La Religione della Patria
nasce nel corso della Prima Guerra mondiale, vi è alla base unsentimento di comunanzatra i combattenti che discendedall’aver per anni condiviso la realtà di comunità
di vita e di morte delle trincee, fu
leva per abbattere le distanze dettate agli italiani dalla diversa origine di
ceto, di classe, geografica. Sotto i colpi dellapropaganda nazionalista dilagante in tempo di
guerra, i combattenti si trasformarono “in credenti” in un patto di unità e
solidarietà tra chi aveva sofferto le stesse esperienze.Un vincolo basato sulla prossimità e
disinteressato costituito dal senso dell’onore del servizio reso in guerra, dal
coraggio, dalla fede nei valori in nome dei quali le sofferenze imposte dallo
sforzo bellico sono state accettate dai combattenti. Frasi latine e iscrizioni
di vecchi stemmi polverosi diventano, grazie a D’annunzio, formule magiche per
infiammare gli animi di amore per la patria, esorcismi per garantirsi una sorta
di magica immunità. S’inaugura un nuovo stile di vita che prevede anche il
gesto incosciente che trascende il presente..“Avrebbe potuto bombardare Vienna – scrive il Times di D’Annunzio –
Forse i Tedeschi potranno pensare che questa non è guerra ma neppure possono
negare che ciò è magnanimo è magnifico”.
"Il danaro pubblico sarà trattato come sacro al bene del popolo". Elia Rossi Passavanti
Il Giornale d’Italia, 31 marzo 1924
Terni: “Un corteo di oltre ventimila persone con trenta musiche e
centinaia di bandiere ha percorso le vie della città, tra l’entusiasmo
delirante della folla che faceva ala al suo passaggio. Dalle finestre
sono stati gettati a piene mani fasci di fiori sull’eroico combattente
che G. D’Annunzio predilige tra i suoi più nobili e più puri
legionari.”. In piazza Vittorio
Emanuele, l’attuale piazza della Repubblica, “davanti a una folla
immensa”, Elia Rossi Passavanti pronuncia “un’orazione semplicemente
meravigliosa, strappando le lacrime di commozione ed ovazioni frequenti,
interminabili…”. “Da questa città – risuonante di opere audaci –
forgiatrice di ogni tempra, generatrice fulminea, balenante di energie
vitali e mortali, e da un croscio profondo di una fusione magnanima,
deve uscire l’Italia della pace e del lavoro. Uomini usi a tutto osare,
conoscitori del dolore e degli stenti, della debolezza e della forza,
delle potenze note e ignote, d’angoscia in angoscia, di errore in
errore, di timore in timore, di presagio in presagio, di preghiera in
preghiera, ci siamo sollevati alla santità di questo ternano mattino.
Accendiamo, accendiamo l’immensa fornace o popolo mio, o fratelli, e che
accesa resti per trenta secoli e che il fuoco fatichi, sino a che tutto
il metallo si strugga, sino a che la colata sia pronta, sino a che
l’urto del ferro apra il varco al sangue rovente della rinascita e della
salvazione…”. Elia Rossi Passavanti fu eletto alla Camera dei Deputati con grande suffragio, giurò il 24 maggio, aveva 28 anni.
L'Italia non ricorda più il suo
compleanno. Nacque il 17 marzo del 1861 in Torino, con la proclamazione del Regno
d'Italia, Non nacque forse sotto i migliori auspici, e non tanto per ragioni di
superstizione, perché vide la luce un Diciassette. né tanto per ragioni
stagionali, perché nacque marzaioia e del mese d'origine ereditò l'instabilità.
Ma per ben altro; perché quando nacque era uno stivale con un buco al centro,
senza Roma. E nacque a Torino da un Sovrano
che forse non ebbe il buon gusto di
proclamarsi primo re d'Italia, preferendo restare Vittorio Emanuele II, come se
continuasse un po' esteso il suo regno
"piemontese". Forse non fu neanche bello nascere davanti a un
Parlamento che nemmeno formalmente rappresentava la sovranità popolare, ma solo il due per cento degli italiani: quattrocentomila votami su venti milioni e passa
d'italiani. Ma così è la storia, se vi pare. E non solo quella d'Italia.
Il genetlìaco
nazionale, di solilo, passa sotto silenzio, e non per una
questione di buon gusto verso le signore dì età avanzata. Tanto più che
l'Italia, una signora tanto vecchia non è; e se ha raggiunto da un
pezzo la terza età, le manca ancora la maturità. Vive da decenni in una specie
di adolescenza fossile, in cui ha bisogno nei momenti decisivi di essere
accompagnata dai genitori.
Che un tempo erano magari la
Chiesa o lo Slato assistenziale e omni facente, l'Alleato paterno o patrigno, ed oggi sono
l'Europa e il Mercato.
Comunque sia,
non è bello vivere in un Paese che non festeggia il suo compleanno. Tutti i paesi civili e
incivili hanno una loro festa nazionale.
Legata al giorno dell'Unità o alla proclamazione dell'Indipendenza, ad
una guerra vìnta o ad una carta costituzionale.
Da noi le feste che c'erano ce le siamo
giocate strada facendo in una gara
d'amnesie e fariseismi.Si cominciò col depennare il
Natale di Roma, ritenuto troppo lontano, troppo retorico-imperiale ed anche fascista. Seguì
a ruota il 4 novembre, ridotto al rango di celebrazione itinerante, come un
nomade con roulotte, spostato alla prima domenica novembrina. Scese in disuso
anche il 2 giugno che era la festa della
Repubblica ma conservava sotto traccia una stratificazione che ammiccava
alla natura anfibia degli italiani, ricordando un po' la festa monarchica dello
Statuto albertino del 4 marzo. Restò in piedi solo la festa che non celebrava
l'Unità d'Italia ma la sua divisione, il 25
aprile. Ma anche la festa della Liberazione è scesa in sordina, soprattutto da quando gli stessi storici antifascisti
e partigiani hanno accettato di definirla una guerra civile. E adesso? Niente, siamo un paese dì trovatelli o
di arteriosclerotici che non ricordano nulla. Certo, non sono le feste
a garantire l'identità nazionale di un Paese; anche se il nostro, per lunghi
secoli, fu dominato dalla triade di feste, farina e forca, nipotine del romano panem et circenses. Ci vuole
ben altro per ricostruire il tessuto sfibrato di una nazione.
Verissimo. Ma da qualche parte si deve pure
incominciare, anche con un simbolo. E se per le riforme ci vogliono i
cataclismi i dosaggi e le contorsioni virtuose
di un sistema fondato sulla mediazione, per proclamare una festa basta
un po' meno. Anche un'esternazione del Capo dello
Stato. O meglio, un decreto presidenziale.
Potrebbe essere quella la data, il
17 marzo, in cui, bene o male, nacque l'Unità d'Italia. Potrebbero essere
altre. Ma non sarebbe male cominciare dal
Risorgimento. Non abbiamo mai amato la retorica che si spese intorno al
Risorgimento, ma fu quello il primo atto
politico della Nazione. Ed è quello un punto di partenza un po' più distante di altri, e dunque sottratto alle polemiche e alle intemperie del nostro secolo. Ed
anche più adeguato, per ragioni di età e di clima, al nostro tricolore e al
nostro inno nazionale. La nostra storia è stata scandita al suo canto, e
dobbiamo tenercelo. Anche per rispetto di quanti, e non furono pochi,
fecero dell'Inno di Mameli la colonna
sonora della propria vita e persino della propria morte. Insomma, fuor
di anticaglie retoriche, è il caso di ripristinare
il compleanno nazionale.
Se coinciderà
con la fine dell'Italia sarà perlomeno l'ultima volontà in articulo mortis di un Paese, la sua
estrema unzione per darle onorata sepoltura. Se invece si accompagnerà alla ripresa di quell'identità nazionale che altrove
fiorisce, allora sarà ii simbolo e
la sveglia per un paese che non vuole aspettare il futuro come la bella
addormentata nel bosco. Anzi nel sottobosco.
Compagni, non è più tempo di parlare ma di fare; non è più
tempo di concioni ma di azioni, e di azioni romane.
Se considerato è come crimine l'incitare alla violenza i cittadini, io mi
vanterò di questo crimine, io lo prenderò sopra me solo.
Se invece di allarmi io potessi armi gettare ai risoluti, non esiterei; né mi
parrebbe di averne rimordimento.
Ogni eccesso della forza è lecito, se vale a impedire che la Patria si perda. Voi dovete
impedire che un pugno di ruffiani e di frodatori riesca a imbrattare e a
perdere l'Italia.
Tutte le azioni necessarie assolve la legge di Roma.
Gabriele D'Annunzio
CAMICIA ROSSA
canto popolare dal concerto GARIBALDI L'EROE DEI DUE
MONDI, 5 luglio 2008 Castello Cavour Santena, Coro Michele Novaro,
direttore Maurizio Benedetti, pianista Carlo Matti, testi Giuseppe
Vettori, attore Mario Brusa.
Nati
e cresciuti "a pane e guerra" made in USA, evergreen sempre in auge tra
gli studios globalizzanti di Hollywood, rimbambiti da videogiochi
truculenti e reportage a senso unico, dove è sempre chiaro chi siano i
buoni e chi i cattivi. Dove ogni pellicola si chiude con le stelle e
strisce che garriscono al vento e la giustizia americana trionfa sempre. Gianni Dessi
Quanto l'Italia sia diventato un paese surreale, una colonia, una Nazione allo sbando te ne accorgi dalle aspirazioni dei suoi adolescenti che si travestono da bandiere americane in attesa dell'asta. Cosa c'è da stupirsi da chi è cresciuto in un regime dove l'effetto martellante della propaganda del modello occidentale occupa qualsiasi spazio e contemporaneamente distrugge ogni barlume di identità nazionale? Tutte le salmerie mediatiche sparano con violenza il loro messaggio univoco. Pubblicità, cinema, tv privata e pubblica, radio, giornali di destra e di sinistra parlano un unico linguaggio, quello dell'americanizzazione. Chi aveva pensato che il digitale terrestre e la conseguente crescita di canali e capacità di offerta potesse contribuire ad una maggiore libertà si sbagliava. Abbiamo solo moltiplicato l'immondizia e la potenza del messaggio univoco. I giovani italiani così ben "educati" al modello americano sembrano pronti per essere messi in divisa. Multinazionali, brand, franchisig, grandi magazzini, produzioni cinesi invadono con milioni di pezzi gli scaffali dell'abbigliamento, l' unico cruccio è cosa indossare con la bandiera americana per apparire meglio come soldatino alieno. Giacche, magliette, mutande, straccali, scarpe, borse, borsette, polo, giacchini, gilet, orologi, sciarpe c'è solo l'imbarazzo della scelta. La bandiera americana è anche a buon mercato con pochi euro può essere tua se vai da un cinese o nei grandi magazzini, ma se proprio ci tieni ad essere un soldatino veramente elegante della provincia dell'impero, somigliare ad un cadetto di West Point non devi preoccuparti, puoi optare per una capo di alta moda (sic) e allora la bandiera americana ti potrà costare qualche centinaio Euro. L'effetto vale bene la spesa. Poi vuoi mettere un bel giubbotto della polizia lacustre della città Omer nello stato del Michigam che emozione.
Nelle foto alcune proposte per inverno 2013 di una famosa catena di abbigliamneto italiana
Non popolo arabo, non popolo
balcanico, non popolo antico ma nazione vivente, ma nazione europea: e cosa sei? Terra di infanti, affamati, corrotti, governanti impiegati di agrari, prefetti codini, avvocatucci unti di brillantina e i piedi sporchi, funzionari liberali carogne come gli zii bigotti, una caserma, un seminario, una spiaggia libera, un casino! Milioni di piccoli borghesi come milioni di porci pascolano sospingendosi sotto gli illesi palazzotti, tra case coloniali scrostate ormai come chiese. Proprio perché tu sei esistita, ora non esisti, proprio perché fosti cosciente, sei incosciente. E solo perché sei cattolica, non puoi pensare che il tuo male è tutto male: colpa di ogni male. Sprofonda in questo tuo bel mare, libera il mondo.
Alla mia Nazione
da "La Religione del mio tempo" dove il tema centrale è la latente
omologazione del neo-capitalismo, la desistenza rivoluzionaria e il
conseguente vuoto esistenziale.
Sien mute le lingue, sien pronte le braccia;
Soltanto al nemico volgiamo la faccia,
E tosto oltre i monti n’andrà lo straniero
Se tutta un pensiero — l’Italia sarà.
Non basta il trionfo di barbare spoglie;
Si chiudan ai ladri d’Italia le soglie;
Le genti d’Italia son tutte una sola,
Son tutte una sola — le cento città.
Va fuora d’Italia, va fuora ch’è l’ora,
Va fuora d’Italia, va fuora, o stranier!
Inno di Garibaldi
Arturo Toscanini conducts the NBC
Symphony Orchestra in the Garibaldi Hymn. Walter Toscanini, the
Maestro's son, is heard in the introduction. From the NBC broadcast
of September 9, 1943.
"A noi ci hanno insegnato tutto gli americani.
Se non c'erano gli americani... a quest'ora noi eravamo europei...". Giorgio Gaber
Diventa ciò che sei
Friedrich Nietzsche
di Marcello Veneziani
Due principi ormai si
fronteggiano sulla scena mondiale, venuto meno il comunismo: uno. prevalente, che pone il traguardo dell'umanità nel cosmopolitismo, nella città
planetaria. E il Progetto ethos
mondiale di cui parlava in un suo libro il teologo progressista Hans Kung e che trova sulla stessa linea,
a differenti livelli, un variegato
panorama: dai pacifisti umanitari, ai
cattolici democratici, dai liberal-progressisti ai socialdemocratici,
dai neo-comunisti fino ai liberal-capitalisti. Sullo sfondo non mancano naturalmente circoli finanziari e
massonici, multinazionali e grandi industrie protese verso la globalizzazione
del mercato. Il progetto è far seguire a questo mondialismo degli
affari, un mondialismo etico, che trovi fondamento nei diritti dell'uomo ed espressione nel sogno di un'umanità
liberata dalle frontiere terrene e ultraterrene. Pendant e sottofondo
necessario di questa visione
"ecumenica" è l'individualismo, ovvero la considerazione
dell'uomo come entità irriducibile ed autonoma rispetto ad ogni ambito; e dunque errante, facilmente spostabile, inappartenente.
Sviluppo altrettanto necessario è il progetto di un governo mondiale, una sorta di Super-ONU che affianchi il governo effettivo della finanza mondiale, dandole
un supporto organizzativo ed anche un supplemento etico di anima. Un governo mondiale umanitario, verde quanto basta,
pacifista fino ad un certo punto, inflessibile nel soffocare le zone difformi o
i modelli culturali che incrinano
questa pax annunciata.
Dall'altra
parte, emerge un principio antagonista: quello che si oppone al mondialismo attraverso la rivolta comunitaria. É un principio amico, originario, e insieme nuovo che
si esprime nelle società industrializzate del primo mondo, come nelle
società uscite dal comunismo del secondo
mondo, e infine nelle società ancora
non del tutto conquistate dallo sviluppo nel terzo mondo. II suo referente,
variamente indicato dalla difesa del territorio alle identità e specificità
etniche, culturali e religiose, dalla tutela dell'ambiente e delle città
in rovina al recupero del tessuto comunitario, fino ai fondamentalismi
nazional-religiosi, è sostanzialmente l'appartenenza e la difesa di una patria.
Patria intesa in senso lato, come luogo
originario, come luogo culturale o cultuale, ma anche sociale e lavorativo,
ambientale e linguistico, in cui ciascuno sì trova a casa. In
questa prospettiva ciascuno avverte di sentirsi culturalmente, naturalmente ed
elettivamente inserito in una serie di ambiti comunitari, dalla famiglia alla
città, alla comunità di lavoro, alla regione, alla nazione. E avverte questa appartenenza come un radicamento a
cui non può fare a meno, se non facendo a meno di se stesso. E dunque
difende la sua patria. Ma la difende non attaccando le patrie altrui, patrie
territoriali o ideali, e perfino ideologiche; ma al contrario, difendendo nella
propria patria la patria di ciascuno. Anzi, la garanzia dì vita della mia
patria è la garanzia di vita della patria di ciascuno, e viceversa.
Non sì tratta
dunque, come spesso ancora si fa nella nostra società frammentata ed
egoistica, di contrapporre ad un principio universale come il mondialismo, un principio particolare,
come la propria diversità. Sarebbe un
discorso debole, perdente, una pura fuga nel microcosmo e nel privato,
in definitiva omogenea e funzionale al mondialismo stesso, che ama accreditarsi
come un supermercato in cui è possibile
esporre ogni merce. Si tratta invece di passare a concepire la difesa
della propria diversità, della propria
identità, non come un fatto antagonistico a quello delle altre, né come un fatto a sé stante, che
mira a isolarsi da un contesto
generale. Ma come un principio anch'esso universale.
Ovvero, occorre
passare ad una specie di intemazionale delle patrie in cui le patrie si
coalizzano per difendere le proprie radici e la propria peculiarità dal comune avversario: il
mondialismo che omologa, annienta e trita le
diversità e concepisce solo individui nudi. Ricordiamo un appello rivolto dai movimenti nazional-religiosì russi: " Patrioti di tutto il
mondo unitevi".
Un appello che coglie perfettamente l'unica
battaglia possibile per ostacolare la città mondiale senza volto, la poltiglia universale.
"Ognì persona che rispetti la cultura e la tradizione del proprio popolo è nostro fratello" dicono gli esponenti di
un movimento (peraltro inaccettabile
in molte sue valenze) come il Pamjat. E aggiungono: "In Occidente
esistono più di duemila popoli, ognuno con la sua cultura particolare, perche a noi, invece di questa ricchezza, viene data una pseudocithura di massa, un simile
intruglio di "metalli pesanti", di pornofilm, di kolossal
cinematografici e altre produzioni
cosmopolite, buone solo a danneggiare ciò che resta della nostra spiritualità? L'intenzione di trasformare i popoli in un'unica folla senza patria, facile da
pilotare..."
Si tratta di
superare i nazionalismi aggressivi del passato, i vecchi imperialismi
coloniali, o i "patrioti" di giacobina memoria. Facile obiezione è
far notare l'aggressività con cui si manifestano oggi i conati nazionalistici. Non si può dimenticare
che alcuni patriottismi degenerano in
violenze o si manifestano con punte di intolleranza, perché a loro volta hanno
subito violenze. Non è stato loro concesso il diritto di manifestarsi,
sono state calpestate le loro sovranità
nazionali e popolari, sono stati negati, spesso a suon di carri armati, i loro
diritti di popolo. Si tratta allora di un'intolleranza di ritorno.
L'aggressività non nasce dall'istanza
patriottica ma dal fatto che è stata repressa. E quando viene repressa
esplode assumendo a volte toni concitati e forme
incontrollate. Differente è il nostro caso di paese occidentale, dove le patrie più che represse sono state depresse.
E da qui nascono, per virtù
omeopatica, semipatriottismi '"depressi" che talvolta, tramite alcune degenerazioni ecologiste
e localiste, finiscono con l'essere pure fughe nel particolare, con
l'alibi che lì vi è maggiore concretezza. E con l'esito di non incrinare gli assetti del sistema ma di assecondarti. A volte
vengono forniti anche surrogati di patriottismo. É il caso ad esempio
del "patriottismo della costituzione" di cui parta un intellettuale tedesco progressista (ma conservatore, anzi
retrivo, rispetto alla storia tedesca che cammina e travolge i muri), Jurgen
Habermas. E un patriottismo che
alberga anche da noi, e che vorrebbe trasferire il sentimento
collettivo di appartenenza nell'astratto e cartaceo
riconoscimento di una Costituzione liberale e democratica. Bisecolare
vizio illuministico di far nascere le cose con decreto legge della Ragione, dalla carta; senza trarle dalla storia, dalla
vita concreta e dall'anima dei popoli.
I due principi
antagonistici, serbano naturalmente nello spazio
che tra loro intercorre, una varietà di posizioni che impedisce una
valutazione manichea. C'è perfino un punto di contatto: è rappresentato
dall'europeismo. Nell'Europa si incrociano cosmopolitismi e patriottismi. Ma la
direzione verso cui marciano è opposta: il mondialismo vede
l'Europa come un passo per liberarsi dai nazionalismi e per
marciare verso la compiuta globalizzazione del sistema: i patriottismi vedono al contrario nell'Europa la macroappartenenza ad una Patria-civiltà e la grande nascita di un soggetto forte che
tuteli le specificità dal Progetto di un mondo uniforme e
unipolare.
La battaglia dei prossimi anni è dunque questa (Furio Colombo vede il futuro nell'alternativa tra"universalismo e tribalismo"; e l'impegno verso cui lavorare è
quello dt far comprendere ai vari comunitarismi la loro concordia discors,
la loro comune esigenza di coalizzarsi in nome del comune principio delle diversità da tutelale. Questo discorso può
largamente applicarsi, senza perdere la coerenza, anche in chiave politica e
sociale concreta. Rispetto all'onnivoro centrismo che tutto media,
neutralizza e digerisce; rispetto all'egemonia del capitale che mira a rendere inorganiche le differenze per
organizzare il mercato, le diversità politiche, sociali, sindacali e culturali, le "patrie" di ciascuno, devono coalizzarsi, cominciando a non
concepirsi in antagonismo,
superando i confini topografici di destra e di sinistra, di tradizionalismo e
di progressismo. Non è il caso di sprecare le proprie energie per
insultarsi fra dirimpettai di marciapiede quando il rullo compressore minaccia
di spianare tutta la strada.
Un
ufficiale imberbe, gentile e ardito come doveva esser GOFFREDO MAMELI, si
avanzò e in silenzio mi offerse due fiori e una foglia: una foglia verde, un
fiore bianco, un fiore rosso. Mai gesto ebbe più di grazia, più di semplice
grandezza. Il cuore mi balzò di gioia e di gratitudine. Io serberò quei fiori,
come il più prezioso dei pegni. Li serberò per me e per voi, per la poesia e
per il popolo d'Italia. Verde, bianca e rosso! Triplice splendore della
primavera nostra!
Come
la Valle de los Caidos" in Spagna ricorda gli oltre 38.000 caduti di
ambo le parti della guerra civile, il Monumento ai Caduti di Terni
abbraccia nel nome della Patria i caduti della prima e seconda guerra
mondiale, le oltre 1000 vittime civili dei bombardamenti inglesi, i
combattenti della guerra di Liberazione ed i caduti della Repubblica
Sociale Italiana.
La Libia e La
Tripolitania, erano rispettivamente la novantunesima e novantaduesima
provincia d’Italia, riconosciute province d’Italia da tutti gli stati
dell’Universo. E non colonie.I
problemi originati dal passaggio di sovranità fra i due stati , furono sanciti
con un accordo con il primo ministro libico Ben Halim ed il Presidente del
consiglio dei ministri italiano Antonio Segni, il quale aveva compreso dolorosamentetroppo tardi la situazione degli Italiani di
Libia anno 1956.
Il
trattato prevedeva:
Il
trasferimento alla Libia di tutte le proprietàstatali e parastatali nel Paese , fatti salvi gli edifici per far
funzionare i servizi diplomatici e le scuole italiane.
La
cessione all’Italia di un area, dove avrebbe fatto costruire a spese proprie
un nuovo ospedale a Tripoli.
Il
Governo Libico s’impegnava a garantire agli’italiani , compreso le persone
giuridiche, il libero e diretto esercizio dei loro diritti , escludendo nei
loro confronti qualsiasi possibilità di contestazione , anche da parte dei
singoli , per fatti dell’Amministrazione italiana intervenuti alla Costituzione
della stato libico .
Il
trattato stabilisce il proseguimento della colonizzazione contadina e il
trasferimento di proprietà quando le opere previste fossero state completate.
Inoltre si prevedevano quali fossero le
modalità per il trasferimento in Italia dei capitali e dei beni mobili degli
italiani rimpatriati.
L’Italia
versò alla Libia un contributo di settecento cinquantamila lire libiche, pari a
cinque miliardi di lire di allora.
Nel
1970 entra in scena , con un riuscito golpe militare il colonnello El Gheddafi,
il qualeconfiscò tutte le proprietà
degli italiani e li espulse dalla Libia, disonorando i trattati internazionali
firmati tra i due paesi. A fare un elenco della portata della rapina ai danni
dei nostri connazionali è lo stesso Gheddafi in un discorso a Bengasi il 5
settembre dello stesso anno: 1.5000 case , 50 fabbriche, 300 opifici, 37.000 ettari di
terreno, 120 miliardi di lirecongelati
nelle banche italiane.
Ma
facciamo un indispensabile conteggio per i richiesti danni di guerra.
Nella
Libia nel 1911 dopo tanti anni di malgoverno Turco, edilizia, trasporti, scuole, organizzazione
sanitaria , industria erano pressoché inesistenti. E, l’agricoltura era
limitata alle zone di facile coltivazione, nei pressi dei pozzi, condotta con
mezzi assolutamente primitivi. Nelle regioni interne aveva un certo sviluppo la
pastorizia , nelle città un modesto artigianato mentre il commercio era generalmente appannaggio della comunità
ebraica.
Durante
la presenza italiana furono piantati 400.000 ulivi, 500.000 alberi di agrumi,
184.000 mandorli, un milione di viti, 52.000 alberi da frutta. Furono resi
irrigui 5.096 ettari
di terreno in aree desertiche o semidesertiche, che vennero messi a cultura.
Furono costruiti 6.000 km
di strade asfaltate , 4000
km di strade ferrate, . Vennero trasformate in città
ricche di edifici e di ooere pubbliche , da borgate che erano, Bengasi,
Misurata, Barce, Cirene, Derna, Tobruk, e di Tripoli si fece una prestigiosa
capitale da tutti ammirata.
Secondo
i dati del censimento turco pubblicati nel 1911 la popolazione delVillajet di Tripoli era di 375.566 abitanti quella del Mousseriffato
di Bengasi di 198.345.
Quando
abbiamo lasciato la Libia
la popolazione sfiorava i 2 milioni. Alla fine del 1938 l’assistenza
ambulatoriale e ospedaliera era in atto in tutti i centri di una certa importanza
dell’immenso paese. A Tripoli era sorto il grande ospedale della Mescia, in
quel tempo uno dei migliori dell’Africa.
Regio Corpo Truppe Coloniali
A Tripoli (1911 ) interpretazione di Claudio Villa