino considerando l’ingresso di Budapest nella UE (votò solo il 44% degli aventi diritto!) e nella NATO.
La provincia serba che confina con l’Ungheria è la Voivodina, area a forte presenza magiara e culla di istanze di autonomia da Belgrado mai rinnegate. Tra Serbia del nord e Ungheria del sud ci sono meno differenze culturali di quanto si possa immaginare. Tutta l’area, allargata fino alla Transilvania, rientra in quella landa europea di confine che fino al diciassettesimo secolo ha fatto i conti con l’espansione turca, pagandone spesso col sangue le conseguenze. 
Dipingere gli Ungheresi come deportatori di disperati in cerca di asilo e costruttori di muri contro l’umanità è storicamente, moralmente e geograficamente ridicolo.
Il filo spinato che oggi corre intorno al sonnacchioso fiume Tisza avrebbe potuto essere posizionato qualche centinaio di km più a Sud, tra Serbia e Macedonia o tra Macedonia e Grecia, senza intaccare minimamente le radici del ragionamento: se l’Europa vuole esistere, deve riconoscersi in un’identità. Quale che sia, ogni identità comporta di per sé il concetto di mantenimento.

A prescindere dalle motivazioni ideali, la decisione ungherese di costruire una barriera e di militarizzare la frontiera, va letta comunque alla luce di un’esigenza pratica. Roszke è collegata alla Repubblica Serba (Subotica ma soprattutto la non lontana e importante Novi Sad) con una grande autostrada, una ferrovia e un importante affluente del Danubio. Tutta la regione, agricola e pianeggiante, consente spostamenti rapidi e penetrazioni facili senza ostacoli naturali. Nella totale assenza di una politica comune europea, Budapest si limita a fare il suo. Ci s’indigna per un rotolo di filo spinato a Roszke, ma si sorvola sul muro tra Texas e Messico nell’America di Obama. La stessa America che per ragioni di sicurezza ha costretto miliardi di persone a rifare il passaporto. Il mondo è strano.
In realtà c’è dell’altro. Il motivo per cui l‘Ungheria siede spesso sul banco degli imputati è essenzialmente politico.
Già nell’occhio della critica da alcuni anni, Budapest è sorvegliata speciale e inserita per default tra i ribelli alla macchina d’integrazione bancario-germanica.
Fidesz e il leader Viktor Orban sono l’antitesi del politically correct europeo. Nemmeno l’Austria di Haider riuscì a farsi tanti nemici.
Il “muro” al confine è solo l’ultima delle polemiche pretestuose alimentate in tempi recenti. Più di tutti hanno potuto gli emendamenti alla Costituzione dal 2011 in poi, bollati come confessionali, clericali e liberticidi perché in controtendenza rispetto alle linee guida di un’Europa che per non offendere le sensibilità altrui, rinnega perfino le proprie origini cristiane. Le politiche sul matrimonio, sull’adozione e sui diritti di coppia sono state rigettate dalle democrazie europee così come il rilievo dato alla religione cattolica e le norme che hanno messo il partito comunista fuori legge.
Non è solo questione di punti di vista. Il tutto andrebbe forse letto alla luce della storia ungherese, che più di altre può insegnare il senso della libertà e il prezzo che si è disposti a pagare per difenderla.
A questo proposito il destino ha una sua ironia. Proprio l’Ungheria che si ribellò ai carri sovietici del ’56, oggi guarda alla Russia di Putin con uno slancio ideale fortissimo. Forse è questo che irrita più di tutti Bruxelles, preoccupata sia come riferimento per le istituzioni europee che come sede NATO.
Impossibile non annotare però che il dito puntato oggi contro Budapest appartenga a coloro che nel ’56, quando l’Ungheria difendeva col sangue la libertà d'espressione e la vita, si sono girati dall’altra parte.
 
La morale è un treno periodico che corre spesso su un doppio binario.
(di Giampiero Venturi

 
 

La Russia scende militarmente in campo contro l'ISIS: in Siria uomini ed aerei

 
Lavrov: L'esercito siriano è la forza più efficace sul terreno nella lotta contro il terrorismo
Il ministro degli Esteri russo, Sergey Lavrov, ha dichiarato che la minaccia terroristica è considerata come una delle sfide più importanti del mondo.
Nel suo tradizionale discorso davanti agli studenti dell'Università degli Studi di Relazioni Internazionali del Ministero degli Affari Esteri della Federazione Russa, Lavrov ha sottolineato che l'esercito siriano è la forza più effic
ace sul terreno nella lotta contro il terrorismo.
Lavrov ha aggiunto che bisogna cercare le radici del terrorismo in Medio Oriente e non distorcere la verità.

La Russia ha inviato aerei da guerra e un contingente militare in Siria, lo si apprende da fonti diplomatiche russe che confermano anche che gli aerei avranno sede permanente in una base nei dintorni di Damasco.
La Russia, dopo l’Iran, entra ufficialmente nel conflitto a fianco della Siria contro lo Stato Islamico. L’obbiettivo degli aerei russi e del contingente militare dovrebbe essere offensivo e avere come target  lo Stato Islamico e tutti quei gruppi terroristici che combattono contro il legittimo governo siriano. La mossa russa scombussola anche i piani  in particolare di Turchia, occupata più che altro nel regolamento dei conti con i Curdi,  e Qatar che nelle scorse settimane avevano raggiunto un accordo per appoggiare militarmente i terroristi siriani. La mossa russa spiazza notevolmente anche i paesi dell'area come  Israele che ha sinora dimostrato un'azione equivoca nei confronti dei terroristi ISIS, mettendo a disposizione ambulanze per il soccorso dei feriti.  In difficoltà l’asse arabo che comprende, Arabia Saudita ed Emirati del Golfo che insieme agli americani ed i loro alleati occidentali hanno favorito l'espansione del Califfato nel Nord della Siria. Vale la pena di ricordare il posizionamento da parte della NATO di missili Patriot al confine turco siriano, al fine di impedire il sorvolo dell'aviazione Siriana di questa parte del territorio, che è stato occupato dei Quaedisti di Al Nusra e nel 2014 dal Califfato Islamico. Questi missili sono stati negli scorsi giorni rimossi grazie alla mediazione della Russia.