Terni onora i 20 operai caduti per la costruzione della Centrale di Galleto

Il primo Podestà Elia Rossi Passavanti 

Sulla sommità del monte S. Angelo, prima dell’abitato di Marmore, si trovano i resti della Rocca costruita per difendere il piano delle Marmore ed il controllo della Cascata, oggetto di guerre centenarie tra Rieti e Terni.
Il 7 marzo del 1927 2.000 operai con il Podestà Elia Rossi Passavanti ed il Vescovo Mons. Boccoleri, insieme a numerose altre autorità ed associazioni, si recarono in cima alla Rocca che era stata trasformata in Cappella Votiva dalla Società Generale Costruzioni di Roma, azienda che aveva realizzato i lavori per il canale della Centrale di Galleto, entrata in funzione nel 1929.
Sulla cima della torre era stata collocata una croce in ferro ed una grande lampada, simile ad una fiamma e lungo le pareti furono 20 lapidi con i nominativi degli operai morti durante l’esecuzione dei lavori per il cantiere dell’impianto idroelettrico, insieme ai nomi dei caduti in guerra di Marmore.
I versi del Passavanti incisi sulla lapide commemorativa:



EROI DELLA GUERRA – EROI DELLA PACE
INVITTI FANTI DELLA TRINCEA

E ARTEFICI PODEROSI CHE A COSTRUZIONI CICLOPICHE
COSTRINSERO LE FORZE IMMANI DELLA NATURA
PER LA VITA CHE GETTARONO
A RENDERE PIU’ GRANDE LA PATRIA
LA RIVERENZA E IL RICORDO DELLE FUTURE GENERAZIONI

Rocca di San Michele Arcangelo Marmore
Monte San Michele Arcangelo Marmore panorama

Rocca di San Michele Arcangelo Marmore
Rocca di San Michele Arcangelo Marmore
Rocca di San Michele Arcangelo Marmore

Divina Patria

Terni Scuole Orsoline: quello che non poterono le bombe ha potuto Vincenzo Paglia



La scuola colpita dalle bombe degli Inglesi nel criminale bombardamento della città

Quello che non poterono le bombe, ha potuto Vincenzo Paglia

Nell'era della globalizzazione, dove sono i mercati a dettare legge, se non sei competitivo, divieni merce abbandonata, il tuo destino è la rottamazione.
A questa dura legge non è sfuggita una delle scuole cattoliche di maggior tradizione della nostra città, da tempo il vescovo di di allora, seguendo la logica ferrea del mercato, decise di accentrare tutte le attività didattiche presso l'Istituto Leonino, tagliando tutto il resto, a farne le spese sono state le Suore Orsoline e la loro Scuola, presso la quale hanno studiato generazioni di ternani.
Poche le suore rimaste, spesso anziane, pochi gli studenti, troppi costi, la decisione è stata presa, la scuola è stata chiusa, suor Daniela e suor Annalucia rottamate.
Non solo, la legge del mercato impone che nessun bene può essere lasciato improduttivo, così la scuola è stata venduta all' impresa edile Baldelli, il suo futuro affidato alle ruspe dei palazzinari, il destino dell'edificio è infatti quello di essere abbattuto, per lasciare spazio alla costruzione di appartamenti privati di lusso, oggi vi è stato costruito un palazzone di dubbio gusto.
Alle persone ragionevoli vengono in mente alcune considerazioni divergenti sulla bontà di tale operazione: chiudere una scuola è sempre un fatto negativo, chiudere una scuola cattolica significa rinunciare ad uno spazio educativo basato sulla diffusione di valori fondati sulla fede, di fronte ad un mondo dove avanza il buio della secolarizzazione è come spegnere una luce; ci sono anche alcune considerazioni pratiche da fare, l' edificio dell' ex Scuola delle Orsoline fu uno dei pochi risparmiati dalle bombe inglesi, seppur duramente danneggiato, era un edificio storico della nostra città, sopravvissuto ad una guerra, è stato un peccato abbatterlo, inoltre, era stato recentemente, con un investimento di molti milioni del vecchio conio,  completamente messo a norma riguardo gli impianti elettrici, la sicurezza, se ci si passava di fronte non si poteva fare a meno di notare la nuovissima scala anti-incendio che vi si arrampica di lato per l'intera altezza, sarà certamente costata bei soldini, sarebbe valsa la pena di rilanciare, invece che chiudere. Quello che è stato abbattuto  non è quindi un rudere fatiscente, ma un edificio scolastico modernamente attrezzato secondo la normativa europea, meglio di molti altri edifici scolastici della città.
Questo bel proposito sembrava aver inizialmente trovato uno scoglio non di poco conto sul suo cammino, occorre fare una breve storia: il terreno dove sorgeva, la scuola delle Suore di Sant'Orsola fu  donato dalla famiglia cesana degli Eustachi alla curia vescovile, perchè appunto fosse dedicato alla realizzazione di opere che avessero una funzione sociale, aperte alla comunità cittadina, una donazione per un uso aperto agli altri, il donare alla Chiesa per un cattolico non è un gesto che nasce da un calcolo utilitarista ma solo dall'amore per Dio.  Su queste basi gli eredi degli Eustachi presentarono un  ricorso contro la decisione della vendita del bene al Tribunale Amministrativo Regionale, ma poi... è stato trovato un "accordo".
L'unica cosa certa è che l' Istituto è stato abbattuto, le risa e le grida dei bambini non si sentono più, la città non rimpiange di certo quel vescovo che tanti danni ha provocato  e che ha  lasciato alla diocesi un buco di milioni di Euro.

foto abbattimento Pubblicate da cops falco su Terni Mania http://ternimania.blogspot.com/2008/1...

Camicie rosse camicie nere




Il governo fascista ha voluto dedicare alla memoria di Anita, la presenza galoppante, nell’atteggiamento di guerriera che insegue il nemico e di madre che protegge il figlio. L’artista insigne, che ha così dato oltre l’effige lo spirito di Anita, che conciliò sempre, durante la rapida avventurosa sua vita, i doveri alti della madre con quelli della combattente intrepida al fianco di Garibaldi. E’ nel cinquantenario della morte dell’eroe, cinquantenario che vorremmo celebrato come nazionale solennità, che il monumento si inaugura alla vostra augusta presenza, alla presenza dei discendenti di Garibaldi e dei prodi garibaldini, alla presenza ideale di tutto il popolo italiano. Di Garibaldi fu detto prima  e dopo la morte, dalla storia, dall' arte, dalla poesia, dalla leggenda che vive nelle anime delle moltitudini più a lungo della storia. Adolescenti, il nome di Garibaldi ci apparve circonfuso dalle luci di questa leggenda. Le camicie nere che seppero lottare e morire negli anni dell’umiliazione, si posero politicamente sulla linea delle camicie rosse e del prode condottiero.
Durante tutta la sua vita egli ebbe il cuore infiammato da una sola passione: l’unità e l’indipendenza della Patria. Tra i due periodi giganteggia Garibaldi che ha un solo pensiero, un solo programma, un sola fede: l’Italia. Coerente, di una perfetta coerenza, che gli apologeti postumi del suo nome non sempre compresero, fu coerente, e quando offriva la sua spada a Pio IX, e quando vent’anni dopo, lanciava i suoi disperati legionari sulle colline di Mentana. Coerente quando collaborava con Cavour, seguiva Mazzini, serviva Vittorio Emanuele II, osava Aspromonte. La marcia dei Mille, da Marsala al Volturno, guerra e rivoluzione insieme, elemento portentoso che ha dato per sempre l’unità della Patria. Il suono della vita, anche in quella di Garibaldi, le minori e le mediocri cose che accompagnano inevitabilmente l’azione – polemiche, ingratitudine, abbandoni -, un uomo non sarebbe più grande se non fosse uomo fra gli uomini.
Ma la storia ha già tratto dalle fatali antitesi la sintesi della definitiva giustizia, e Garibaldino è vivo più alto e più possente che mai nella coscienza della nazione e nelle coscienze di libertà.
Le generazioni del nostro secolo, cariche già di sanguinose esperienze, attraverso la più grande guerra che l’umanità ricordi, ebbero un pregio. Se il cavaliere bronzeo che sorge qui vicino diventasse uomo vivo e aprisse gli occhi mi piace sperare che egli riconoscerebbe la discendenza delle sue camicie rosse nei soldati di Vittorio Veneto e nelle camicie nere che da un decennio continuano sotto forma ancora più popolare e più feconda, il suo volontarismo. E sarebbe lieto di posare il suo sguardo su questa Roma, luminosa, vasta, pacificata, che egli amò di infinito amore e che fin dai primi anni della giovinezza identificò con l’Italia.
Sire, finchè su questo colle dominerà la statua dell’eroe sicuro e forte sarà il destino della Patria.

Benito Mussolini Roma maggio 1932




                                                                                    

                            A Roma l'inaugurazione del monumento ad Anita Garibaldi




                                                                             

                                                                                    Il trasporto a Roma delle spoglie di Anita Garibaldi




                                       Anita Garibaldi





                                         inaugurazione del busto di Anita Garibaldi, offerto da Costanza Garibaldi



                                                   A Roma lo scultore La Spina termina la testa di Garibaldi


Severità di Patria


Non vogliamo ammetterlo e giriamo in modo estenuante attorno alla questione, ma il buco nero intorno a cui danziamo ha un nome preciso: amor di patria. Gli appelli drastici al rinnova­mento o alla conservazione, le sante alleanze e le leghe nazionali che si invocano da più parti, la Grande Riforma o il Partito degli Onesti, ruotano intorno a quell'omissione, anzi la invocano senza pronunciarla.Se manca il coraggio di richiamare in servizio quel comune senso di appartenenza nazionale non c'è nessuna ragione per interrompere il gioco allo sfascio, o alla decomposizione, come correggono con dotto tartufismo i sociologi. C'era una volta la carità di patria, ma è stata usata con troppa indulgenza, al punto da dissipare la stessa idea di patria. Adesso, ha ragione il CENSIS, si dovrebbe piuttosto inventare la severità di patria, un sen­timento austero che non tollera più pulcinellate né sgravi di responsabilità o fughe nei sofismi, nella retorica e nella demago­gia. Basta con il perdonismo e le indulgenze. Severità di patria. Ma è possibile un patriottismo? É possibile, anzi è necessario. É l'unica via possibile per non chiudere bottega e privatizzare l'Italia nel senso peggiore del termine: cioè spaccarla in tranci, in lotti, in briciole e liqui­darla come nazione. Certo, non si tratta di rispolverare uniformi fatiscenti o retori­che d'annata. Si tratta piuttosto di inventare un patriottismo severo, anti-retorico, asciutto, che non risparmi l'autocritica per carità di patria; ma si sottragga all'autodenigrazione, sport nazionale ad alto tasso di improduttività. In fondo la guerra civile delle istituzioni è in atto perché manca quel collante: e la psicosi del partito die lui ha investito gli arti, come una paralisi progressiva. Ed ognuno dice la sua, si dis­socia e si mette in proprio perché rappresenta un partito o aspira a rappresentarlo. Ogni imprecazione trova un target e dunque in base alla legge di mercato trova legittimazione all' esistere. Ma di mercato si può anche morire. Se tutto si mette in piazza per piazzarsi come merce, l'unica regola è il successo del prodotto. E invece no, ci dev'essere qualcosa che valga di più degli indici di gradimento, dei punti totalizzati nei sondaggi? E questo qualco­sa, fino a prova contraria, non può essere che uno straccio di patriottismo. Che resta, in fondo, l'unica ragione sociale per cui bene o male stiamo insieme e continuiamo a parlarci nella stessa lingua. Insomma un maturo senso della patria fuori da ogni militari­smo o sciovinismo d'occasione. Un senso della patria che nulla ha a che vedere con il centralismo autoritario e con il "sacro egoismo" nazionale. Anche le piccole patrie sono patrie e meri­tano di essere garantite. E anche le patrie altrui sono patrie, anzi la condizione indispensabile per cui la mia patria possa vivere, è che sia garantita anche la sua, la loro patria. Ovunque si difende una patria, si difende la mia patria, il diritto della mia patria a considerarsi tale. Insomma, non un sentimento aggressivo ed esclusivista, ma il suo contrario. Un patriottismo che sappia guardare anche indietro senza perdere l'equilibrio. Quando si riuscirà a comple­tare quell'unificazione nazionale con una autentica integrazione popolare, l'Italia cesserà di vedersi sempre attraverso le lenti della guerra civile: tra nord e sud, tra cattolici e laici, tra fascisti e antifascisti, tra pubblico e privato, tra città e provincia. É necessario ricucire le vecchie fratture per assorbire le nuove. Forse è possibile. E va detto senza cancellare le amarezze e i disincanti, ma cercando di portarseli appresso come antidoto costante alle tentazioni patriottarde da parata. Tutto questo non urta con l'Europa, ma è la condizione per arrivarci bene e, per evitare che si tratti solo di una semplice trasformazione di un negozio in un supermercato. Un patriottismo con i piedi per terra, perché dalla terra, in fondo, trae origine. Ma è necessario per disegnare l'Italia ventura e per fondare un vero senso di cit­tadinanza. Senza del quale, più che connazionali o concittadini, siamo solo occasionali e rissosi concubini.


Noi siamo i Cacciatori delle Alpi 
Castello Cavour Santena, Coro Michele Novaro, direttore Maurizio Benedetti, pianista Carlo Matti, testi Giuseppe Vettori, attore Mario Brusa.

Terni: Il Telamone rapito


di Andrea Neri

Il Telamone di Terni, sottratto dalla sovrintendenza a causa dell'inadeguatezza delle strutture Museali della città'.
E' incredibile la situazione in cui versa la citta' di Terni incapace di custodire adeguatamente, almeno a detta del sovrintendente Pagano, uno dei pezzi piu' pregiati del suo patrimonio storico artistico.
Il Museo Archeologico non avrebbe lo spazio sufficie
nte, nè le misure di sicurezza adeguate per l'esposizione e la custodia permanente del “Telamone”.
E pensare che il CAOS (Centro Arti Opificio Siri ) nel suo complesso costa all'amministrazione ternana circa 800 mila euro l'anno per la sua gestione, che a dire il vero non sono bastati ad evitare il furto di un fermacapelli d'oro risalente al II secolo a.C .
Il Telamone, statua colossale che misura 1,90 metri per un peso di 8 quintali proviene da Terni, dove fu rinvenuta nelle immediate vicinanze di Porta Romana, nel 1971. Trasportato a Spoleto, è rimasto per 42 anni nei magazzini del museo Spoletino , per trovare collocazione provvisoria, nel chiostro della chiesa di San Domenico a Perugia.
Oltre alle accuse di scarsa capacita' nella cura del bene il sovrintendente Pagano asserisce, sulla base di una sua fantasiosa teoria, che il Telamone (forse destinato all'abbellimento della Porta Romana della citta'), sarebbe stato portato a Terni in epoca giustinianea nel 554 dopo Cristo da Villa Adriana a Tivoli e quindi immediatamente interrato per sottrarlo al saccheggio degli invasori Longobardi.
Tutto cio' per giustificare una presunta mancanza di legame tra l'opera e la citta' che quantomeno l'ha ospitato nel sottosuolo per 1500 anni e poterlo collocare a pieno titolo dove piu' gli possa fare comodo.
Sarebbe come dire che i Bronzi di Riace non destinati in origine alla città calabra diventassero improvvisamente res nullius .
Per quanto riguarda poi la provenienza dal Canopo di Villa Adriana , così accaloratamente sbandierata, mi sembra non ci sia il benchè minimo appiglio per poterla sostenere. A villa Adriana ci sono si due sileni canefori, ma realizzati in modo completamente differente. Sono piu' corpulenti, hanno la barba, il cesto che sorreggono e la veste che indossano assolutamente non congruenti con l'appartenenza del Telamone Ternano a questo gruppo.
Mi sorprende la leggerezza di simili affermazioni , volte più che altro a svincolare la statua dal suo territorio di appartenenza.
Fino a serie prove contrarie il Telamone rinvenuto a Terni è e fu pertinente a questa citta' ed in questa citta' deve rimanere.
Se poi le strutture Museali, non risultassero idonee ad accoglierlo, le responsabilità ricadrebbero interamente sulla gestione quantomeno approssimativa del patrimonio archeologico, artistico ,culturale, da parte dell'amministrazione ternana.

Terni: Con le pinne, fucile ed occhiali...ci tuffiamo con la testa all'ingiù!


Opporsi alla tirannia di un presente smemorato.
Difendere le nostre identità ambientali, culturali e storiche da modelli estranei, globalizzanti e mercantili che annullano le differenze e spersonalizzano ambienti, usi, e costumi.


con dedica a chi si occupa di cultura in città
Edoardo Vianello Con le pinne fucile ed occhiali 

La destra e la sinistra rovina della Patria



È un buon motivo per rassegnarsi? Sicuramente no, per chi sa guardare al di là delle cortine fumogene della disinformazione e coglie senso e sostanza della posta in gioco nel conflitto, ancor più asimmetrico degli altri per la dismisura delle forze in campo, che è in atto fra l’occidentalismo e i suoi oppositori. Il cui primo dovere è recare ovunque sia possibile parole di verità: denunciare, documentare, smascherare. Per non doversi poi sentire complici dei disastri che il fanatismo ideologico liberale e i disegni politici di chi se ne avvale stanno seminando, e continueranno a seminare, sul nostro pianeta.
Marco Tarchi 



Il disgusto del sordido è solo un'altra manifestazione della sensibilità alle cose più belle. 
Non vi è percezione di bellezza che non abbia un corrispondente senso di disgusto.
Ezra Loomis Pound


La destra e la sinistra Giorgio Gaber

Sentinelle d'Italia riprendete il vostro posto




 Le loro parole saran presto polvere dispersa

Serbate inviolato il principio sul quale si fonda la vostra esistenza come Nazione. Questa voce non è spenta e si fa sentire ancor oggi monito e rampogna contro i fiacchi rassegnati…

In questo momento Oberdan ha ancora qualche parola da dire al popolo italiano che sta subendo nuovi soprusi e dolorose rinunzie. …Ora da un pezzo tacciono le rane petulanti,mentre l’eroe e il poeta sono assunti numi tutelari, nel Pantheon dell’anima nazionale. E tale pure sarà la sorte dei mentori pigmei che garriscono contro l’uomo – Sentinella d’Italia: le loro parole saran presto polvere dispersa, mentre lui grandeggerà sempre più in alto e radioso nel cielo della Patria.


Aurelio Saffi, 24 dicembre 1882 



                                   Le Campane di San Giusto -Beniamino Gigli

Terni: disperata Villa Palma

La Villa nel 1930


 Documento esclusivo

In località Palmetta, nelle immediate vicinanze di Terni, sorgeva la cinquecentesca Villa Palma, molto importante per antichità e per il suo autore: Antonio Sangallo il Giovane. Villa Palma fu realizzata sotto commissione della famiglia Spada subito dopo l’esecuzione del palazzo cittadino, come residenza estiva. Il complesso comprende il palazzo padronale e due edifici laterali più bassi. L’edificio principale è di pianta rettangolare, elevato su tre piani e concluso, alle estremità da due torrette gemelle.
La parte centrale del fronte è caratterizzata da arcate tripartite, aperte al piano terra e tamponate ai due piani superiori con finestra rettangolare al centro. Gli altri prospetti sono composti in modo diverso tra loro: a tre assi di aperture con portone al centro il fianco e a quattro assi di aperture senza ingresso al centro, il retro. Tutti i prospetti sono armonizzati da doppie fasce marcapiano e paraste. Il palazzo è concluso da cornicione a mensole che si ripete per tre volte sulle torrette. All’interno il palazzo ha un’ interessante scala ad emiciclo decorata da nicchie e statue. Il piano nobile è ricco di sale di rappresentanza affrescate e alcune riaffrescate nel XIX secolo da Antonio Calcagnadoro, artista locale.

Al palazzo si affiancano, come ali, due edifici bassi, stretti e lunghi formando con il corpo della villa una forma ad "U". Questi, inizialmente loggiati, ospitavano la casa del custode ad oriente, le cucine, i magazzini la limonaia e la cappella, ad occidente. L’ala con la cappella ha una larghezza maggiore rispetto all’altra e racchiude un piccolo cortile interno. La cappella ha accesso dall’esterno, ha una facciata tripartita da lesene con portoncino ad arco e piccole finestre quadrate ai lati. In sommità , si aggiunge un fastigio tripartito con cimasa mistilinea e timpano centrale.

All’interno della "U" formata dagli edifici, in passato si sviluppava il giardino all’italiana, disposto su due livelli collegati da due scalinate semicircolari simmetriche. Il primo ripiano era ornato da aiuole di bosso e varietà floreali, il secondo da vasche e fontane. Tra le essenze arboree spiccano grandi palme che probabilmente hanno dato il nome al complesso. Sul retro esisteva un altro giardino più semplice, a forma semicircolare, incorniciato da grandi alberature che proseguono nei due monumentali viali d’accesso di cipressi e alloro. Ai margini del giardino all’italiana, si estende per due ettari il parco costituito per lo più da lecci

Passata da una famiglia nobile all’altra, Villa Palma attualmente è di proprietà del Comune di Terni e versa in condizioni disperate.

Religione insanguinata, religione della Patria



Religione insanguinata, Religione della Patria


La Religione della Patria nasce nel corso della Prima Guerra mondiale, vi è alla base un  sentimento di comunanza  tra i combattenti che discende  dall’aver per anni condiviso la realtà di comunità di vita e di morte delle trincee,  fu leva per abbattere le distanze dettate agli italiani dalla diversa origine di ceto, di classe, geografica. Sotto i colpi della  propaganda nazionalista dilagante in tempo di guerra, i combattenti si trasformarono “in credenti” in un patto di unità e solidarietà tra chi aveva sofferto le stesse esperienze.  Un vincolo basato sulla prossimità e disinteressato costituito dal senso dell’onore del servizio reso in guerra, dal coraggio, dalla fede nei valori in nome dei quali le sofferenze imposte dallo sforzo bellico sono state accettate dai combattenti. Frasi latine e iscrizioni di vecchi stemmi polverosi diventano, grazie a D’annunzio, formule magiche per infiammare gli animi di amore per la patria, esorcismi per garantirsi una sorta di magica immunità. S’inaugura un nuovo stile di vita che prevede anche il gesto incosciente che trascende il presente..  “Avrebbe potuto bombardare Vienna – scrive il Times di D’Annunzio – Forse i Tedeschi potranno pensare che questa non è guerra ma neppure possono negare che ciò è magnanimo è magnifico”.  




Questo mondo non basta

Terni: "Il denaro pubblico sarà trattato come sacro al bene del popolo"







"Il danaro pubblico sarà trattato come sacro al bene del popolo".
Elia Rossi Passavanti


Il Giornale d’Italia, 31 marzo 1924

Terni: “Un corteo di oltre ventimila persone con trenta musiche e centinaia di bandiere ha percorso le vie della città, tra l’entusiasmo delirante della folla che faceva ala al suo passaggio. Dalle finestre sono stati gettati a piene mani fasci di fiori sull’eroico combattente che G. D’Annunzio predilige tra i suoi più nobili e più puri legionari.”. In piazza Vittorio Emanuele, l’attuale piazza della Repubblica, “davanti a una folla immensa”, Elia Rossi Passavanti pronuncia “un’orazione semplicemente meravigliosa, strappando le lacrime di commozione ed ovazioni frequenti, interminabili…”. “Da questa città – risuonante di opere audaci – forgiatrice di ogni tempra, generatrice fulminea, balenante di energie vitali e mortali, e da un croscio profondo di una fusione magnanima, deve uscire l’Italia della pace e del lavoro. Uomini usi a tutto osare, conoscitori del dolore e degli stenti, della debolezza e della forza, delle potenze note e ignote, d’angoscia in angoscia, di errore in errore, di timore in timore, di presagio in presagio, di preghiera in preghiera, ci siamo sollevati alla santità di questo ternano mattino. Accendiamo, accendiamo l’immensa fornace o popolo mio, o fratelli, e che accesa resti per trenta secoli e che il fuoco fatichi, sino a che tutto il metallo si strugga, sino a che la colata sia pronta, sino a che l’urto del ferro apra il varco al sangue rovente della rinascita e della salvazione…”.


Elia Rossi Passavanti fu eletto alla Camera dei Deputati con grande suffragio, giurò il 24 maggio, aveva 28 anni.






                                                  "Inno del sole"
                                      Pietro Mascagni  su libretti  di Luigi Illica

17 marzo un compleanno per l'Italia






L'Italia non ricorda più il suo compleanno. Nacque il 17 marzo del 1861 in Torino, con la proclamazione del Regno d'Italia, Non nacque forse sotto i migliori auspici, e non tanto per ragioni di superstizione, perché vide la luce un Diciassette. né tanto per ragioni stagionali, perché nacque marzaioia e del mese d'origine ereditò l'instabilità. Ma per ben altro; perché quando nacque era uno stivale con un buco al centro, senza Roma. E nacque a Torino da un Sovrano che forse non ebbe il buon gusto di proclamarsi primo re d'Italia, preferendo restare Vittorio Emanuele II, come se continuasse un po' esteso il suo regno "piemontese". Forse non fu neanche bello nascere davanti a un Parlamento che nemmeno formalmente rappresentava la sovranità popolare, ma solo il due per cento degli italiani: quattrocentomila votami su venti milioni e passa d'italiani. Ma così è la storia, se vi pare. E non solo quella d'Italia.
Il genetlìaco nazionale, di solilo, passa sotto silenzio, e non per una questione di buon gusto verso le signore dì età avanzata. Tanto più che l'Italia, una signora tanto vecchia non è; e se ha raggiunto da un pezzo la terza età, le manca ancora la maturità. Vive da decenni in una specie di adolescenza fossile, in cui ha bisogno nei momenti decisivi di essere accompagnata dai genito­ri. Che un tempo erano magari la Chiesa o lo Slato assistenziale e omni facente, l'Alleato paterno o patrigno, ed oggi sono l'Europa e il Mercato.
Comunque sia, non è bello vivere in un Paese che non festeg­gia il suo compleanno. Tutti i paesi civili e incivili hanno una loro festa nazionale. Legata al giorno dell'Unità o alla proclama­zione dell'Indipendenza, ad una guerra vìnta o ad una carta costituzionale.


Da noi le feste che c'erano ce le siamo giocate strada facendo in una gara d'amnesie e fariseismi. Si cominciò col depennare il Natale di Roma, ritenuto troppo lontano, troppo retorico-imperiale ed anche fascista. Seguì a ruota il 4 novembre, ridotto al rango di celebrazione itinerante, come un nomade con roulotte, spostato alla prima domenica novembrina. Scese in disuso anche il 2 giugno che era la festa della Repubblica ma conservava sotto traccia una stratificazione che ammiccava alla natura anfibia degli italiani, ricordando un po' la festa monarchica dello Statuto albertino del 4 marzo. Restò in piedi solo la festa che non celebrava l'Unità d'Italia ma la sua divisione, il 25 aprile. Ma anche la festa della Liberazione è scesa in sordina, soprattutto da quando gli stessi storici antifa­scisti e partigiani hanno accettato di definirla una guerra civile. E adesso? Niente, siamo un paese dì trovatelli o di arteriosclerotici che non ricordano nulla. Certo, non sono le feste a garantire l'identità nazionale di un Paese; anche se il nostro, per lunghi secoli, fu dominato dalla triade di feste, farina e forca, nipotine del romano panem et circenses. Ci vuole ben altro per ricostrui­re il tessuto sfibrato di una nazione. Verissimo. Ma da qualche parte si deve pure incominciare, anche con un simbolo. E se per le riforme ci vogliono i cataclismi  i dosaggi e le contorsioni virtuose di un sistema fondato sulla mediazione, per proclamare una festa basta un po' meno. Anche un'esternazione del Capo dello Stato. O meglio, un decreto presidenziale.
Potrebbe essere quella la data, il 17 marzo, in cui, bene o male, nacque l'Unità d'Italia. Potrebbero essere altre. Ma non sarebbe male cominciare dal Risorgimento. Non abbiamo mai amato la retorica che si spese intorno al Risorgimento, ma fu quello il primo atto politico della Nazione. Ed è quello un punto di partenza un po' più distante di altri, e dunque sottratto alle polemiche e alle intemperie del nostro secolo. Ed anche più ade­guato, per ragioni di età e di clima, al nostro tricolore e al nostro inno nazionale.  La nostra storia è stata scandita al suo canto, e dobbiamo tenercelo. Anche per rispetto di quanti, e non furono pochi, fecero dell'Inno di Mameli la colonna sonora della propria vita e persi­no della propria morte. Insomma, fuor di anticaglie retoriche,   è il caso di ripristinare il compleanno nazionale.

Se coinciderà con la fine dell'Italia sarà perlomeno l'ultima volontà in articulo mortis di un Paese, la sua estrema unzione per darle onorata sepoltura. Se invece si accompagnerà alla ripresa di quell'identità nazionale che altrove fiorisce, allora sarà ii simbolo e la sveglia per un paese che non vuole aspettare il futuro come la bella addormentata nel bosco. Anzi nel sottobo­sco.