La scomparsa di Pickles McCarty

Museo Nazionale del Risorgimento Fiamma degli Arditi.                                                            
di Ernest Hemingway


Questa storia di «Pickles», un pugile italo-americano che rientra clandestinamente in patria per arruolarsi tra gli Arditi, è stata scritta da Hemingway durante le sue vacanze estive in Michigan nel 1919. Ernest aveva cercato di vendere il racconto con l'aiuto di Edwin Balmer, un giornalista del «Chicago Tribune» ch'egli aveva incontrato a una conferenza. Balmer gli diede la lista di alcuni editori che potevano essere interessati: George Horace Lorimer del «Saturday Evening Post», Virginia Roderick di «Everybody's», Charks Agnew MacLean del «Popular Magazine», Karl Harriman di «Red Book and Blue Book», ma la cosa non approdò a nulla. Una copia del racconto finì anche a un suo amico, Waring Jones, che nel 1966 ne fece dono al prof. Carlos Baker di Princeton N.J.. Un'altra copia è stata ritrovata nel 1977 da C.E. Clark jr., un bibliofilo dei dintorni di Detroit, il quale non ha spiegato com'egli sia venuto in possesso di quel manoscritto di 4.000 parole. Da una terza copia dattiloscritta, ora alla Kennedy Library di Boston, appare che Hemingway (verso il 1921) intendesse usare questo stesso racconto come parte di un progettato romanzo su Gabriele D'Annunzio e l'impresa di Fiume. Stranamente, questa storia di «Pickles» è rimasta sconosciuta al pubblico fino al gennaio 1976, quando una traduzione italiana è apparsa ne «Il Racconto», diretto da Giovanni Arpino. Sebbene strettamente «letterario», cioè inventato, «Pickles» si è rivelato così pieno d'informazioni da dar origine a un intero libro (Con Hemingway e Dos Passos sui campi di battaglia italiani della Grande Guerra, 1980). Tra i fatti storici in esso riconoscibili: la conquista di Monte Comodi Vallarsa (13 maggio 1918), un contrattacco di Arditi a Fossalta di Piave (tardo pomeriggio del 17 giugno 1918), un bombardamento austriaco a Col Campeggia e lo sfondamento degli austriaci sulla Strada Cadorna a Ponte San Lorenzo e all'Osteria alla Cibara (mattino del 15 giugno 1918), un combattimento a Col Spiazzoli a nord-est di Ponte San Lorenzo (primo pomeriggio del 15 giugno), l'epico scontro degli Arditi quando sfondarono sull'Asolone e con una puntata fulminea si spinsero sino a Col della Berretta e a Col Bonato (mattino del 25 ottobre), ecc. Alcuni degli episodi sono riferiti anche nel Report di W. Houston Kenyon. «Io, a Hemingway, non ho detto nulla», ha precisato Kenyon. C'è il fatto che Hemingway può aver letto il suo articolo nel numero di marzo 1919 dell'«Harvard Graduates Magazine»; oppure sia venuto a conoscenza degli avvenimenti da altri autisti della Sezione Uno ARC di Bassano, suoi compagni all'ospedale milanese. Ma è più probabile che Ernest sia stato messo al corrente di quei combattimenti dagli stessi protagonisti, dato che tra il 20-27 ottobre fu anche lui a Bassano (e a Pove e a Cittadella) e si mescolò con gli Arditi del IX Reparto d'Assalto del magg. Giovanni Messe (nel 1941 comanderà il Corpo di Spedizione Italiano in Russia, e nel 1943, l'Armata che si arrese agli alleati in Tunisia): un'unità combattente e uomini sicuramente riconoscibili nel racconto. «La scomparsa di Pickles McCarty» ha un sottotitolo: «The Woppian Way»; un gioco di parole che si può tradurre: «All'italiana» (da wop, ironico, scherzoso per «italiano») e «La via Appia» (con riferimento alla nota strada romana, ma anche ai miracoli d'ingegneria militare che era la Strada Cadorna, lungo il cui percorso avvengono i principali fatti del racconto).   
Ai tempi in cui mangiavamo il frutto dell'albero dell’attesa guardinga, quando ancora la gente si preoccupava del come finivano i «Giants», prima ancora che la ventata della coscrizione si formasse nella caverna di Eolo, oh, ai bei tempi quando George Creel pensava solo a sfamarsi e a non contar frottole, c'era un pugile di nome Pickles McCarty. E al nome di Pickles bisogna aggiungere qualcosa. Pickles era uno dai pasti ridotti a uova e prosciutto, a spezzatino di maiale e fagioli, era un pugile di rincalzo e in prova; per dirla in breve, uno di quei miserabili lottatori che si guadagnavano da vivere come comparse. Egli era uno di quei giovani, pieni di buona volontà, che puoi vedere se vai a una serata di pugilato troppo presto per l'incontro di prestigio, e che con copioso sangue e rotear di braccia si ammazzano di botte rincorrendosi sul quadrato, per un ridicolo minimo garantito. Pickles, come lottatore (quasi stavo per scrivere pugile), ci aveva rimediato un naso un po' appiattito un risentimento contro gli omaccioni rubizzi in abito da sera che strepitavano per vedere sangue, e il nome di McCarty. Poiché un cantante d'opera deve essere un europeo continentale, una società per azioni un corpo senza anima, e per forza un menapugni è un irlandese. Quando Pickles protestò con O'Leary, che doveva guidare i suoi destini pugilistici, che il nome di Neroni gli era stato a pennello per venti anni, lo Snake (serpente) gli rispose: «Senti, italianaccio! Pensi tu che il pubblico voglia vedere un tizio con quel nome di terrone a fare a pezzi Murphy, un bravo ragazzo irlandese, che magari prima si chiamava Goldstein? Non lo vuole. Ciò che vogliono sono due ragazzi irlandesi che si sfidano, e allora si che è un combattimento leale. E con l'aiuto della s
tampa e del Padreterno ne potremmo fare uno scontro memorabile. I tifosi si divertono a vedere sangue e smorfie e, come nei film, sono sempre dalla parte di Nick. Capita come con quegli zotici del Maine e dell'Illinois, che si scatenano tutti non appena sentono suonare Dixie (notissima canzone americana di Daniel D. Emmet, 1859, ndr.). Piccolo Neroni, ora hai un altro nome. Sei Pickles McCarty. E ti auguro di avere miglior fortuna del povero Luther». E così fu battezzato Pickles, e spuntò sulla Costa californiana come McCarty, e cominciò gradualmente a brillare. Nell'incontro di semifinale con Young Sullivan gli fu facile superarlo e divampò di luce propria, giungendo al centro incandescente della pubblicità nazionale... e poi disparve. E possa la sparizione e apparizione di Pickles McCarty togliere un po' di macchia che c'è ancora sul ring per il modo con cui la Montagna del Kansas e l'Ebreo di Gotham e altri loro compari hanno cullato i pacifisti in questi ultimi tre anni... Sulla Costa la carriera di Pickles fu folgorante. Non era all'inizio che un ragazzotto aspirante pugile, le cui sole risorse risiedevano in un corpo vellutato e forte come l'acciaio e in un cuore combattivo; era un vero genio nell'incassare, e nel ring incassare significa un'abilità sillabata di parolacce, di continuare a batterti anche quando uno più forte di te ti rompe il naso, ti chiude gli occhi, t'inchioda la bocca e te la demolisce, ti maciulla i connotati, e nel frattempo continua a martellarti allo stomaco e alle reni. Ma sotto la guida di Snake egli era diventato il secondo campione dei mediomassimi del mondo. Snake era stato l'allenatore di Ruby Robert, ai tempi della grande carriera de Lo Screziato. Egli insegnò a Pickles come far scrivolare via, con uno scatto della testa, i colpi che prima incassava. Trasformò il sinistro di Pickles, da un lento stantuffo aggirante, in una stoccata che saettava nella faccia dell'avversario con il guizzo di una mitraglia. E mentre il sinistro pugnalava e faceva l'uomo a pezzi, il destro, quel destro che Snake sognava («...dieci centimetri dalla mascella, e potrebbe benissimo essere una bomba di profondità»), stava sempre lì come un cannoncino camuffato. Era un pugno mai più visto dai tempi del Campione della Cornovaglia. Metti quelle due mani su una struttura a forma di squadra a T, mettici un 72 chili di concentrato di colpi di prima qualità, sormontato da una faccia sorridente d'italiano sotto un ciuffo di capelli neri, e in più lo scatto di un Corbett (1) e il cuore di un Diavolo della Tasmania e avrai Pickles McCarty, nato Neroni, nell'anno di grazia della nostra Neutralità 1915. Sorridendo come se niente fosse, egli, con quel suo poderoso pistone sinistro, aveva ridimensionato mediomassimi, pure sorridendo li aveva mandati al tappeto a un cenno di Snake dall'angolo. Ora c'era solo il Campione del mondo da battere... Il Campione, un po' appesantito, e lui solo sapeva quanto fuori forma, come tutti i campioni fece sapere a Pickles di darsi ancora da fare, per farsi un nome. Pickles, che il nome se l'era fatto più del Campione, gli fece sapere, attraverso Snake e la stampa; che se non accettava la sfida egli avrebbe reclamato il titolo. Le pagine sportive dei giornali ne furono piene. I press agents servono apposta per questo. E sul più bello Pickles sparì. Navigati commentatori sportivi considerarono dapprima con sospetto quella sparizione. Ma Snake li convinse. Snake era disperato. «Non è una balla giornalistica. la cruda realtà. Ma che stupido! Maledetto italiano stupido! Il mio avvenire economico. L'unico vero lottatore che ti trovo, e ora mi molla. Un altro piccolo sforzo da niente e avrebbe avuto il mondo ai suoi piedi, e lui invece molla tutto. Certo che so dov'è. Non ne sono proprio sicuro, non ci credereste. La direste una balla giornalistica. Basta, non parliamone più. Quel vile d'un lavativo». Così, per alcuni giorni, il pubblico sportivo rimase con il fiato sospeso a chiedersi cos'era successo a Pickles McCarty, poi si adagiò a contemplare un sindacato che cercava di combinare un incontro tra la Montagna del Kansas e un altro sfidante, meticolosamente scelto e pompato dalla stampa.         A Bassano noi eravamo acquartierati in una vecchia villa sul Brenta, sulla sponda orientale, un po' più in su del ponte coperto. Era grande e tutta di marmo con cipressi lungo il viale e statue ai lati, e le solite altre cose. Noi eravamo il solito gruppo di avventurieri, dai piedi piatti e con gli occhi strabici, che non potevamo arruolarci nell'esercito e avevamo ripiegato sul Servizio Ambulanze. Quando il Corpo di Spedizione Americano arrivò in Francia, fummo cacciati via di li. Alcuni della squadra erano finiti in Mesopotamia, gli altri si sparpagliarono per i Posti o Sezioni lungo il fronte italiano. Certo, avrei potuto tornarmene a Washington, con Spurs, addetto alla propaganda. Ma hai tu mai visto il sole sorgere, almeno una volta, dal Monte Grappa, o sentito nel sangue dentro di te il crepuscolo di giugno sulle Dolomiti? (le Piccole Dolomiti, vicino al Pian delle Fugazze, sopra Schio, ndr.). 0 gustato il liquore Strega a Cittadella? 0 camminato per le vie di Vicenza, di notte, mentre la luna ti bombardava? Sai, in guerra, oltre al combattere, ci sono mille altre cose. E ogni volta che al chiaro di luna scendevamo alla piccola trattoria e io respiravo il profumo di quei grandi fiori color porpora che coprivano i muri bianchi e inondavano la notte del loro olezzo, e ci sedevamo nel giardino con un autentico boccale di birra buona davanti, e le coppie di innamorati ci camminavano vicino nella penombra lunare, e magari su per la strada una chitarra si lamentava nostalgicamente suonando Torna a Surriento, Washington era terribilmente lontana e mi auguravo di non aver mai toccato una macchina da scrivere. Bene, eravamo acquartierati in questa vecchia villa di Bassano. Era una notte calma. In città non succedeva niente e io dormivo. Improvvisamente mi svegliai di soprassalto. Dal cortile di sotto della finestra provenivano le più empie urla e strida e grida di dolore, accompagnate da colpi e da un sacco di parolacce in italiano. E non c'è nessuno al mondo che in fatto di impressionanti e pittoresche imprecazioni e parolacce superi gl'italiani. Misi fuori la testa dalla finestra e vidi un Ardito, di un battaglione attendato lì vicino, legato al muro per le mani, e un altro Ardito che gliele suonava. Gli Arditi erano volontari, provenienti in parte da criminali che dovevano scontare piccoli errori, come omicidi o stupro. Sono truppe d'assalto, hanno tasche piene di bombe, una pistola automatica appesa con una funicella al collo e un pugnale lungo 25 centimetri a lama larga di foggia romana tra i denti. Per la maggior parte balzano all'attacco a petto nudo. Dubito fortemente che in altri eserciti esistano migliori truppe d'urto. Dimentico dell'italiano gridai in inglese: «Piantatela! Vogliamo dormire! Rimandate il macello a domani mattina!». L'Ardito legato guardò verso di me al chiaro di luna, mi sorrise con una smorfia e con la testa piegata di lato, come uno spagnolo alla garrota. «Va bene, Scribe» (scribacchino), disse in perfetto inglese californiano. «Urlo solo perché questo sergente si sbrighi. Non ha neppure la forza di forare biglietti. Ma devo far finta che faccio penitenza. Ancora sette colpi e ho finito». Mi sorrise con un'altra smorfia, mi strizzò l'occhio e incominciò di nuovo a urlare. Era Pickles, non mi sbagliavo. Quella era la sua smorfia. Feci appena in tempo a vestirmi e scendere le scale che il sergente se ne era andato e Pickles era li che mi aspettava. Sputò un po' di sangue per terra e mi strinse la mano. «Vecchio Frog Eyes» (occhi di rana), mi sorrise. «Che ci sei venuto a fare tu in questa sporca guerra? Non è la tua, mi pare». «E da quando in qua è la tua?». «Oh, da molto. Che ne dici della divisa?», e si guardava la giubba grigia di Ardito con il colletto aperto, le due grandi fiamme nere pendenti ai lati del colletto, i pantaloni grigi a sporta e le fasce nere arrotolate alle gambe; indossava anche il fez nero, con il: Ciocco che finiva dietro la testa ricciuta. «Posso salire in camera da te? Ti posso mollare un po' di "roba". Sai, mi sono fermato a sotto-soldato, nell'esercito è la carta che viene subito dopo il due». «Dopo i tuoi tre anni?». Prima di incominciare a fare il pugile Pickles aveva fatto tre anni all’Università di Stanford. «Non poteva andare diversamente», rispose Pickles salendo le scale. Ci sedemmo sulla mia brandina e mi accinsi a versare del cognac. Picks lo allontanò con la mano. «Acquetta! Sai cosa ci danno quando andiamo all'attacco? Rhum ed etere. Dopo quello ci vorrebbe solo l'oppio. E grappa! L'hai mai assaggiata? Ti colpisce come una mazzata. Un bicchierotto di quella e hai la forza di un plotone. Una sorsata e incominci a domandarti perché gli austriaci non abbiano una truppa d'assalto un po' migliore con cui valga la pena battersi. Con la grappa potresti incitare a dovere anche un brocco». «Ma quella gentaglia, Picks», dissi. «Come fai a sopportarli?». «E’ la migliore banda del mondo. Tu credi che siano tutti criminali. Si pensava che lo fossero all'inizio. Ora ce ne sono delle migliori famiglie d'Italia. Sono volontari e se superano l'addestramento vengono arruolati. Ti faccio notare, Frog Eyes, è tutto una questione di addestramento. Sai di quelle bombe a mano che chiamiamo "signorine"? Esplodono quattro secondi dopo che hai strappato la sicura. Nell'addestramento strappi la sicura, le butti per terra davanti a te, le raccogli e le lanci via. Sì, Frog Eyes, è tutta questione di addestramento. E Snake, come va?». «Benissimo. Aspetta che tu torni, Avresti potuto diventare il campione del mondo. Perché non gli hai detto dove andavi, quando sei partito?». «Gliel'ho detto. Partendo gli ho scritto una lettera. Mi detestava perché c'era sempre qualcosa che non andava, e non aveva fiducia nel mio futuro. Un'altra bravata in addestramento, Frog Eyes, è caricare per duecento metri sotto uno sbarramento di fuoco di mitraglia che ti arriva al petto. Abbiamo anche disciplina. Mi hai visto legato stanotte». «Sì, e ti ho sentito anche», dissi, «Era perché non avevo salutato un ufficiale. E a dir la verità non l'avevo proprio visto. Ah, Frog Eyes, siamo una bella squadra. Sai cosa ti becchi se arrivi in ritardo da una licenza? La morte. E niente plotone di esecuzione. Ti spara in testa con la pistola automatica il tuo comandante di plotone. Lo sai? Sono stato sul Carso. Il Carso era un inferno. Non quello alla Sherman, con le marce forzate. Un inferno del 1915. Tutto rocce, pallottole di mitraglia, granate, e ancora rocce, e niente acqua, e pareti ripide, con mortai da trincea, e trincee fredde ogni quindici metri. E che freddo. Parecchio sotto zero. Sono anche salito sul Monte San Gabriele. E c'era la vecchiaccia con la falce e il teschio e la camicia da notte che spazzava la montagna, allo stesso modo che a San Francisco innaffiano le strade con l'idrante. Ma siamo saliti. E il Monte Corno!». «L'ho visto», dissi. «Tu hai visto la Rocca di Gibilterra, Frog Eyes. Potremmo prendere anche quella, come abbiamo preso il Monte Corno. E l'abbiamo preso. Non so come. Mi ricordo, ho visto un austriaco strappar la sicura a una di quelle bombe schiacciapatate e la tirò addosso a cinque di noi. Ci fu lo scoppio e sono rimasto solo. lo ero sotto, più in basso, e lui rideva e strappò la sicura a un'altra e me la tirò. Mi cadde davanti, oscillò un secondo che a me parve un'ora, poi rimbalzò fuori del bordo e scoppiò per aria più in basso. Io a quel tale ho sparato con la pistola. Mi cadde addosso giù dalla roccia e per poco non mi fece precipitare dal bordo. Un salto di trecento metri. Sono rimasto sotto di lui un poco. Era caldo e appiccicoso. Finché ho inarcato la schiena e l'ho fatto scivolar giù. Ho sentito il tonfo, come quando butti via una zucca (2). Il Corno, sì, Frog Eyes, è stato uno spettacolo!». «Eri al Piave in giugno?», chiesi. «Se c'ero? Vennero in duecentomila dal bel mezzo dei campi, c'era fumo e gas, e il bombardamento era spaventoso. Tutto scuro, e la fanteria che in qualche punto aveva ceduto. Gli ufficiali tutti morti. I nostri venivano giù per la strada come una marea e con gli occhi fuori dalle orbite. C'eri anche tu?». «Fossalta, Pralongo, Monastier, Case Levi, Fornaci ... ». «Ah, c'eri» ridacchiò Picks. «Noi spuntammo per primi da dietro la curva di Case Levi. La fanteria stava ripiegando in massa. Quelli di dietro si ritiravano combattendo. Chi era ferito leggero aiutava gli altri feriti. Noi arrivammo lì con i camion. In fondo alla strada si sentiva il crepitare delle loro mitraglie. Noi li attaccammo e h 8 attraverso i campi. Si fecero ancora sotto e noi scattammo al contrattacco. Contrattacco, contrattacco! Se l'hai visto, sai cosa significa. Il coltello, sempre il coltello. Con quello non potevano resisterci. Io, sul mio, segnavo il numero con una tacchetta sul manico, Bene, basta con lo spettacolo di giugno. Sai anche tu com'è finito. Senti, Frog Eyes, se vuoi vedere uno spettacolo, se proprio ci tieni a vedere uno spettacolo... domani prendiamo l'Asolone. Come il solito nessuno dovrebbe sapere niente. Come al solito ci han dato a tutti la droga. Partiamo con i camion per la strada del Grappa domani mattina alle due e trenta. L'attacco è alle cinque. Se lo vuoi vedere e rischiare. Dai, rischia! Vieni anche tu, Frog Eyes. Non vorrai mica vivere per sempre, no?». Stetti un po' indeciso. Certo che non volevo vivere per sempre, ma ci tenevo a vivere un po' più a lungo. Ma avevo anche visto Pickles in azione sul ring, e vederlo ora qui sul serio in azione era una tentazione troppo grossa. «Nel caso che venga... a che ora si parte?». «Va bene alle due e trenta, quando arrivano i camion dall'autoparco. Tu puoi fermarti al Posto di Osservazione e ti puoi godere lo spettacolo da li. Forse salterai in aria anche tu. Sei grasso, e dopo tutto non ti resta molto da vivere. Sei vecchio, Frog Eyes! Scommetto che hai quarantacinque anni». «Quarantadue per l'esattezza. E lo sarai anche tu, in meno di vent’anni, italiano della malora! Ci sarò, alle due e trenta». «Frog, io non invecchio mai finché c'è la guerra», mi ribatté Pickles, voltandosi mentre scendeva le scale. Guardai l'orologio, erano le undici e trenta. Alle due e trenta non mancava poi molto. Sicuro, i rischi li affrontavamo tutti i giorni, quando salivamo con le autoambulanze ai posti di medicazione. Ma quello era un rischio calcolato, ed eravamo protetti dal mito-leggenda della propaganda secondo cui niente può mai colpire un'autoambulanza; se poi qualcuna veniva colpita, c'era sempre chi ci teneva a far notare l'eccezione che confermava la regola. Magari non avessi rivisto Pickles. Ma il pensiero dello spettacolo che di li a sei ore mi sarei potuto gustare fini per prevalere. Alle due e trenta m'incamminai giù per il viale verso la lunga fila di camion parcheggiati al buio, vicino all'incrocio della strada. Il battaglione stava salendo e prendendo posto. Trovai Pickles e riuscii a sedermi vicino. Il primo camion ingranò la marcia e la lunga colonna sfilò per la città dirigendosi verso la strada camuffata del Monte Grappa. Pickles, con una borsa di micidiali piccole «signorine» a tracolla (le «signorine» sono grandi come scatolette di minestra e sono avvolte da un nastro) (3), canterellava: «Com'è bello - alzarsi presto - a la mattina...». L'Ardito che gli sedeva accanto stava affilando il suo coltello con una piccola cote oleata. Mi parlò in italiano. «Il Pickles dice che tu, sebbene sei un grasso americano, vuoi vedere l'attacco. Il Pickles dice che in America lui ti conosceva bene. Verrò anch'io un giorno in America, dopo la guerra. Senti, hai sentito parlare della Mano Nera?». «E’ come la Mafia e la Camorra. In qualche città sono molto forti», risposi. «Dopo la guerra andrò a Chicago. Forse là ci incontreremo», sorrise, e provò se il coltello tagliava, strofinando il filo della lama contro la guancia. «E’ uno dei veterani», mi disse Pickles in inglese a bassa voce, «Sarebbe per lui troppa fortuna andare a Chicago. Lo manderanno in Libia». Faceva freddo, e mentre salivamo per la montagna il vento, come se provenisse da altri mondi, scendeva dai passi alpini e ci tagliava la faccia. Il serpente della colonna dei camion si snodava lentamente per i tornanti. Pickles, ora con la borsa delle bombe in grembo, spiegò come doveva svolgersi l'attacco. Doveva essere un assalto di sorpresa, senza preparazione di artiglieria. Gli Arditi avrebbero attaccato in due ondate. Poi sarebbe subentrata la fanteria, per consolidare il vantaggio ottenuto. Eravamo a circa cinque chilometri dal posto in cui dovevamo saltar giù quando incominciò uno spaventoso bombardamento, seguito subito dopo dalla nostra artiglieria che tambureggiava da tutte le parti attorno a noi. Si vedevano bombe cadere sulla strada davanti. Un camion fu centrato in pieno. L'orrore di un camion pieno di uomini così centrato non è descritto neppure da Dante nel suo Inferno. Piombò giù un'altra bomba, con un lungo fruscio nell'aria, e scoppiò a lato della colonna e ci fece cadere addosso una pioggia di schegge di roccia. «Questo non era in programma! Tu sei un altro Giona, Frog Eyes!», mi gridò Pickles al di sopra del rombo dei cannoni. In lontananza, dalla colonna al buio, qualcuno incominciò a cantare con una voce di tenore chiara e potente. A lui si unirono tutti gli uomini dei camion:   «Il generale Cadorna Ha scritta al' Regina. Il generale Cadorna Ha scritta al' Regina. Si vuol' vider' Trieste, Demanda Cartilina Bom, Bom, Bom, Rumor di Canoni! ... ».   Tutti del battaglione urlavano quella canzone dal ritmo dinamico, con un terrificante crescendo di volume sui «Bom! Bom! Bom!». Pickles mi gridò nell'orecchio: «Ti becchi tre mesi di galera se canti questa canzone in qualche altra parte d'Italia. Ma qui lascian correre. Hai capito le parole? Il generale Cadorna scrive alla Regina. Se vuoi vedere Trieste fatti dare una cartolina illustrata. E poi rumori di cannonate». Un'altra bomba venne a scoppiare sulla colonna che s'era fermata. Un urlo acutissimo superò il volume della canzone, ma il battaglione passò alla seconda strofa: «Noi siamo gli Arditi Et vogliamo la riscossa, Noi siamo gli Arditi Et vogliamo la riscossa! Vogliamo le Monte Corno Et tre bicchieri di birra Bombi a mano      Et tre culpi de punialo! ... ».   «Hai capito?», gridò Pickles al di sopra del fragore del coro. «Noi siamo gli Arditi. Vogliamo andare alla riscossa. Vogliamo il Monte Corno e tre bicchieri di birra. Bombe a mano e tre colpi con il pugnale... Ehi, Frog! Guarda chi arriva!». In fondo alla strada, alla luce degli scoppi delle bombe, si vedeva una calca di feriti sanguinanti. Stavano aprendosi un passaggio barcollando contro gli schermi che riparavano e camuffavano la strada. Avevano la paura della morte negli occhi. Quello sguardo di truppe terrorizzate che è la cosa più orribile che puoi vede re in guerra. Avevano gli occhi come di pecore al macello e a ogni scoppio di bomba si buttavano a terra venivano calpestati dagli altri che premevano violenti alle spalle. «Di che brigata siete?», gridò un Ardito alla marea. Un ufficiale li in vestì con la luce di una torcia elettrica. Al bagliore guardarono in su con quei terribili occhi spauriti e pro seguirono strappandosi di dosso zaini e moschetti. «Ehi, Frog! Direi che hanno il morale a terra!», mi urlò Pickles all'orecchio. «Ho già visto questo un'altra volta». Si sporse dal camion, ne acciuffò uno e gli diede uno scossone afferrandolo per la gola. «Figlio d'un cane bastardo. Figlio di tuo zio», ringhiò, sbattendogli la testa contro I sponda del camion. «Perché scappate?». Il soldato lo guardò muto, poi disse asciutto:«Gli austriaci. Hanno sfondato in montagna. Han rotto le linee sull'Asolone e stanno scendendo sulla strada. Ci ammazzeranno tutti». «Dovresti essere ammazzato tu», disse Pickles in inglese e lo scaraventò con un ceffone nella fiumana. «Questo accorcia il percorso!», gridò agli uomini del camion. «Arditi, oggi si mangia carne!». Gli uomini della fila del camion stavano calandosi giù con l'ordine di schierarsi sulla strada. La strada qui era intagliata nella roccia e non c'era spazio per manovrare. Una valle veniva a finire in strada duecento metri più avanti di una curva, e lì gli austriaci erano penetrati e avevano tagliato la strada principale della montagna. Stavano penetrando a cuneo sulla strada anche in un'altra parte. Tà tà tà tà!... Le mitragliatrici martellavano la curva in cui gli austriaci sciamavano giù per la valle e sulla scarpata di fianco alla strada. «E’ molto semplice», disse il maggiore al battaglione, con voce chiara e un po' blesa. «Dobbiamo cacciarli indietro. Su per la valle e oltre la cresta. E’ molto semplice, bisogna cacciarli indietro. Siamo gli Arditi». E la sua voce si alzò a tono di comando: «Battaglione Savoia!». E il battaglione avanzò. Non dietro uno sbarramento, non in ordine regolare, non a passo cadenzato, ma urlando, bestemmiando, correndo, urtandosi, spingendosi per essere primi all'urto. Un battaglione contro un esercito. Quando la prima mitraglia li investì, come un manicotto d'acqua su una fila di formiche di una stradetta laterale, non si scomposero. Fu colpito il maggiore, cadde, si rialzò, fu abbattuto ancora, ma continuò a trascinarsi carponi e ad aggrapparsi con le mani su per il pendio, muovendosi a piccoli scatti come un bambino. E allora gli austriaci vennero giù dalla montagna come un'onda verde e grigia e il maggiore sparì travolto da una marea di piedi, e lui da sotto tagliava e scarnificava gambe. E allora vidi Pickles. Puntò dritto nel più folto di essi. Con un coltello per mano. Ammassate e scioccate dal contrattacco, le truppe si erano come inceppate. Vidi Pickles dare uno strattone alla cordicella al collo e usare la pesante pistola automatica come una fionda, mentre con la sinistra giocava come un fulmine d'estate facendo guizzare il pugnale. Gli Arditi attaccavano a testa bassa, balzavano, pugnalavano, lanciavano «signorine», dovunque c'era spazio, nella massa grigia dei nemici. Pickles si apri un varco verso il maggiore caduto, gli fece spazio attorno. Fu allora che gli austriaci, compatti, incominciarono a ritirarsi su per la vallata. Gli Arditi non li distinguevi più. Si vedevano solo vortici di austriaci e potevi esser certo che là in mezzo c'era un Ardito. Ma furono bloccati, e allora dalla strada si riversò la fanteria, e in ordine sparso e alla baionetta li caricò su per la vallata. I mitraglieri di un battaglione misero su i treppiedi e sgranarono nastri dopo nastri contro gli austriaci in ritirata e incalzati dalla fanteria su per le pendici. Dopo che i nemici erano spariti oltre la cresta, trovai Pickles seduto accanto al maggiore. Tutto intorno c'erano elmetti col chiodo, bombe a mano col manico, involucri vari e altri resti, più macabri, della battaglia. «Sei ferito grave, Picks?», gli chiesi preoccupato, piegandomi su di lui. «Solo qualche graffio, Frog Eyes». Si guardò intorno. «Questa è la valle della morte. Andiamocene via. La loro artiglieria può aprire il fuoco da un momento all'altro. Sarebbe stato ben altro spettacolo se non ci avessero giocati e non avessero attaccato loro per primi. A finire il lavoro adesso basta la baionetta. Frog Eyes, come sarebbe stato bello l'esserci avvicinati noi a loro, fino a sentirne il puzzo del fiato. Cosa credi? Io sputo in faccia all'ufficiale prima di farlo fuori. Ah, il vecchio bravo coltello. Dai, Frog Eyes, andiamocene di qua. Dammi una mano, per piacere». Si alzò barcollando, perdendo sangue da una dozzina di ferite, e scendemmo dalla scarpata scavalcando e oltrepassando gruppi di austriaci morti, con sempre in mezzo il corpo di un Ardito. «Quando entriamo in azione noi», Pickles mi fece notare, «ci dobbiamo anche fare il monumento. Che combattimento, eh?, Frog!». Ai piedi della scarpata quelli del battaglione che erano rimasti vivi, una cinquantina d'uomini, giacevano esausti a terra, con il fiato grosso e come mezzo ubriachi, come giocatori di calcio in un intervallo. «Eccoli là, Frog Eyes», disse Pickles esaltandosi. «Guardali bene, gli Arditi. Non ne sono rimasti molti. Fissali bene in faccia, Frog». E si lasciò letteralmente cadere per terra e si distese. «E dopo questo, vogliono che io ritorni e salga su un piccolo miserabile ring, che non è neppure un ring, con un pavimento di tela incerata, e mi metta a colpire, con guanti di cuoio, un uomo più volte di quanto non riesca lui a colpire me con guanti di cuoio. E fermarmi ogni tre minuti, mentre giù nelle poltrone di prima fila un branco di pancioni rubicondi ti urlano "Ammazzalo! Ammazzalo! ". Hai una maledetta cicca? No, Frog Eyes, non può essere». «Potresti diventare il campione del mondo, lo sai», dissi. «Campione del mondo di cosa? A colpire uomini con stupidi guanti di cuoio, mentre giù nella prima fila tizi rubicondi e pelati e con gli occhi fuori delle orbite sbraitano per veder sangue». Si tirò su a sedere con un po’ di difficoltà, accese la sigaretta e pulì con molta cura il pugnale con il fiocco del fez. Poi rimise la lunga lama dentro la guaina di cuoio e sorrise con una smorfia. «Dillo a Snake. Digli pure che mi sono ritirato».    NOTE   (1)  Fu memorabile l'incontro disputato a New Orleans d 7 settembre 1892, in cui Jim Corbett batté John (qui nel racconto «Young») Sullivan e divenne Campione mondiale dei pesi massimi (v. anche il film Gentleman Jim - nella versione italiana Il sentiero della gloria - di Raoul Walsh del 1943, con Errol Flynn, N.d.R.). (2)  Episodio finito anche in Addio alle armi (1929), cap. 19. (3)  . Hemingway sbaglia, confondendo «signorine» o «ballerine» (con un manico di legno e una specie di gonnellino) con petardi Thevenot che avevano un nastro che nel lancio si disfaceva.   (Courtesy of the Hemingway Estate, New York, and prof. Carlos Baker, Princeton N.J.).

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Identità sportiva e identità nazionale





L' autorappresentazione della nazione attraverso lo sport assume forma compiuta. Il regime mussoliniano crea un modello, più tardi imitato anche dai regimi totalitari dei paesi dell'Est, attraverso il quale lo sport diviene rappresentazione della potenza e della identità nazionale : Mussolini - ha scritto lo storico americano John M. Hoberman - fu senza dubbio «il maggior atleta politico del periodo fascista». E Filippo Tommaso Marinetti fu l'ispiratore di una concezione antropomorfica dello Stato atletico. « Se pregare significa comunicare con la divinità, il correre a forte velocità è una preghiera - scriveva nel 1916 Marinetti in La nuova moralità-religione della velocità -. L'ebbrezza di un'auto lanciata a forte velocità non è altro che la gioia di sentirsi interamente fusi con la sola divinità. Gli atleti sono i primi catecumeni di questa religione».
Se il regime fascista fa propria la concezione del dinamismo marinettiano per esasperare nell'immaginario collettivo l'idea di una nazione atletica, forte e vincente è comunque nella seconda meta dell'Ottocento che prende corpo la fisionomia del binomio sport/nazione. O, ancor meglio il corpo diviene il luogo di rappresentazione plastica del vitalismo e del dinamismo della nazione. Già nel 1902 Hobson nel suo saggio sull'imperialismo scriveva che l'essenza dello sport consisteva in un arcaico istinto predatorio. «La brama animale di lotta - scriveva Hobson — [...] soprawive nel sangue, e proprio nella misura in cui una nazione o una classe conservano un margine di energia e di tempo libero dalle attività dell'industria pacifica, chiede di essere soddisfatta attraverso lo sport».
La genealogia del rapporto sport/identità nazionale non può non partire da Federico Ludovico Jahn che all'inizio dell'Ottocento elabora un modello di educazione fisica inteso ad esaltare il senso di appartenenza alla comunità nazionale. Sostenitore del primato morale della nazione, Jahn considerava il Turn, la palestra, il luogo ideale in cui il giovane non solo si addestrava agli esercizi fisici, ma si formava corne membro della comunità nazionale.
L'opera e l'eredità di Jahn, ampiamente analizzati da Mosse, divengono nel corso dell'Ottocento un modello per i movimenti ginnastici europei: da quello italiano a quello francese, dai Sokols dei paesi slavi al Maccabi delle comunità ebraiche. Anche in Italia le origini del movimento ginnastico affondano le radici nel risorgimento nazionale. L'origine e lo sviluppo dei vari sodalizi schermistici, delle società di tiro a segno, dei club alpinistici (emanazione delle società ginnastiche) è inscindibilmente legata alla epopea risorgimentale e al culto degli ideali della nazione. La lettura degli statuti e dei programmi dell'universo ginnastico italiano specifica ulteriormente il patrimonio di valori ideali e simbolici di cui si faceva portavoce : la «difesa della patria», il «miglioramento fisico e intellettuale del popolo», il «cittadino soldato» sono concetti continuamente richiamati a voler ribadire, in ultima istanza, una esperienza diretta a costituire uno dei caratteri fondamentali della costruzione della identità nazionale al pari della istruzione, della diffusione della lingua nazionale o della difesa dei costumi. «Far ginnastica e far nazione dunque» diviene dunque un imperativo categorico dell'educazione fisica ottocentesca.
Guido Verucci ha sostenuto che le idealità della educazione fisica, (idealità profondamente laiche) erano direttamente relazionabili ad una delle più diffuse ideologie di fine Ottocento : ossia a quella del self-help. E questo perché la sanità, la robustezza e il vigore fisico erano ritenuti i po-stulati imprescindibili di una pedagogia popolare diretta ad educare al «primato délia vittoria» nelle difficoltà délia vita e del lavoro. A sviluppare, in ultima analisi, la volontà, il carattere, la disciplina.
Io ho indagato la realtà di questo modello ginnastico in un contesto del tutto particolare corne quello délia Trieste di fine Ottocento e d'inizio No-vecento ancora sotto il dominio asburgico. Nella città giuliana la Società Ginnastica Triestina ha rappresentato uno dei centri e dei simboli più vitali dell'irredentismo. Una palestra non solo di esercizi fisici ma di educazione ai valori délia italianità.
Esemplati sul modello e sull'insegnamento di Jahh i movimenti ginnastici divengono, nelle singole realtà nazionali, i difensori di una ortodossia nazionale volta alla difesa della lingua, alla valorizzazione dei costumi e usi locali, alla esaltazione delle tradizioni. E questo soprattutto all'indomani della vittoria delle truppe prussiane a Sedan, nel 1870, allorché quella vittoria fu unanimemente considerata corne il frutto di un addestramento militare che aveva alla sua base la pratica ginnastica.
Anche in Italia a partire dal 1870 in Italia la questione dell'educazione fisica diviene oggetto di un intenso dibattito. Di piu', la questione del «corpo malato» dell'italiano e dunque délia sua rigenerazione diviene uno degli obiettivi primari della nation building della nuova classe diligente liberale.
Le prime visite di leva indette dal neonato stato unitario avevano in effetti denunciato un preoccupante quadro sanitario dei giovani in età militare. Fra il 1866 e il 1871 oltre il 40% dei giovani sottoposti alle visite milita-re risultava riformabile per imperfezioni fisiche.
E proprio questo dibattito conduce al varo della legge scolastica sull'obbligo ginnastico nel 1878. Nel presentare il disegno di legge in Parlamento l'allora ministro della pubblica istruzione Francesco De Sanctis sottolineava che «L'insegnamento della ginnastica sia considerato non corne un vano spasso, ma corne una istituzione nazionale, fondamento dei nostri metodi educativi [...] se dobbiamo ricuperare il posto dovuto alla nostra nazione, stata due volte capo e maestra del mondo - proseguiva De Sanctis - dobbiamo procurare che questi esercizi [...] penetrino nei costumi e diventino parte integrante delle nostre feste e delle nostre istituzioni nazionali».
Manca il tempo, e comunque altrove è stato fatto, per seguire l'evoluzione della realtà ginnastica di fine Ottocento. Ma su un punto vale la pena soffermare l'attenzione per capire corne il bagaglio culturale e ideale dell'universo ginnastico si trasferiscano, a partire dall'inizio del Novecento, nel mondo dello sport.
Allorché lo sport inizia a diffondersi in Italia, fra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento, il movimento ginnastico oppone una forte resistenza considerandolo corne un prodotto di «marca straniera» in quanto nato nella Inghilterra vittoriana.
«Veicolo dei vizi inglesi», «infezione morbosa», «insana passione» : queste le espressioni più comuni che il mondo ginnastico italiano usa nel descrivere lo sport all'inizio del secolo. Al coro si univano i maestri di ginnastica i quali deploravano il fatto che quando i giovani «giuocano al calcio, vestono, mangiano, bevono, e bestemmiano all'inglese!»
A mettere per primo in crisi la funzione pedagogica, civile e sociale della ginnastica è Angelo Mosso.,, Fisiologo di fama internazionale (nonché presidente della Società ginnastica torinese) Mosso, sostenuto da una nutrita schiera di seguaci, suggerisce, verso la fine dell'Ottocento, di accantonare il vetusto sistema della ginnastica basata sulla contrazione dei musco-li e di introdurre in sua vece una ginnastica semplice e naturale tesa alla loro distensione. Ma soprattutto Mosso sosteneva che occorreva abbandonare il chiuso delle palestre e l'uso degli attrezzi per forgiare all'aria aperta il «nuovo corpo» dell'italiano. I giochi inglesi, dal football al lawn tennis, dal canotaggio al nuoto, dai salti alla corsa, avrebbero meglio preparato i giovani alla modernità del nuovo secolo proprio perché codificati nella patria della rivoluzione industriale e quindi espressione di una «filosofia» moderna di fronte alla quale la ginnastica appariva anacronistica e legata al passato.
Consequenzialmente, argomentava Mosso, il gioco all'aria aperta avrebbe non solo forgiato corpi e caratteri in sintonia con quella modernità l'allora ministro della pubblica istruzione Francesco De Sanctis sottolineava che «L'insegnamento della ginnastica sia considerato non corne un vano spasso, ma corne una istituzione nazionale, fondamento dei nostri metodi educativi [...] se dobbiamo ricuperare il posto dovuto alla nostra nazione, stata due volte capo e maestra del mondo - proseguiva De Sanctis - dobbiamo procurare che questi esercizi [...] penetrino nei costumi e diventino parte integrante delle nostre feste e delle nostre istituzioni nazionali».
Manca il tempo, e comunque altrove è stato fatto, per seguire l'evoluzione della realtà ginnastica di fine Ottocento. Ma su un punto vale la pen-na soffermare l'attenzione per capire corne il bagaglio culturale e idéale deU'universo ginnastico si trasferiscano, a partire dall'inizio del Novecento, nel mondo dello sport.
Allorché lo sport inizia a diffondersi in Italia, fra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento, il movimento ginnastico oppone una forte resi-stenza considerandolo corne un prodotto di «marca straniera» in quanto nato nella Inghilterra vittoriana.
«Veicolo dei vizi inglesi», «infezione morbosa», «insana passione» : queste le espressioni più comuni che il mondo ginnastico italiano usa nel descrivere lo sport all'inizio del secolo. Al coro si univano i maestri di ginnastica i quali deploravano il fatto che quando i giovani «giuocano al calcio, vestono, mangiano, bevono, e bestemmiano all'inglese!»
A mettere per primo in crisi la funzione pedagogica, civile e sociale della ginnastica è Angelo Mosso.,, Fisiologo di fama internazionale (nonché presidente della Sociétà ginnastica torinese) Mosso, sostenuto da una nutrita schiera di seguaci, suggerisce, verso la fine dell'Ottocento, di accantonare il vetusto sistema della ginnastica basata sulla contrazione dei musco-li e di introdurre in sua vece una ginnastica semplice e naturale tesa alla lo-ro distensione. Ma soprattutto Mosso sosteneva che occorreva abbandonare il chiuso délie palestre e l'uso degli attrezzi per forgiare all'a-ria aperta il «nuovo corpo» dell'italiano. I giochi inglesi, dal football al lawn tennis, dal canotaggio al nuoto, dai salti alla corsa, avrebbero meglio preparato i giovani alla modernità del nuovo secolo proprio perché codificati nella patria della rivoluzione industriale e quindi espressione di una «filosofia» moderna di fronte alla quale la ginnastica appariva anacronistica e legata al passato.
Consequenzialmente, argomentava Mosso, il gioco all'aria aperta avrebbe non solo forgiato corpi e caratteri in sintonia con quella modernità che i nuovi sistemi produttivi richiedevano ma (tema caro al patriottismo risorgimentale) avrebbe preparato più adeguatamente i giovani alle moderne necessità militari e alla difesa dei confini della nazione. Del resto, secondo una battuta allora ricorrente negli ambienti ginnastici internazionali, proprio sui campi di cricket si erano formate schiere di ufficiali e soldati che avevano esteso a quasi un quarto dell'intero pianeta l'impero di sua maestà britannica.
Lo sport - nella concezione di Angelo Mosso - si configurava corne strumento di formazione di una nuova antropologia dell'italiano. Una an-tropologia certo più moderna rispetto a quella deU'universo ginnastico ma che proprio dal movimento ginnastico ne ereditava una délie componenti essenziali : quella di una educazione a sfondo nazionalistico.
Sia pure a fatica lo sport (dal foot-ball, al ciclismo, al canotaggio) sostituiva o comunque conviveva nelle società ginnastiche, a partire dall'inizio del Novecento, accanto ai vecchi esercizi ginnastici.
Certo che vale forse la pena ricordare che il movimento ginnastico sottopose gli sport inglesi ad una sorta di rivisitazione in chiave nazionalistica. Pierre Milza in un saggio di qualche anno fa ha notato che l'Italia sia l'unico paese al mondo in cui il gioco più popolare del mondo non conservi la radice linguistica délia patria d'origine. In realtà non è il fascismo che ribattezza il foot-ball col nome di calcio ma è, per l'appunto, il mondo ginnastico d'inizio secolo. E questo perché i ginnasti sostengono che il football non è nato in Inghilterra ma in Italia. Giulio Franceschi in uno dei più diffusi manuali sui giochi italiani pubblicato nelle edizioni Hoepli nel 1903, il foot-ball - codificato dagli inglesi attorno alla meta dell'Ottocento - altro non era che una semplificazione del gioco del calcio fiorentino «rimandadaci dall' lnghilterra [...] semplificazione che, probabilmente soltanto pee il nome esotico è tornata subito in voga tra noi».
Certo di fronte a quella che gli osservatori d'inizio Novecento definivano la « febbre » e l'invasione dello sport inglese non tutte le realtà nazionali reagivano allô stesso modo. Se in Italia lo sport subisce una sorta di rivisitazione tesa a rivendicare le radici nazionali di alcuni sport, negli Stati Uni-ti esiste una vera e propria dinamica del rifiuto nei confronti di alcuni giochi inglesi. Il sociologo americano Andrei Markovits analizzando la scarsa fortuna che fin dall'origine ha avuto negli Stati Uniti il football è giunto alla conclusione che il rifiuto del football - sport britannico per eccellenza -da parte degli americani sottointende la creazione di una «nuova identità»
Dunque nei giochi tradizionali è la città, il villaggio, il quartiere o una determinata realtà sociale che afferma la propria identità e la propria su-premazia. Ne puô essere altrimenti perché i giochi tradizionali hanno regole e codici riconoscibili in aree geografiche circoscritte.
Lo sport muta radicalmente questa prospettiva perché, a differenza dei giochi tradizionali, è un modello ludico universale ossia si gioca allo stesso modo (con le stesse regole, le stesse modalità, gli stessi tempi) in ogni angolo del continente. E questa sua fisionomia consente il confronto con altre realtà nazionali. Se Yagon di cui parla Caillois esprime, nei giochi tradizionali la fierezza, l'orgoglio, la supremazia del villaggio o del quartiere, lo sport trasferisce quei caratteri nei confronto fra realtà nazionali enfatiz-zando la posta in gioco, cioè la vittoria, che si carica di significati che van-no ben oltre il puro fatto agonistico.
E per capire corne lo sport enfatizzi il ruolo della identità nazionale occorre riflettere sul fatto che proprio fra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento inizia l'era dei grandi confronti internazionali.
De Coubertin, allorché nei 1896 promuove i primi Giochi Olimpici ad Atene, inaugura in realtà una manifestazione nella quale l'elemento di fon-do sarebbe diventato, a suon di medaglie, la supremazia di una nazione sull'altra attraverso la competizione.
Nei 1900 si disputa fra Inglesi e Americani la prima edizione della Coppa Davis che, da subito, assume la fisionomia di uno scontro a sfondo nazionalistico fra i tennisti del Nuovo Mondo e quelli dell'antica madrepatria.
Nei calcio il primo incontro fra due squadre nazionali (Austria e Ungheria) si disputa il 12 ottobre 1902 e nei 1904 si costituisce la FIFA (Federazione internazionale delle associazioni calcistiche). La nazionale ita-liana di calcio esordirà il 15 maggio 1910 a Milano contro la nazionale di Francia.
Ed è proprio l'era dei confronti internazionali che contribuisce ad enfatizzare il binomio sport/identità nazionale, rendendo anacronistico l'aforisma decoubertiniano secondo il quale «l'importante non è vincere ma partecipare».
Lo sport diviene, a partire dall'inizio del secolo, simbolo di una supremazia non solo fisica, ma anche morale e politica délia nazione.
Questa, in sintesi, l'evoluzione del rapporto fra sport e identità nazionale nell'età libérale. Il fascismo, corne anticipato in apertura del mio intervento, avrebbe enfatizzato il mito della nazione sportiva esasperandolo anche corne simbolo di una superiorità razziale.
Johan Huizinga nei 1939 dalle pagine di Homo ludens osservava corne poco a poco nella società moderna lo sport si fosse allontanato dalla pura sfera del gioco e avesse in definitiva perduto qualche cosa délia pura attivi-tà ludica». Osservava ancora Huizinga che nelle culture arcaiche le gare rientravano nelle feste sacrali e annotava che «questo nesso col culto è an-dato completamente perduto». Fin qui Huizinga. A voler integrare il quale si potrebbe affermare che la nuova sacralità alla quale si accompagna lo sport nell'età contemporanea è appunto quella délia nazione.

Stefano Pivato

STATO E MASSONERIA


Gioacchino Volpe

Lo Stato e le sette segrete

Relazione della Commissione
dello studio
delle riforme legislative

Non una trattazione storica, ma poche parole intro­duttive sulle società segrete in Italia, cioè, essenzial­mente, sulla massoneria. Le sue origini, del resto, salvo qualche radice filiforme, non si sprofondano affatto nei secoli. 

Cominciamo a trovarne traccia fra noi nei primi decenni del 700, al tempo e in conseguenza di quel grande rimescolamento europeo che fu la guerra di successione spagnuola e le altre guerre che seguirono fino al 1748. E veniva da fuori, come del resto, allora, molti elementi di coltura, molti stimoli o fermenti di vita intellettuale; più precisamente, veniva dall'Inghil­terra, che allora si stava affermando nel Mediterraneo e prendeva contatto con l'Italia. Quasi contemporanea­mente un'altra corrente del genere scendeva dai paesi tedeschi, con il dominio austriaco, e si allargava a Na­poli ed in Lombardia. Mentre la massoneria inglese si teneva sul terreno di un vago filosofismo, quella austriaca si avvicinava di più alla politica e poteva dare qualche motivazione e qualche incitamento al Giuseppinismo. Infine, dalla Francia, con la Rivoluzione. E Napoli che dalla fine del '600 era stato uno dei mag­giori porti di approdo delle novità straniere in Italia, diede la prima ospitalità a questa massoneria francese che aveva poi nell'illuminismo il suo fondamento filo­sofico. Essa fiorì largamente nei due decenni della con­quista francese, della Repubblica e del Regno d'Italia, specialmente dopo che, al posto del Vice-presidente Melzi, ostile alle loggie, venne Eugenio Beauharnais. La classe media, gli uffici pubblici, la magistratura, l'eser­cito si riempirono di massoni. Napoli e ancor più Mi­lano furono grandi centri massonici. E la massoneria costituì un altro vincolo fra Italia e Francia, passivo più che attivo per noi, un altro tramite di influenze politiche e intellettuali francesi su di noi. Essa accen­nava tuttavia già a decadere, nonostante l'esteriore ri­goglio. Veniva mancandole ormai la ragion d'essere, poi che i suoi elementi vitali si erano in gran parte rea­lizzati. E poi le nocque moralmente la troppa diffu­sione e la troppa prosperità, l'essere un po' diventata un « instrumentum regni » nelle mani di Napoleone e dei suoi regoli. « La massoneria si addormentò nelle braccia protettrici del primo Impero, del Regno d'Ita­lia franco-lombardo, e in una con quel regime si spense ». Così uno storico recente della associazione, Ulisse Bacci. 
Perciò dopo il 1815 la gran massa degli accoliti, le­gata da venti anni alle fortune di Francia, si sbandò col declinare di queste fortune. I massoni, salvo qual­che tentativo di resistenza degli ufficiali inscritti alle loggie, disertarono compiutamente la loggia o caddero in sonno letargico o si fecero austriacanti e servirono i nuovi padroni, considerati come restauratori dello ordine e della pace, come più veri realizzatori di quel principio monarchico che i massoni dichiaravano di aver servito in Napoleone. L'Imperatore d'Austria poi, con certe sue velleità di spregiudicata politica ecclesia­stica e con l'ambizione malamente dissimulata di allar­garsi in Italia a spese dello Stato della Chiesa, dava agli ex massoni italiani la speranza di un nuovo Giu­seppe II Molti, anche, specialmente nel sud-Italia, en­trarono nelle fila della carboneria, nata da poco: una specie di massoneria anch'essa, ma con carattere più popolare, con spirito assai meno anti-religioso e anti­chiesastico, con un contenuto più politico, quasi per il suo adattarsi alle esigenze di un paese che cominciava ormai ad avere una coscienza politica, e dei problemi politici da risolvere. Anche per questo era avversa in genere alla Francia e sottostava piuttosto a suggestioni inglesi. Pare anzi che l'Inghilterra, sempre intenta a trovare e creare nemici alla Francia e vogliosa non solo di soppiantar le influenze politiche e commerciali fran­cesi nella penisola, ma di crearsi in Sicilia anche una solida base mediterranea, favorisse a Milano e nel sud gli inizi del movimento carbonaro. Certo, fu considerata già allora la carboneria come emanazione di loggie mas­soniche inglesi; certo ancora, qualche costituzione car­bonica siciliana ammetteva come possibile la annessione dell'isola all'Inghilterra. In ogni modo, differenza no­tevole tra massoneria e carboneria, nonostante che più tardi i massoni considerassero questa e anche la maz­ziniana « Giovane Italia » come travestimenti della mas­soneria, imposti dalla tirannide, salvo poi nella libera Italia riapparir essa con i suoi genuini lineamenti. 

In realtà la massoneria fu assente dal Risorgimento. Disertori della causa nazionale, chiamò Mazzini i mas­soni. Quei titoli di benemerenza che oggi l'associazione rivendica sono fittizi. Ed appare dagli stessi documenti che storici massoni come il Bacci hanno pubblicato. Appare da tanti processi politici che si svolsero fra il 1821 e il 1858: rarissimamente la massoneria vi com­pare. Vi furono tra i patriotti dei massoni, ma non operavano come tali: tanto che Garibaldi, ad esempio, inscrittosi nel 1844 in una loggia di Montevideo, 4 anni dopo offriva a Pio IX la sua spada. Se mai, a Risorgi­mento compiuto, cominciarono a sentirsi massoni e ad apparire ed operare come tali. Altri, e forse i più, si inscrissero dopo il 1860. Tutt'altro spirito animava il Risorgimento ed i suoi uomini più rappresentativi. A parte che la massoneria non aveva un contenuto poli­tico vero e proprio. Ma essa era cosmopolita e umani­taria; era pacifista, anzi tradizionalmente e program­maticamente attaccata ad una blanda tattica avvolgente e penetrante; era antireligiosa e specificatamente anti­cattolica. Il Risorgimento fu invece un fatto nazionale e, qua e la, quasi nazionalista, con talune forti reazioni contro l'astratto umanitarismo; fu combattivo e guer­riero e a volte esaltò la guerra e lo spirito militare in se stessi; celebrò il sacrificio, e la sua virtù rigenera­trice degli Italiani infiacchiti, anche se momentaneamen­te sterile di risultati visibili: fu religioso e quasi sempre cattolico, anzi tenne al cattolicismo come ad un mezzo di unità spirituale e di conservazione della personalità morale del popolo italiano. Esso fu anche, specialmente dopo il 1831, avverso alle sette in modo esplicito, com­batté i loro metodi, rilevò la loro inutilità per un verso, il guasto profondo che generavano per l'altro. Tutti ri­cordano il quadro che Pietro Colletta, Ministro della Guerra dopo la rivoluzione di Napoli del 1820, fece del­l'esercito napoletano permeato dalla carboneria e disci­plinarmente corrotto. Ma anche fuori della milizia, si vedeva nelle sette segrete altrettanti Stati nello Stato, una fonte di corruzione del carattere, un sostanziale di­spotismo sotto veste di libertà. Parecchi dopo entrativi, ne uscirono tediati e sdegnati per il ridicolo cerimonia­le, per il nullismo di quelle congreghe, per lo spirito ge­suitico che vi regnava, per la cura più degli interessi privati che dei pubblici. Nel migliore dei casi, si consi­derarono sette e società segrete come un male neces­sario, frutto del dispotismo, destinato a scomparire con l'avvento di più liberi tempi. Arma legittima dove non è patria e libertà, pensava e scriveva Mazzini, esse pos­sono essere sciolte dalla nazione che abbia conquistato la sua patria e la sua libertà. Se l'associazione, aggiun­geva, deve realizzare un più alto progresso, deve sotto­mettersi al giudizio di tutti. 

Accenna la massoneria a risorgere poco prima del '60. A Napoli ciò avviene in connessione con certa pro­paganda che allora si fece a favore del Principe Murat, gran maestro della massoneria francese. Anche questa volta, la luce veniva... dall'occidente, e la massoneria serviva, consapevole o no, ai fini della politica francese in Italia. Fra il 1860 e il 1870, quando la questione ro­mana diventò il problema centrale della vita italiana, si ebbero altri progressi massonici. Non che la massoneria italiana, come tale tenesse molto a Roma italiana. Essa

combatteva il Papa. Il Papa assai più che il Papa-Re. Dichiarava, per bocca di un suo gran maestro assai amico di Napoleone III, che essa non voleva far politica, discussione o azione che fosse, ma combattere i pregiu­dizi e la superstizione. Tanto, trono più trono meno sul­la faccia della terra, importava poco... Ma l'Italia, con la sua passione per Roma, con i suoi sentimenti e ri­sentimenti contro il temporalismo della Santa Sede, for­niva un buon terreno da coltivare alla massoneria, e così i vecchi fratelli si svegliarono dal letargo, si chia­marono di lontano, si cercarono, si ritrovarono, tolsero dagli scaffali i rituali e i simboli polverosi. La propa­ganda si fece più viva. Le nuove reclute affuirono. Ac­cennarono a rivivere le loggie e molte nuove se ne co­stituirono. Cominciò anzi la ressa alle porte e l'intrufo­larsi dentro di tanta gente che dalla massoneria sperava un qualche vantaggio, oppure era legata a consorterie e interessi che cercavano conquistare l'istituzione ai propri fini. D'onde i gridi d'allarme che subito si udi­rono, da parte degli altri che temevano di essere som­mersi dalla torbida ondata e ponevano l'aut-aut: o epu­rarsi o scomparire. I documenti pubblicati dal Bacci par­lano chiaro in proposito. Essi accennano anche a « grup­pi di cosidetti massoni che obbedivano ad ispirazioni di estere potenze »; e non è difficile trovare quali fossero queste « estere potenze ». Aggiungi discordie, baruffe tra fratelli, per questioni di riti, di alti gradi, di preminen­ze, per rivalità personali e regionali, per spirito campa­nilistico che procedeva a braccetto con lo spirito uni­versalistico. Vi furono invettive, bandi e scomuniche co­me entro una chiesa in stato di scisma!

Ma poi, attorno al 1880, la macchina cominciò a fun­zionare più regolarmente ed a marciare con passo rapi­do. Si lusingò e adescò l'elemento intellettuale che rispose con molta larghezza: professori, avvocati, magistrati, impiegati, anche uomini d'affari, cioè commercianti, for­nitori, commessi viaggiatori, ecc. Bisogna tener presente quella fase della vita italiana, con la sua folla di gente nuova dalla mezza coltura, intenta a trovarsi la sua strada; col suo positivismo filosofico e la sua mentalità al quanto semplicistica; con alcune grandi divinità im­poverite di contenuto e abbassate a idoli o feticci; ot­timo terreno di caccia per la massoneria. Vi era poi molta gente delusa e tediata di questa nuova Italia così diversa, com'è naturale, da quella sognata. E la masso­neria ne trasse adepti. Non pochi repubblicani o inclini a democrazia radicale o credenti nel Dio « Progresso » sperarono, ad esempio, trovar in essa un punto d'appog­gio per instaurare la repubblica o far trionfare in terra « Giustizia e Libertà ».


Diffuso lo spirito anticlericale, nel senso più negativo •della parola, in cui si rispecchiava l'assenza di filosofia e l'assenza o decadenza di altri più sostanziosi e positivi ideali. E anche di questo la massoneria si avvantaggiò, prendendone stimolo ad esasperare il suo vecchio anti­clericalismo e farne la sua ragion d'essere. Si venivano lentamente creando, sotto il conflitto ufficiale, le condi­zioni — almeno pel futuro — di più pacifica convivenza tra le due podestà, e viceversa la massoneria affilava tut­te le sue armi, quasi temesse quell'evento, quasi suo com­pito fosse non tanto combattere i nemici esistenti e rea­li, quanto suscitarli e immaginarli. Di che cosa, altri­menti, essa avrebbe vissuto? Tutto ciò voleva dire, nel campo politico, anche più netta determinazione del vec­chio orientamento francofilo e rinfocolata austrofobia. Quindi alle loggie guardò con fiducia anche l'irredenti­smo italiano che allora si veniva formando, e dalle log­gie venne all'irredentismo, qualche aiuto: per esempio, quando sorse la Dante Alighieri, che mirava, essenzial­mente, alla italianità di Trento e Trieste. Ma la Dante Alighieri dovè poi subire una larga infiltrazione masso­nica che vi determinò vivi contrasti interni e parve in un certo momento metterne in pericolo l'esistenza. 

Si voleva dai massoni dominare anche questo come tutti i gangli e centri nervosi della società italiana. An­che l'esercito. E verso l'esercito cominciò, alla fine del secolo scorso, il meditato e metodico lavoro di penetra­zione. Era un po' la cittadella da conquistare, dopo aver smantellato molte opere accessorie. Correvano gli anni di maggior annullamento dello spirito militare del paese. Diffuso pacifismo, propaganda socialista e antimilitari­sta, mito delle « spese improduttive », sconfitte africane che fornirono ai bardi della democrazia, a molta parte della borghesia moderata, al presuntuoso semplicismo di qualche sociologo, una miniera senza fondo di luoghi comuni. Attorno all'esercito era il vuoto. Gli si lesinava il pane e, ancor più, il credito e la fiducia. Ciò spiega quella certa fortuna che la propaganda massonica vi ebbe. Le leggi potevano servire a togliere l'ufficiale dal­l'isolamento e dargli qualche aiuto nella grama e con­trastata carriera. Lo stesso aiuto, del resto, vi sperava l'impiegato, il giudice, il professore, tutta la vasta e cre­scente famiglia burocratica, assillata e agitata dalla po­vertà, dalle angustie della carriera, dalla idea fissa che tutto, in alto, fosse favoritismo e protezione, dalla osti­lità e sfiducia verso lo Stato, anzi dallo spirito di rivolta che anche lì cominciava a serpeggiare. La famiglia bu­rocratica assai si lasciò permeare dalla massoneria: vale a dire si legò ad una legge e ad una disciplina che pote­vano coincidere e potevano anche non coincidere con la legge e la disciplina dello Stato. Non tanto si trattava, per i più, di ideali da servire, quanto di bisogni pratici o ambizioni personali da soddisfare. Ciò che spiega co­me ugualmente, col regime di libertà, col suffragio po­litico che si allargava, col Parlamento che diveniva sem­pre più il centro costituzionale del paese, con i giornali che si moltiplicavano, le sètte segrete, anziché disfarsi come nebbia al sole secondo le previsioni e i desideri degli Italiani del Risorgimento, crescevano. 

Si trattava ora di una sètta unica, ma ormai poten­tissima. Aveva accumulato, pur senza personalità giuri­dica e capacità di possesso, un ricco tesoro di guerra. Aveva portato in Roma il suo quartiere generale e mu­tato in un magnifico palazzo la stamberga dei primi tempi. Faceva sentire largamente le sue influenze, e mol­te leve di comando della vita italiana e dello Stato ita­liano erano nelle sue mani. Essa vigilava specialmente, con occhi d'Argo, la politica ecclesiastica, e più di un ministro o Presidente del Consiglio dovè subire in un certo momento il richiamo dei Gran maestri al dovere massonico. Qualcuno di essi sentì pioversi addosso an­che la scomunica, quando volle bonariamente dichiara­re in pubblico che, insomma, non era più il caso di agi­tare lo spauracchio temporalistico, perché non c'era più italiano che non volesse l'unità della patria con Roma capitale. E tutto questo nel mistero. Il quale se poteva indurre molti ad esagerare la forza delle loggie e vedere massoneria da per tutto, come da per tutto in altri tem­pi si eran visti gesuiti o giacobini, accresceva poi effet­tivamente quella forza; con relative malefiche ripercus­sioni nell'ordine morale, nella disciplina delle pubbliche gerarchie, ecc. Al segreto si voleva da taluno rinunciare, al tempo di Nathan gran maestro. Si rilevava anzi, dal Nathan stesso, come ormai gli atti, i fini, i riti della massoneria fossero di dominio pubblico. E ciò in parte era vero. Ma il segreto sulle persone veniva gelosamen- 

te custodito e non si aveva nessuna voglia di svelarlo. Lì era la forza dell'associazione, ma lì, anche, il pericolo e il danno. 
Si ebbe perciò una reazione, che coincide con quei vari e in apparenza contraddittorii conati di rinnova­mento della vita italiana che si fanno visibili attorno al 1900. Vi era stata, avanti tutto, la reazione del socia­lismo che aveva combattuto nella Massoneria l'umanita­rismo, la democrazia parolaia, addormentatrice, piatta­mente borghese, francefila. Ora, a mano a mano che an­che il grosso del socialismo si apriva alle influenze mas­soniche e si lasciava conquistare, reazioni di ristretti gruppi di socialisti realizzatori, di socialisti rivoluziona­ri e sindacalisti, di educatori, di filosofi idealisti, di gio­vani liberali, di democratici cristiani, di pattuglie inno­vatrici e futuristiche nei campi morale-artistico-politico, di nazionalisti. È l'epoca del riformismo, del collabora­zionismo, dei blocchi, ecc., avversati dalle correnti più schiettamente liberali e nazionali. È anche l'epoca che i cattolici abbandonavano le loro pregiudiziali contro lo Stato italiano ed entravano nella vita pubblica, trovan­dovi non più solo diffidenza e ostilità, ma anche consen­si di varia natura. Anche in ordine alla massoneria. Alla quale si fece il processo su tutta la linea, dal punto di vista filosofico e culturale, politico e morale. Sì vide in essa una sopravvivenza di illuminismo settecentesco, an­che se poi era assai dubbio che una qualsiasi filosofia fosse a base dell'azione massonica; si vide in essa una sorgente di cattivi abiti mentali, di confusionismo nelle idee politiche e nei partiti, di degenerazione della vita pubblica; si vide in essa personificato l'intrigo e la ca­morra e il mutuo soccorso illecito. Specialmente il na­zionalismo attaccò a fondo e quasi rappresentò Tanti-massoneria, cioè lo spirito antagonistico contro il pacifìsmo, la nazione contro l'internazionalismo e l'umanita­rismo, lo Stato forte contro ogni fermento di dissolu­zione, la tradizione religiosa del popolo italiano contro l'anticlericalismo e certo tendenziale protestantismo massonico. 

Alla vigilia della guerra, cioè nel 1912-1914, la cam­pagna fu veemente. Le fornirono materia assai delicata certi atteggiamenti della stampa notoriamente massoni­ca durante la spedizione di Libia, assai male accetta alla massoneria italiana e internazionale, dati ì suoi legami con la Giovane Turchia; qualche perturbatrice influenza massonica che si intravide in funzione negli alti gradi dell'esercito; in ultimo le dimissioni dalla massoneria di un valoroso generale, Gustavo Fara, che, irretito nelle spire della associazione, trovò a un certo momento la forza di ribellarsi e liberarsene. L'attenzione pubblica si concentrò allora specialmente sul problema della mas­soneria fra i pubblici funzionari, e in particolar modo, nell'esercito e nella marina. La intossicazione massonica apparve in questo campo di una particolare gravità. Non che il male fosse proprio molto esteso. Ma certo aveva attaccato l'organismo. La marina, forse, più dell'esercito. Comunque, l'appartenenza alla setta creava scissioni là dove doveva essere perfetta e fraterna unità soldatesca, creava vincoli di opportunistica solidarietà, là dove era necessaria netta distinzione fra superiori e inferiori; so­vrapponeva e contrapponeva una gerarchia massonica ad una gerarchia militare, una gerarchia occulta ad una gerarchia palese; costituiva una violazione del regola­mento di disciplina che vietava agli ufficiali di entrare in società segrete ed affermava per essi l'obbligo di ri­nunciare a certi diritti e libertà proprie, per meglio ga­rantirne l'esercizio a tutti gli altri cittadini; sottraeva al necessario controllo dei superiori una parte della attività dell'ufficiale; minava alla base quello spirito di militare franchezza e lealtà che nel soldato è virtù essen-zialissima. L' Idea Nazionale pubblicò su tutto questo una serie di articoli. Si occuparono del problema, con­sentendo nella critica e nell'allarme, anche altri giorna­li, tra cui il Corriere della Sera e la Tribuna. Si invoca­rono parole chiare dai ministri della Guerra e della Ma­rina. Vi furono interrogazioni e mozioni alla Camera ed al Senato da parte di chi voleva sentire confermata o negata, in nome della disciplina o della libertà, la in­compatibilità tra ufficiale e massone. Venne dal banco del Ministro la parola attesa, e fu, da parte di Spingardi, parola di ammonimento paterno ai giovani ufficiali che potessero essere tentati di legarsi a società segrete in vi­sta di più rapida carriera. Ma essa non parve sufficiente­mente netta ed esplicita. Il Ministro dichiarava di igno­rare che cosa fosse la massoneria. Meglio parvero rispon­dere le dichiarazioni del ministro Mirabello, in seguito ad interrogazione dell'oli. Giacomo Ferri. Disse fra l'altro, che alle agitazioni dei sottufficiali di marina e alla dimo­strazione della Spezia, avvenuta tempo prima, non era stata estranea qualche loggia di quella città. Infine, una mozione firmata da una cinquantina di deputati affermò « pregiudizievole allo Stato e incompatibile coi doveri militari » che ufficiali entrassero nella massoneria e in consimili sette. La discussione parlamentare investì an­che i magistrati per i quali, pure, si affermava da taluni la incompatibilità col vincolo massonico. Ma per i ma­gistrati, dichiarò il sottosegretario di Grazia e Giustizia on. Gallini, nessun divieto vige nelle leggi e nei regola­menti. Militari e magistrati, confermò l'on. Giolitti, sono cosa diversa. Donde una mozione Chiesa, Treves, Co-mandini, Cappa, Samoggia, Campanozzi, Gaudenzi, ecc., del 13 giugno 1913, la quale, constatato un contrasto stridente nelle dichiarazioni circa gli ufficiali ed i ma­gistrati, considerato tale contrasto come effetto di cor­renti diverse e discordi entro la compagine ministe­riale e di incapacità dei ministri radicali a far valere le loro idee, mentre urgeva omogeneità e decisione di uomini per fronteggiare i clericali ed attuare una « po­litica di resistente libertà di fronte all'azione del par­tito clericale », concludeva nella sfiducia al Governo. 

Fra tanto le colonne dell'« Idea Nazionale » accoglie­vano un referendum intorno ad alcuni quesiti posti da quel giornale su la rispondenza o meno della massone­ria alle condizioni della vita pubblica moderna ed alle tendenze del pensiero contemporaneo, sul danno o be­neficio che la sua azione occulta o palese poteva aver specialmente sull'esercito, la magistratura, la scuola. Ol­tre un centinaio di scrittori, pubblicisti, uomini politi­ci, risposero. Naturalmente mancò la voce degli amici e parlarono solo gli avversari o estranei alla massoneria, anche se transfughi da essa. Ma questo stesso silenzio era assai significativo ed accresceva valore al giudizio degli altri, che poi erano uomini come Croce e Varisco, Tamassia ed Amendola, Benini e Catellani, Donadoni, Galletti, De Viti, De Marco, Einaudi, Mosca, Venezian, D'Ancona, Calò, Sergi, Ricchieri, Roiti, Bonomi, Porro, Raina, Cavaglieri, Perozzi, Giacosa, Bonfante, Filomusi, Guelfi, Vittorio Rossi, Arcari, Solmi, Maroni, Borghese, D'Ovidio, Villari, ecc. ecc. In generale, condanna aperta della massoneria e di ogni setta segreta, con frequente richiamo alle particolari ed eccezionali circostanze che ne giustificavano l'esistenza nel Risorgimento e non più nell'epoca moderna e nell'Italia d'oggi. Particolare av­versione per la massoneria nell'esercito, nella magistra­tura, nella scuola. Taluno trovava attenuanti: non la so­la massoneria ci irretisce, ma ci irretiscono tante forze

più o meno occulte, colossali raggruppamenti partico­laristici, mille privilegi politici, economici, doganali. Qualche altro trovava perfettamente naturale che in re­gime di largo suffragio, il quale presuppone una orga­nizzazione di minoranze intelligenti, fosse sorta, man­cando quella palese, una organizzazione segreta. E se ne concludeva o con la inutilità di una lotta, o col dan­no che poteva venire dal concentrarla contro la masso­neria solamente. Ma che questa fosse un ferro vecchio, che intaccasse molti delicati congegni, che contravvenis­se al nostro grande bisogno di disciplina che non può essere se non unica e assoluta, che minasse il senso del­la responsabilità, che perturbasse lo spirito pubblico, nes­sun dubbio, da parte di nessuno. Molti anzi invocavano un'energica azione di difesa. Possiamo considerare que­sto « referendum » come una chiara e larga manifesta­zione antimassonica del paese prima della guerra eu­ropea. 

La quale arrestò il movimento che era in sul cresce­re. La massoneria aderì all'interventismo, anzi lo capeg­giò. E se ciò tenne indietro, esitanti o restii, gran parte dei cattolici, fece tacere la campagna nazionalista. Ai massoni nessuno chiese perché e per chi, veramente, in­vocavano la guerra, anche se tutti constatarono il loro veemente riscaldarsi per « la libertà e la giustizia », nonché per il paese che ne aveva, in terra ,la rappresen­tanza e il monopolio. Ma durante e dopo la guerra non sono mancati saggi eloquenti dell'intrinseca natura del­l'interventismo massonico; e quali fini si proponesse e a quali parole di ordine obbedisse, e quali ostacoli, in certi casi esso possa costituire alla libertà d'azione in­ternazionale dello Stato italiano. Male che la massone­ria sia una associazione di mutuo soccorso, ma peggio ancora che sia un'associazione orientata in certo determinato senso politico e che tenda ai suoi fini per vie occulte. Quanto si è esposto sin qui, circa i precedenti sto­rici delle sette segrete e, in modo speciale, della mas­soneria, in Italia, e circa lo stato dell'opinione pubblica italiana nei riguardi della setta massonica, nel momen­to in cui si iniziò, con lo scoppio della guerra europea, il grande periodo storico, di cui è il necessario prodotto il moto di rinascita e di restaurazione della coscienza nazionale onde è sgorgato il Fascismo, dimostra che il problema relativo ai rapporti fra lo Stato e le sette se­grete non è un problema nuovo, sorto ora per la prima volta e per la arbitraria volontà del Partito e del Go­verno Fascista, ma è un problema già antico nella co­scienza della Nazione. Che le sette segrete costituiscano per lo Stato moderno, in genere, e particolarmente per lo Stato italiano, un pericolo, era già stato, come si è visto, avvertito — se non dalla massa, e neppure dalla classe parlamentare dominante nel periodo prebellico — dai moti più profondi della coscienza nazionale avviantesi alla rinascita. E già sin d'allora gli antesignani e gli interpreti più animosi e vigili di quella coscienza ave­vano gridato allarme. Il problema era già, sin d'allora, in altri termini, maturo. Ma lo Stato democratico e libe­rale dell'anteguerra non era e non poteva essere pronto a risolverlo; anzi non era neppure disposto, nei suoi organi dirigenti, a sentirne la gravità ed urgenza. Nulla di più naturale, quindi, che l'allarme sia stato dato invano.

Il problema risorge, ora, nella nuova Italia ritem­prata dalla guerra e dalla vittoria; ma risorge di fronte ad uno Stato, che non è più lo Stato democratico, ma è veramente, o si avvia ad essere, quale la guerra e la vittoria lo foggiarono nella coscienza del cittadino, lo Stato Nazionale. E chiede ora di essere risolto, ad uno Stato che ha in sé la volontà e la forza di risolverlo, per­ché ha in sé la volontà e la forza di difendersi dai suoi nemici. Tali sono infatti, come la storia insegna, e come la coscienza nazionale intuì sempre, dovunque essa fos­se in atto presente, le sette segrete. 

Non vi è dubbio che la difesa dello Stato nazionale contro l'azione delle sette segrete importa, innanzi tut­to, la difesa dello Stato nazionale contro l'azione della massoneria. Ma ciò non esclude che il problema possa e debba porsi da un punto di vista più generale. Giacché le associazioni massoniche non sono certo le uniche for­me di società segrete possibili. Ora, qualsiasi specie di società segreta, anche se, ipotesi, il fine ne sia etica­mente e giuridicamente lecito, è da ritenersi, pel fatto stesso della segretezza, incompatibile con la sovranità dello Stato e con la uguale libertà dei cittadini di fronte alla legge e incompatibile specialmente con la sovranità dello Stato nazionale moderno. 

1) La massoneria rappresenta la sopravvivenza, nel­la nazione italiana ritornata, nella indipendenza e nella unità, signora di sé e dei suoi destini, di una mentalità importata dallo straniero e intrinsecamente antinaziona­le, perché intrinsecamente individualista, democratica, antistorica, nel senso più meccanico e atomistico del termine; rappresenta cioè un formidabile ostacolo al for­marsi di quella salda e coerente coscienza nazionale, che è purtroppo tuttora il privilegio o il desiderio di una minoranza di italiani, e deve diventare, perché l'Italia si avvii veramente a un avvenire di potenza, patrimonio comune di tutti. La mentalità della massoneria italiana è fondamentalmente una mentalità francese; ma, si ag­giunga, una mentalità francese, che è ormai da qualche decennio superata o corretta, nella stessa Francia, dal­l'avvento di altre correnti spirituali e politiche, di cui la mezza o la falsa coltura massonica non ha neppure sospetto, per una organica ingenuità, ma non è per que­sto meno pericolosa. Essa è prezioso strumento di pene­trazione e di dominio presso gli altri popoli, che hanno sempre offerto alla politica francese le teorie internazio­nalistiche, pacifiste, egualitarie, umanitaristiche, che i massoni italiani continuano a prendere sul serio, e con­tinuano sul serio a volere applicare, anche se l'appli­cazione ridondi a danno dell'Italia. Senza accorgersi che i massoni stranieri, resi più avveduti da una secolare tradizione di coscienza nazionale nella valutazione degli interessi delle rispettive nazioni, si sono sempre guardati dal dedurne o dal pretenderne applicazioni contrarie ai diritti o alle aspirazioni del proprio paese. 

2) La massoneria è un istituto che è, e pretende di essere, quasi in antitesi alia Chiesa cattolica, universale e perciò internazionale, di cui le singole massonerie na­zionali sono organi o partiti. Ciò aggrava il pericolo insito nella sudditanza mentale della massoneria italiana verso teorie foggiate dagli stranieri rendendo facile alle massonerie straniere farsi ispiratrici della massoneria italiana per perseguire scopi estranei o antitetici agli scopi della nazione italiana. Basta addurre a prova di ciò le rinuncie adriatiche a cui si sono lasciati trascinare i massoni italiani nei convegni massonici del periodo post­bellico. Ma una anche più deleteria conseguenza dell'es­sere la massoneria italiana intimamente legata e spiri­tualmente subordinata alle massonerie d'altri paesi, è che essa apre facile adito alle intromissioni di governi e di partiti stranieri nella politica interna nazionale. Tanto più grave è questo pericolo, in quanto è purtroppo vecchia e sciagurata consuetudine italiana, ed è davvero la più tur­pe eredità dei secoli di servaggio, quella per cui la intro­missione straniera è talora cercata o incoraggiata da ita­liani che non si vergognano di mendicare all'esterno aiuti o consensi contro il governo della Patria. 

3) La massoneria, obbligando i propri adepti al si­lenzio anche a costo di mentire, contribuisce a corrom­pere e a falsare il carattere degli Italiani, per sua natura disposto a franchezza e a sincerità. La consuetudine del­la menzogna, della dissimulazione, del mistero, sono, co­me è noto, una delle più deplorevoli conseguenze delle sette segrete; ed è ben triste privilegio massonico quel­lo di insistere, in regime di libertà nazionale e politica, a perpetuarne gli effetti. I quali sono particolarmente perniciosi sul costume politico del popolo italiano, alla cui innata e organica sanità unicamente si deve se non ne derivano jatture maggiori di quelle che pure è d'uopo constatare, per volerne guarire. Tutti i partiti politici nazionali ne sono più o meno inquinati o avvelenati. La lotta politica in Italia non potrà svolgersi con piena sin­cerità e genuinità di atteggiamenti e di rapporti, sino a che sarà possibile ad una setta insinuarsi in ciascuno, sotto mentite spoglie, per asservirne a interessi o a fina­lità ignote o inconfessabili il programma, per deviarne lo spirito, per controllarne o carpirne le deliberazioni, per tradirli, infine, tutti; sino a che, insomma, ciascun partito potrà temere o sospettare, e troppo spesso non invano, di avere, senza saperlo, il nemico nelle proprie fila. 

4) La massoneria, che dopo la soluzione della que­stione romana e la totale unificazione della patria non ha più nessun pretesto — come poteva averlo fra il '60 e il 70 e, nelle provincie redente dalla vittoria, nel pe­riodo anteriore all'ultima guerra — per annunciarsi in­terprete degli interessi nazionali, è costretta da qualche decennio a restringere le manifestazioni pubbliche o uf­ficiali della propria attività, e ad impegnare quindi l'at­tività dei propri aderenti, ad una politica di gretto e fazioso e antiquato anticlericalismo, da più lati danno­so alla vita nazionale; sia per l'ostacolo che frappone al graduale e pacifico risolversi del dissidio fra l'Italia e il Papato, e pei pretesti che offre alle resistenze e alle reazioni dell'intransigenza gesuitica e ultramontana; sia per la diffidenza o il sospetto verso lo Stato italiano che desta e mantiene artificiosamente nella coscienza di molti cattolici, cui soltanto l'avversione per la masso­neria e il timore di un suo eventuale predominio sul go­verno del paese trattengono dall'assoluta incondizionata adesione alla politica nazionale; sia, infine, per la pro­paganda di volgare irreligiosità e di presuntuoso e astrat­to razionalismo che con enorme danno per l'anima po­polare va compiendo tra i ceti meno preparati a resi­sterle della borghesia e del popolo. 

5) Ma questo tradizionale atteggiamento anticlericale è troppo spesso solo un orpello esteriore che neppu­re tutti gli iscritti alla setta prendono sul serio, di cui molti tra essi non si occupano, lasciandone la cura e la responsabilità ai dirigenti, e dietro cui si cela una assai diversa e assai meno confessabile attività, che ben più dell'altra, ufficiale o politica, interessa la maggior parte degli iscritti. Ad essa sappiamo che la massoneria deve sopratutto, specialmente dopo l'80, l'accorrere di sem­pre nuove reclute fra i suoi ranghi. Si allude alla atti­vità, per cui la massoneria si risolve troppo spesso in una specie di organizzazione camorristica a difesa di interessi puramente privati. Di questa attività, di cui sono troppi gli indizi per poterla mettere in dubbio, an­che se talora si tende a esagerarne la portata, è inqui­nata in tutti i suoi rami l'amministrazione centrale e locale, dello Stato e dei comuni. Essa si insinua negli organi più delicati della vita nazionale, e fa leva del­l'alta Banca, in buona parte asservita a elementi masso­nici; la sua arma precipua è il segreto, che avvilisce le coscienze, le piega a una disciplina cui non è possibile ribellarsi senza tradire la setta, le obbliga ad una soli­darietà interna che annulla o supera ogni altro dovere di lealtà e di giustizia, e che assicura a chi se ne giovi l'impunità. 

È così che la massoneria è riuscita a infiltrare la pre­senza di propri membri in tutti gli uffici dello Stato e degli enti autarchici, e perfino nella magistratura e nel­l'esercito, e a sovvertire con la propria segreta e inaffer­rabile ma pur potentissima e inesorabile gerarchia, la pubblica gerarchia civile e militare. Il che, ove si pensi alle caratteristiche finora denunciate dell'organizzazione massonica, e ai suoi legami con le massonerie straniere, è, specialmente nei riguardi della magistratura e del­l'esercito, di una tale gravità, che può parere perfino in­verosimile — se non fosse purtroppo vero — che lo Stato l'abbia sinora sopportato, limitandosi a fingere di ignorarlo. Che se ciò nonostante, così la magistratura che l'esercito si sono sempre nel loro complesso man­tenuti all'altezza dei compiti loro assegnati ai fini del­la nazione, ciò costituisce un altissimo titolo di merito della grande maggioranza dei magistrati e degli ufficiali italiani, la cui fondamentale onestà e lealtà ha saputo vittoriosamente resistere all'azione disgregatrice di così potente veleno; ma non autorizza a dissimularsi la en­tità del pericolo e la necessità di correre ai ripari. Per tutti questi motivi, la Commissione non esita a riconoscere nella lotta contro la massoneria uno degli atti preliminarmente necessari di ogni politica diretta a risanare gli organi della vita nazionale e a purgare dei germi perniciosi di avvelenamento la coscienza del po­polo italiano. 

Nella formula stessa, con cui è stato presentato il quesito sul quale essa è chiamata a dire il suo avviso, sembra alla Commissione di scorgere già il riconosci­mento, in cui essa pienamente concorda, della inoppor­tunità di affrontare la lotta facendo la massoneria, co­me tale, oggetto di una legislazione repressiva singo­lare. Distruggere la massoneria, sciogliendola, e vietan­do ai singoli di appartenervi, e perciò dichiarando reato il farne parte, sarebbe certo un rimedio radicale, se fosse possibile. Ma, in realtà esso è impossibile, sia ma­terialmente (perché equivarrebbe a circondare la mas­soneria di un'aureola di martirio o a costringerla ad agire anche più in segreto, di quanto ora non faccia), sia giuridicamente, per l'impossibilità di vietare a priori — senza violare veramente, in ciò che vi ha in essa di inviolabile ai fini stessi dello Stato nazionale, la libertà di pensiero, di parola, di associazione — la professione delle teorie o delle dottrine massoniche e il diritto di associarsi ai fini di esse. 
Ma la massoneria offre nell'arma stessa, di cui essa si serve per la propria opera malefica, il mezzo per co­stringerla a sottostare alla legge comune. Questa arma è il segreto; e può esserle spuntata nelle sue stesse mani. Il segreto non può più essere dallo Stato nazionale tol­lerato, né nell'organizzazione massonica né in alcun'al-tra forma di società segreta. Lo Stato non ha motivo di vietare a priori l'esistenza di una associazione che prenda nome dalla massoneria, ma ha il diritto e il dovere di vietare che essa sia comunque segreta. Non il fatto di essere iscritto alla massoneria può quindi esser te­nuto come un reato; ma il fatto di volerlo nascondere. 

La commissione crede perciò non potersi escogitare rimedio migliore contro i pericoli e le insidie della mas­soneria, sia essa una associazione, un ente o un istituto, che l'obbligo imposto per legge ai direttori, capi e am­ministratori di tutte le associazioni, enti ed istituti, che comunque esistano o siano per esistere — sotto minac­cia dello scioglimento e di gravi sanzioni penali e pe­cuniarie, tali da impegnarne solidalmente la responsa­bilità — di denunciare fedelmente e integralmente alle autorità di pubblica sicurezza l'elenco nominativo dei soci, le cariche sociali, la costituzione interna, lo statuto, e qualsiasi altra notizia di cui vengano richiesti: nonché l'obbligo imposto ai singoli soci con gravi sanzioni tra cui la sospensione temporanea dai diritti politici, di non celare al pubblico ufficiale nell'esercizio delle sue fun­zioni, e di non dissimulare, la propria appartenenza a dette associazioni, enti ed istituti. 

Il rimedio proposto dalla Commissione non è senza qualche precedente nella legislazione di altri stati rela­tiva alle associazioni. Giova ricordare qui le norme san­cite nella legge tedesca del 19 aprile 1908 sulle associa­zioni. L'art. 3 di questa legge dispone che « ogni asso­ciazione che si proponga di esercitare una influenza su gli affari pubblici (tra cui non v'ha dubbio doversi ascri­vere la massoneria) deve avere un comitato e degli sta­tuti. Il Comitato è tenuto a rimettere, nelle due setti­mane che seguono alla fondazione dell'associazione, gli statuti e la lista dei membri del comitato alla autorità di polizia competente secondo il territorio e così ogni successiva modificazione ». Le sanzioni a carico dei mem­bri del comitato sono stabilite nell'art. 18. Nell'art. 22 si aggiunge che « il comitato deve ad ogni richiesta del tribunale rimettergli un certificato attestante il numero dei membri dell'associazione ». 

Come è facile vedere, il sistema adottato dalla legge tedesca nel 1908 non è in tutto analogo a quello pro­posto dalla Commissione, in quanto non contempla l'ob­bligo di render noto, oltre la lista dei dirigenti e il nu­mero dei soci, anche il nome e la professione di questi, e non presuppone alcun dovere dei soci di denunciare la propria qualità. Ma la commissione ritiene che senza estendere l'obbligo della pubblicità anche al nome dei soci, e senza impegnare anche la responsabilità indivi­duale di questi, il proposito, che ha evidentemente ispi­rato anche il legislatore tedesco, di impedire le società segrete, rimarrebbe lettera morta, e sopratutto rimar­rebbero intatte le più tristi conseguenze morali e poli­tiche dell'organizzazione massonica. 

Ma la Commissione ritiene di dover fare un passo ul­teriore e di particolare importanza. Se l'appartenenza dei cittadini privati alla massoneria, come a qualsiasi al­tra società che non si proponga fini delittuosi, può es­sere dallo Stato, purché nota e confessata, ritenuta leci­ta, salvo il controllo della pubblica opinione o la vigilan­za che l'autorità è tenuta ad esercitare su ogni forma di attività pubblica, vi sono cittadini cui lo Stato non può assolutamente permettere, senza abdicare a sé stesso, di appartenere a organizzazioni di tipo massonico, anche se non più segrete, ma ormai pubbliche: e sono i cittadini, che siano impiegati o funzionari pubblici, civili e milita­ri, così dello Stato che degli enti locali. La assoluta im-compatibilità tra la qualità di massone e quella di impie­gato o magistrato o ufficiale di tutte le forze armate del­lo Stato (Esercito, Marina, Aviazione, Milizia nazionale) deve essere, una volta per tutte, dichiarata senza possibilità di equivoci. Un altissimo interesse nazionale lo im­pone. Il divieto deve essere però, per evidenti motivi di opportunità e per evitare ogni possibilità di inganni o di frodi future, non specifico, ma generico, e riferirsi a qualsiasi associazione, ente ed istituto, i cui statuti im­pongono comunque ai propri membri doveri di discipli­na, di obbedienza e di fedeltà incompatibili con quelli inerenti alla qualità di pubblico impiegato, o che man­tengono almeno in parte carattere segreto. La sanzione non può naturalmente essere, previa diffida, che la desti­tuzione. Soltanto, la Commissione ritiene necessario, a scanso di equivoci e per evitare allarmi o preoccupazio­ni, le cui ripercussioni potrebbero nuocere alla politica nazionale, escludere in modo esplicito dal divieto le as­sociazioni religiose riconosciute dalla Chiesa cattolica o ammesse dallo Stato. 

La Commissione non si nasconde che i rimedi propo­sti sono lungi dall'essere radicali, e che offrono, come del resto tutti i rimedi legislativi a mali od a vizi intima­mente connessi con le consuetudini e con la mentalità collettiva, il fianco alla frode, o all'inganno. Potrebbe darsi, ad esempio, che la massoneria, pur non ribellan­dosi alle imposizioni della legge o fingendo di attenervisi per non incorrere nello scioglimento, che le vieterebbe qualsiasi specie di manifestazione di carattere pubblico o ufficiale, e per evitare le conseguenze penose a carico della persona o del patrimonio dei dirigenti e dei soci, cercasse di eluderne lo spirito, dichiarando solo in parte la verità, e forse sdoppiandosi in una duplice organiz­zazione, una pubblica e una segreta. Ma è ovvio che il tentativo avrà tanto minor probabilità di successo, quan­to più attiva e solerte nell'applicazione della legge sarà la vigilanza dell'autorità e quanto più rapida e rigida l'azione della magistratura.Comunque, la Commissione crede che il congegno che si onora proporre (e che per comodità di esposizione è riassunto in uno schema di decreto che fa seguito alla presente relazione) possa utilmente servire, se non a sra­dicare la organizzazione massonica, a toglierle gran parte, e la più immediatamente pericolosa, della sua capacità di nuocere. Poiché il proselitismo massonico è principal­mente favorito dalla persuasione che l'essere massone non può recare che vantaggi, il fatto che, d'ora in poi, questa concezione brutalmente utilitaria non potrà più reggersi — e ciò specialmente nei rapporti degli impie­gati pubblici, alla cui carriera l'appartenenza alla setta massonica porrà un insuperabile ostacolo — eliminerà la maggior spinta ad entrare nell'associazione. D'altro la­to, con l'obbligo della pubblicità verrà meno la comoda posizione di privilegio sinora goduta dalla massoneria, per cui fruiva insieme dei vantaggi della segretezza e di quelli del riconoscimento di fatto per parte della autori­tà e della pubblica opinione. Essa dovrà d'ora in poi sciogliersi. O mettersi in regola con la legge, cioè render noto tutto ciò che essa ha voluto e potuto finora tener così profondamente celato (ed è presumibile che l'ana­cronismo dei simboli e dei riti e del cerimoniale, di cui essa si compiace, non potrebbe resistere, una volta re­so di pubblica ragione, all'onda del ridicolo), nel quale caso essa dovrà sottostare al continuo controllo pubbli­co e dell'autorità. O rassegnarsi ad entrare totalmente nell'ombra, e a condurre una esistenza illegale, con tutte le conseguenze derivanti dal porsi fuori dalle leggi dello Stato. 
La Commissione deve però avvertire che c'è un lato, e certo non meno pericoloso, dell'attività della masso­neria, che i rimedi legislativi ora proposti non riguarda­no se non in minima parte: l'attività massonica internazionalista ed i rapporti della massoneria italiana con le massonerie degli altri paesi. La prima sarà veramente posta nella impossibilità di nuocere alla politica nazio­nale solo quando si sarà riusciti a recidere i legami che stringono la setta alla massoneria universale. Ma. per ot­tenere ciò non basta colpire la massoneria unicamente dal punto di vista della segretezza, ossia come società segreta; occorre colpirla anche dal punto di vista dell'in­ternazionalismo, ossia come società internazionale. Qui è forse il pericolo più grave e il problema più delicato. La Commissione ne rimanda lo studio a quando passerà ad occuparsi dell'altro quesito sottoposto al suo esame, relativo ai rapporti fra lo Stato nazionale e i partiti in­ternazionali. Ma non esita ad affermare che qualsiasi mezzo di difesa dello Stato contro l'attività dei partiti internazionalistici sarebbe insufficiente e inadeguato al­lo scopo, se non fosse tale da riguardare e comprendere anche l'attività della setta massonica, che in sé riassume tutti i peggiori elementi e caratteri dell'intrigo e della corruzione dentro e fuori i confini della patria. 

Schema di decreto 

Art. 1. — Le Associazioni, enti ed istituti costituiti ed operanti nel Regno sono obbligati a comunicare all'auto­rità di pubblica sicurezza l'atto costitutivo, lo Statuto e i regolamenti interni, l'elenco nominativo delle cariche sociali e dei soci, e ogni altra notizia intorno alla loro organizzazione ed attività, tutte le volte che ne vengano richiesti dalla autorità predetta per ragioni di ordine o di sicurezza pubblica. 

L'obbligo della comunicazione spetta a tutti coloro che hanno funzioni direttive e di rappresentanza delle associazioni, enti ed istituti, nelle sedi centrali e locali, e deve essere adempiuto entro due giorni dalla richiesta. 

I contravventori sono puniti con l'arresto non infe­riore a tre mesi e con l'ammenda da lire duemila e sei­mila. 

Qualora siano state date scientemente notizie false ed incomplete, la pena è della reclusione non inferiore ad un anno, e della multa da lire cinquemila a trentamila, oltre l'interdizione dai pubblici uffici per cinque anni. 

In tutti i casi di omessa, falsa o incompiuta dichia­razione, le associazioni possono essere sciolte con de­creto del Prefetto. 

Art. 2. — I funzionari, impiegati ed agenti di ogni or­dine, dello Stato, delle Provincie e dei Comuni, o di un istituto sottoposto per legge alla tutela dello Stato, della Provincia, o dei Comuni, non possono appartenere, nep­pure in qualità di semplice socio, ad associazioni, enti ed istituti costituiti ed operanti in modo clandestino o occulto, o i cui soci sono comunque vincolati dal segre­to, sotto pena della destituzione. 

I funzionari, impiegati ed agenti attualmente in ser­vizio debbono ottemperare alle disposizioni della pre­sente legge entro quindici giorni dalla sua pubblicazione. 

Art. 3. — La presente legge andrà in vigore il giorno della sua pubblicazione nella « Gazzetta Ufficiale del Regno ». 

Relazione che accompagna il testo del decreto contro le associazioni segrete 

« A tutti è nota la parte che, nel moto del risorgimen­to italiano, ebbero le Società e sette segrete. Il giudizio sul contributo che dettero al movimento nazionale appartiene alla storia. Certo è che, se poteva ritenersi giu­stificata l'esistenza e l'attività di associazioni occulte in tempo di servitù, come mezzo di lotta del popolo iner­me contro lo straniero, tali società avrebbero dovuto sparire o trasformarsi il giorno in cui, conquistata l' in­dipendenza e l'unità, divenne lecita, anzi meritoria ogni forma di attività intesa ad elevare e diffondere lo spiri­to nazionale. Accadde invece il contrario e le libertà in­terne sancite dallo Statuto e smisuratamente, e diremo quasi illimitatamente allargate dalla pratica costituzio­nale del nuovo Statuto italiano, furono incitamento e motivo di una sempre crescente diffusione delle associa­zioni costituite ed operanti in modo clandestino ed oc­culto, a cui accorsero in folla, così i malcontenti e i de­lusi del nuovo ordine di cose, come tutti coloro che cer­cavano di far la propria strada col massimo dei vantaggi e il minimo dei rischi. Fenomeno che spiacque ai più grandi uomini del Risorgimento i quali considerarono le sette e società segrete come un male necessario, frutto del dispotismo e della servitù, e destinato a scomparire con questi. Arma legittima dove non è patria e libertà, scriveva Mazzini, esse possono essere sciolte dalla Na­zione che abbia conquistato la sua patria e la sua libertà. Se l'associazione, aggiungeva, deve realizzare un più alto progresso, deve sottomettersi al giudìzio di tutti. 

Ora, qualsiasi specie di società occulta, anche se, in ipotesi, il suo fine sia eticamente e giuridicamente lecito, è da ritenersi, pel fatto stesso della segretezza, incompa­tibile con la sovranità dello Stato, e la eguale libertà dei cittadini di fronte alla legge. La libertà politica consiste nella facoltà, che le leggi limitano per poterla meglio ga­rantire a tutti, di parlare e di agire in pubblico per il proseguimento di fini che siano o si presumano utili alla collettività. Chi pretende parlare ed agire in segreto, si 

per asservirne a interessi o a finalità ignote o inconfes­sabili il programma, per deviarne lo spirito, per con­trollarne o carpirne le deliberazioni; per tradirli, infine tutti e ciascuno; fino a che insomma ogni partito potrà temere e sospettare, e troppo spesso non invano, di ave­re, senza saperlo, il nemico nelle proprie fila. 
Ma uno dei maggiori pericoli delle Associazioni ope­ranti in modo clandestino ed occulto è il loro diffondersi tra i pubblici impiegati e persino tra i magistrati e gli uf­ficiali dell'Esercito e della Marina. Non è chi non vegga quanto sia pernicioso e. diremmo quasi fatale per l'auto­rità dello Stato all'interno e la indipendenza dall'estero, questo sovrapporsi di una gerarchia privata ed occulta alla gerarchia statale e pubblica. La libertà esterna, cioè l'indipendenza dallo straniero, conquistata a sì caro prezzo e a sì caro prezzo mantenuta, viene gravemente minacciata da questa penetrazione nei più delicati con­gegni dello Stato di associazioni occulte, sottratte ad ogni forma di vigilanza e di controllo, bene spesso aven­ti all'estero i centri di direzione e di influenza. Una si­mile condizione di cose non può essere a lungo tollerata. Nessuna persecuzione, nessun divieto di alcun genere, nessuna limitazione del diritto di associazione. Solo ob­bligo, a tutte le associazioni, come avviene nei paesi più civili, di agire palesemente. 

Questo l'intento del presente disegno di legge. Il qua­le vuole raggiungerlo con un mezzo semplice e per nul­la affatto fastidioso: dando facoltà all'autorità di pubbli­ca sicurezza di richiedere e obbligando i dirigenti delle società, enti ed istituti costituiti ed operanti in Italia, a comunicare l'atto costitutivo, lo Statuto e i regolamenti interni, l'elenco nominativo delle cariche sociali e dei soci. Stabilendo che l'obbligo della denuncia sorga solo quando vi sia una esplicita richiesta dell'autorità, si evita di imporre a tutte le società le quali già esistono ed agiscono pubblicamente, l'onere di una formalità inutile. 

Con l'art. 2 si provvede a tutelare lo Stato contro il pericolo del sovrapporsi di una gerarchia occulta alla sua gerarchia, colpendo con pene disciplinari gli impie­gati pubblici di ogni ordine, compresi quindi in prima linea i magistrati e gli ufficiali dell'Esercito e della Ma­rina, che facciano parte di società occulte. 

Con tali disposizioni, che non sono violatrici, ma tutrici della libertà dei cittadini (perché nessuna attività vietano che si svolga palesemente e sotto il controllo della pubblica opinione) il governo confida che sarà da­to nuovo e più vigoroso impulso a quella educazione ci­vile degli italiani, che è uno dei problemi fondamentali della vita nazionale ».




Gian Franco Ciaurro: LA CADUTA


La più grande operazione di lobbyng che abbia mai investito la città, l'intreccio oscuro tra politica ed affari, sfrenate ambizioni e inceneritori dietro "LA CADUTA" dell' unico uomo che era riuscito a garantire l'alternanza nel governo di Terni. Gian Franco Ciaurro " LA CADUTA". In uscita in primavera.

Terni, il sindaco Ciaurro litiga con il Polo e lascia
----------------------------------------------------------------- CRISI Terni, il sindaco Ciaurro litiga con il Polo e lascia Il comune di Terni verso le elezioni. Il sindaco, Gianfranco Ciaurro (che e' anche coordinatore regionale di Forza Italia) ha ieri presentato ufficialmente le dimissioni dopo che i partiti del centrodestra che lo sostenevano (Forza Italia, An, Ccd, Partito socialista dell' Umbria) avevano duramente criticato il suo operato, rilevando "il persistere di atteggiamenti unilaterali che precludono ogni possibilita' di rapporto e collaborazione". Eletto nel maggio di due anni fa, Ciaurro ha gia' presentato due volte le dimissioni, poi ritirate. Nella lettera inviata ieri al presidente del consiglio comunale, ha scritto di essere favorevole ad "un ricorso alle urne". Ad esprimergli solidarieta' , tra i primi, Silvio Berlusconi.

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(7 febbraio 1999) - Corriere della Sera