L'Europa non è Lampedusa è la nostra Civiltà



L'Europa non è Lampedusa, è la nostra civiltà.
L'Europa non è l'organizzazione di Bruxelles, né una valuta o una banca centrale.
L'Europa non è uno spazio globalizzato senza frontiere.
L'Europa non è il mondo africano, né è una terra dell'Islam.
L'Europa non è né bruttura né non arte.
L'Europa è il continente degli europei.
L'Europa ha millenni di storia, 700 milioni di europei.
L'Europa è un'identità: la civiltà europea e cristiana.
L'Europa è costituita da templi greci, acquedotti e teatri romani, cappelle romaniche, cattedrali gotiche, palazzi rinascimentali, grandi piazze, beghinaggio, chiese barocche, castelli classici e palazzi in stile liberty.
L'Europa è rive selvagge, montagne maestose, fiumi tranquilli. L'Europa è il sentimento della natura. L'Europa è un paesaggio creato dall'uomo: boschetti per polder, prati e coltivazioni terrazzate. L'Europa è la terra  di mele e ulivi, viti e luppolo.
L'Europa non è il mondo del cibo industriale, è la gastronomia di olio e burro, vino e birra, pane e formaggio, salsiccia e prosciutto.
L'Europa non è il mondo dell'astrazione, è l'arte della rappresentazione, da Prassitele a Rodin, dagli affreschi di Pompei alla Secessione di Vienna. L'Europa è l'immaginazione celtica e il mistero cristiano. L'Europa è una civiltà che trasforma la pietra in pizzo.
L'Europa è il rifiuto dello smarrimento, è la cultura che ha inventato il canto polifonico e l'orchestra sinfonica.
L'Europa non è il mondo di Belphégor, è la civiltà che onora le donne: dea, madre o guerriero. L'Europa è la cultura della cavalleria e dell'amore cortese.
L'Europa non è il mondo della sorveglianza, è la patria della libertà: la cittadinanza greca, il foro romano, la grande carta inglese del 1215, le città e le università libere del Medioevo, il risveglio dei popoli nel diciannovesimo secolo.
L'Europa è un'eredità letteraria e mitologica: Omero, Virgilio, Esiodo, Edda, il canto dei Nibelunghi e il ciclo arturiano. È anche Shakespeare, Perrault e Grimm.
L'Europa è lo spirito di invenzione e conquista: è Leonardo da Vinci e Gutenberg; Queste sono le caravelle, i palloncini, gli inizi dell'aviazione e Ariane, questi sono i mazzi gettati sui mari.
L'Europa, sono gli eroi che l'hanno difesa nel corso dei secoli: sono Leonida ei suoi 300 spartani a salvare la Grecia dall'Asia; è Scipione l'africana che conserva Roma di Cartagine, è Carlo Martello che respinge l'invasione araba, è Godefroy de Bouillon che consegna i luoghi santi e fonda il regno franco di Gerusalemme, è Ferdinando d'Aragona e Isabella il cattolico liberando Granada, è Ivan il Terribile che allontana i mongoli dalla santa Russia, è don Giovanni d'Austria vittorioso dei Turchi a Lepanto.
Europa, questi sono posti alti: è il Partenone, Piazza San Marco, San Pietro di Roma, la Torre di Belém, Santiago de Compostela, il Mont Saint-Michel, la Torre di Londra, il Porta di Brandeburgo, le torri del Cremlino.
Questa è la nostra storia di civiltà!
Oggi l'Europa è l'uomo malato del mondo. È colpevole di colpevolezza, colonizzata, indebolita. Non è né fatale né sostenibile. Stop al pentimento! Scopriamo il filo della lunga memoria. Ascoltiamo il messaggio di speranza di Dominique Venner:

"Credo nelle qualità specifiche degli europei che sono temporaneamente dormienti. Credo nella loro individualità attiva, nella loro inventiva e nel risveglio della loro energia. Il risveglio verrà. Quando? Non lo so, ma di questa sveglia non ne dubito. "


Salvini: l'Italia è una porcheria


Questi sono i mostri che il centrodestra ha portato al governo della Nazione e non solo per l’inabilità del personaggio Berlusconi, perché Berlusconi ragionava, e ragiona, da imprenditore e non da statista e quindi non ha capito nulla di quanto stava accadendo in termini di smantellamento globale dell’Italia, ma anche per responsabilità di una destra italiana che ha sempre preferito il salotto alla trincea, le prebende individuali, alla fatica di costruire un futuro alla Nazione, e tra le rincorse alle poltrone ha visto non solo evaporare l'Italia ma anche se stessa. 



L'Italia è una porcheria

Impossibile su Booking ed Edreams, per Italiani ed Europei prenotare un alloggio a Cuba




Secondo la normativa americana, non è consentito recarsi a Cuba per motivi di turismo partendo dagli Stati Uniti. La normativa si applica a tutti i cittadini stranieri che volessero raggiungere l'isola caraibica dagli USA, vi sono alcune  categorie esenti, come ad esempio viaggi per motivi familiari, di culto, attività umanitarie, missioni ufficiali, etc. Chiaro è che questa normativa riguarda gli Stati Uniti, ed è stata introdotta dall'amministrazione Trump, una restrizione alla precedente decisione che aveva abolito l'embargo deciso dagli USA, che tante sofferenze ha prodotto al popolo cubano. 
Su booking e su Edream, per prenotare una qualsiasi alloggio a Cuba, dai grandi alberghi internazionali ad una casa particular, occorre riempire una casella obbligatoria al fine di completare l'operazione, in cui la parola turismo non appare, appare solo l'elenco delle categorie esenti secondo la legislazione americana ai divieti di Trump, quindi se sei un cittadino italiano, o dell'Unione Europea, paesi in cui è libera la possibilità di visitare l'Isola per motivi turistici, almeno di dichiarare il falso,  sui due siti in questione non è possibile prenotare un alloggio. Booking risponde: "A causa di restrizioni commerciali, sul nostro sito non è possibile effettuare prenotazioni per Cuba a scopo turistico." - e continua- "Si tratta di una restrizione europea strettamente commerciale, che non ha niente a che vedere con l'amministrazione Trump". Ma basta andare sul sito www.viaggiaresicuri.it, della Farnesina, sulla pagina dedicata a Cuba ,per non trovare alcuna traccia di queste presunte restrizioni commerciali, se non il riferimento a quelle dell'ordinamento americano

.http://www.viaggiaresicuri.it/paesi/dettaglio/cuba.html?no_cache=1

Centri sociali

«I centri sociali sono la guardia gratuita del ceto intellettuale di sinistra. La loro cultura è inesistente, trattandosi di ghetti consentiti e foraggiati dalla Sinistra Politicamente Corretta (SPC), che li può sempre usare come potenziale guardia plebea.
Privi di qualsiasi ragion d'essere storica, costoro, composti di semianalfabeti, intontiti dalla musica che ascoltano abitualmente ad altissimo volume e dallo spinellamento di gruppo, hanno una cultura della mobilitazione, dello scontro e della paranoia del fascismo esterno sempre attuale, ed è del tutto inutile porsi in un razionale atteggiamento dialogico, che pure potrebbe teoricamente chiarire moltissimi equivoci. Ma il paranoico non è un interlocutore.
Anche l'interesse per i migranti è un pretesto, perché essi li vivono come un raddoppiamento mimetico della loro marginalità».

Costanzo Preve

2 giugno 1948: interrogazione degli onorevoli Almirante, Mieville, Michelini, Roberti, Russo Perez, al Ministro degli affari esteri, per conoscere quali misure siano state prese per la tutela degli italiani dell’Istria e della Dalmazia

In questa foto Giorgio Almirante con Sandro Pertini
 Cerimonia del Ventaglio 26 luglio 1968

PRESIDENTE. Passiamo allo svolgimento dell’interrogazione degli onorevoli *Almirante, Mieville, Michelini, Roberti, Russo Perez, al Ministro degli affari esteri, ((per conoscere quali misure e quali provvidenze siano state prese o predisposte al fine di tutelare i diritti e gli interessi degli italiani dell’Istria e della Dalmazia, i quali, avendo optato in questi giorni per l’Italia, sono ostacolati in tutti i modi dalle autorità jugoslave, sino al punto di essere spogliati anche dei loro effetti personali 1). L’onorevole Sottosegretario di Stato per gli affari esteri ha facoltà di rispondere. .BRUSASCA, Sottosegretario di Stato per gli affari esteri. È noto che il Trattato di pace, all’articolo 19, paragrafo 29, attribuisce al Governo jugoslavo la facoltà di adottare misure legislative appropriate per l’esercizio del diritto di opzione di tutte le persone di lingua italiana domiciliate al 10 giugno 1940 nelle zone cedute. ’I1 Governo jugoslavo emanò infatti, nei limiti di tempo indicati dal Trattato, norme di legge che regolano minutamente le modalità relative. Per quanto il Trattato stesso non facesse esplicita menzione della facoltà per l’Italia di intervenire nella materia, pure il Governo italiano non esitò a prendere posizione, nell’interesse di migliaia e migliaia di italiani, nel momento in cui si decideva il loro destino. Ancor prima che fossero conosciute le disposizioni jugoslave, si provvide con circolare 6 novembre 1947 ad illustrare le disposizioni a tutti i nostri uffici consolari e diplomatici, mettendoli in gràdo di continuare la protezione e l’assistenza agli istriani, giuliani e dalmati all’estero, cercando di evitare inutili attriti con le autorila jugoslave. In data 6 febbraio ultimo SCÒ~SO, essendo venuto .a conoscenza - ancora non, in via ufficiale - delle disposizioni jugoslave, il Ministero per gli affari esteri si affrettò a chiedere precisazioni alla Legazione jugoslava in Roma sulle modalità della presentazione delle domande di opzione, sui documenti da allegare, sulla lingua in cui le di- . chiarazioni dovevano essere redatte, sulle spese inerenti ecc., ponendo nel dovuto rilievo che molti erano coloro che si erano già trasferiti sul territorio nazionale, e la necessità, quindi, di adeguare le modalità per l’esercizio del diritto. di opzione alla loro posizione di profughi dispersi per tutta 1’11alia. In tale occasione il Ministero .degli affari esteri, richiamandosi a nome stabili te nei trattati di pace che chiusero la prima guerra mondiale, credette di dover avanzare una formale riserva nei riguardi della disposizione jugoslava secondo, cui l’attestato della lingua d’uso all’optante deve essere rilasciato dai comitati popol,ari jugoslavi. Su questa disposizione del Governo jugoslavo richiamo l’attenzione della Camera affinché, attraverso questo dibattito e l’azione dei deputati, essa sia chiaramente spiegata agli interessati; nel senso che il Governo italiano non può per nulla intervenire, e che l’accertamento della lingua d’uso viene fatto esclusivamente dai comitati popolari jugoslavi, i quali agiscono con le facoltà e le possibilità di organi di siffatta natura. I trattati che chiusero l’altra guerra, con spirito di ben maggiore equanimità, ammettevano che gli optanti potessero pro, vare con ogni mezzo, compreso l’att,o notorio, quale fosse in effetti la lingua da loro usata: È chiaro infatti che l’accertamento della lingua d’uso può risentire delle diverse vaIutazioni adottate, e quindi mal si presta ad essere rimessa all’autorità locale in zone mistilingue, come sono quasi tutte le zone di frontiera. La riserva che noi poniamo si risolverebbe in sostanza nella offerta della nostra collaborazione per dirimere punti controversi, per evitare equivoci, e partiva dal presupposto che fosse interesse comune jugoslavo e italiano procedere all’accertamento della lingua d’uso in condizioni tali da non lasciare dubbi o sospetti di parzialità. Ma il Governo jugoslavo, che pure aderì a quasi tutti i punti da noi prospettati concedendo facilitazioni a favore degli optanti stabiliti in Italia, insistette nel sostenere che l’accertamento della lingua d’uso da esso, adottato è conforme al Trattato di Pace. Con ciÒ ci fu definitivamente preclusa ogni p-ossibilità di intervenire in una materia tanto delicata e l’accertamento che la lingua d’uso degli optanti è quella italiana rimase affidato agli uffici jugoslavi. Poiché gli onorevoli interroganti sembrano riferirsi particolarmente alla situazione di coloro che si trovano tuttora in Jugoslavia, chiedendo di conoscere le misure e le provvidenze adottate dal Governo per la tutela . dei loro diritti ed interessi, ritengo doveroso ricordare che, secondo la tesi jugoslava, per il paragrafo 10 dell’articolo 19 del Trattato di Pace, le persone domiciliate alla data del i0 giugno i940 nei territori ceduti sono diventate, anche se con riserva dell’opzione, cittadini dello Stato jugoslavo. L’optante è perciò considerato cittadino jugoslavo fino al momento in cui un decreto del Ministero dell’interno croato o sloveno non avrà riconosciuto l’opzione da lui esercitata per la cittadinanza italiana. Ciò. significa che la difesa dell’optante da parte dei Consolati e delle Delegazioni italiane in Jugoslavia si urta contro limiti^ precisi, quali sono definiti dalla prassi del diritto internazionale, sino a quando questi cittadini rimangono nei confini dello Stato .che li considera suoi propri, cittadini. Va riconosciuto che la Jugoslavia, in sede di emanazione di queste norme, si i! strettamente attenuta ai termini letterali del Trattato. Aggiungo che, sia pure con ritardo, le autorità jugoslave hanno accolto i passi esperiti da noi per una più equa applicazione delle norme stesse da parte delle autorità locali. Ma purtroppo gli inconvenienti non poterono essere rimossi. Va detto chiaramente che la vita è dura, molto dura per chi ha esercitato il diritto di opzione’ ed è in attesa della decisione jugoslava che gli riconosca la cittadinanza italiana. Per 1’au’- torità locale egli è ancora ‘jugoslavo, peggio, uno jugoslavo che ha dichiarato di non volerlo più essere: privato del lavoro e delle carte annonarie l’optante deve vivere di ripieghi, vendendo il vendibile in attesa del decreto che gli riconosca la qualità di straniero nonché del visto di uscita che gli consenta di iniziare il viaggio di trasferimento per l’Italia. È appena il caso di aggiungere che le difficoltà fatte da qualche autorittt locale finiscono per creare, anche forse contra la volontà di coloro stessi che usano tali mezzi, uno stato di costrizione che non pu+ non riflettersi sulle decisioni di chi può optare. Posso comunque assicurare che la Legazione di Belgrado e il Consolato generale di Zagabria si adoperano come possono per cercare di far migliorare le condizioni di vita degli optanti. Con la notifica del decreto del competente Ministero dell’interno jugoslavo, l’optante viene riconosciuto quale italiano e come tale ha i doveri e i’diritti di tutti gli stranieri e quindi può finalmente valersi dell’assistenza consolare italiana. Nell’intento di dare una assistenza, in quanto possibile, pronta e larga, ai nostri connazionali ed offrire alla vicina repubblica una concreta collabora-, zione per l’operazione di opzione, noi chiedemmo di potere aprire Uffici consolari nelle città dove presumibilmente si sarebbe accentrata la massa degli optanti. In particolare insistemmo e continuiamo ad insistere per l’apertura di un Consolato a Fiume, essendo ,umanamente impossibile che a Zagabria, centro di circoscrizione che comprende le intere Repubbliche di Croazia e Slovenia si possa seguire da vicino la posizione dei singoli italiani in circostanze tanto eccezionali. Nell’attuale momento i nostri connazionali devono fare capo a Zagabria per avere un passaporto provvisorio, un documento, un timbro qualsiasi. Per riparare; in quanto possibile, gli inconvenienti lamentati il Consolato di Zagabria ha ricevuto istruzioni dal Ministero di intensificare le visite personali a Fiume e ad altri centri. Gli onorevoli interroganti fanno cenno di difficoltà frapposte dalle autorità jugoslave contro coloro che hanno optato per l’Italia. Bisogna dire che il visto di uscita dalla Jugoslavia si fa talvolta troppo abtendere. .Si aggiunga che i visti di uscita jugoslavi hanna validità di 15 giorni e le disposizioni che regolano la vita dello straniero in Jugoslavia risentono tuttora delle restrizioni del periodo bellico. E così effettivamente si è verificato qualche caso di nostri connazionali i quali, dopo’avere lungamente atteso, dovettero poi partire precipitosamente senza potere aspettare il mezzo che consentisse loro di farsi accompagnare dalle masserizie. Quanto al trasporto dei connazionali e alle’ pratiche doganali e di frontiera, le Amministrazioni italiane hanno già preso le opportune disposizioni di loro spettanza. Comunicammo al Governo jugoslavo che eravamo pronti ad offrire la disponibilità di 10 vagoni al giorno che, facendo capo a Fume, potevano risolvere il probleqia dei trasporti giuliani. Da parte jugoslava ci fu invece risposto di avere già la quantità di vagoni occorrenti ai rimpatrianti. Sono tuttora in coi’s0 pratiche per l’invio a Zara di un piroscafo capace di circa 300 persone, ma secondo le più recenti comunicazioni sembra che il Governo jugoslavo si proponga, come per i mezzi terrestri, di provvedere con i suoi propri niezzi marittimi. Per quanto concerne l’esportazione dalla Jugoslavia dei beni mobili, il trasferimento dei fondi e valuta, la vendita e la custodia dei beni immobili e in genere ogni questione relativa ai beni degli optanti, va ricordato che l’Allegato 14 del Trattato di pace ne rimette la definizione delle condizioni e delle modalità ad accordi fra i due Governi. Sono lieto di annunziare che una nostra delegazione, è in viaggio per Belgrado ove si incontrertt con quella jugoslava. Da parte del Governo di Belgrado si sostiene che la questione dei beni degli optanti è connessa’ con altre di carattere economico e finanziario, pure comprese nel citato paragrafo 14. Noi non rifiutiamo di discutere il complesso di questioni che ci viene proposto, ma dobbiamo insistere, per delle ragioni sopratutto umane, che nell’ordine dei. lavori della conferenza si dia la precedenza assoluta alla trattazione di quelli relativi ai beni degli optanti ed in questo senso sono state date categoriche istruzioni alla nostra delegazione. * Desidero, infine, informare la Camera che su conformi istruzioni impartite, il Ministro d’Italia in Belgrado, ha intrattenuto il 9 corrente il Viceministro degli affari esteri jugoslavo Bebler su tutto l’andamento delle opzioni e sugli inconvenienti e sulle diEcoltà, talvolta gravi, che incontrano quanti optano per la cittadinanza italiana. I1 Ministro Martino, venuto in- questi giorni a Roma, ha riferito di aver ricevuto ampie assicurazioni che le questioni per le quali vi è in questa Camera tanta giustiiicata apprensione, saranno oggetto del più attento esame da parte del Governo jugoslavo. I1 Ministero degli esteri, con queste chiare, precise e dettagliate comunicazioni ha voluto rispondere agli interroganti, cui va il merito di aver sollevato questa importante questione in un momento di ansia come l’attuale, e dimostrare al Paese tutta la sua preoccupazione per risolvere al più presto i problemi di questi nostri connazionali, i quali stanno per diventare italiani superando difficoltà e sopportando dei sacrifici pei’ i quali da questa Camera deve partire oggi un benvenuto cordiale e affettuoso, che dia loro la sensazione che, dopo aver tanto patito e sofferto, entreranno in Italia in una grande famiglia ! (Vivissimi applausi a sinistra, al centro e a destra). PRESIDENTE. L’onorevole interrogante ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto. ALMIRANTE. Onorevole Sottosegretario, le sue dichiarazioni, di cui la ringrazio - e oso ringraziarla non solo a nome mio e dei miei colleghi, ma di tutta l’Assemblea ... (Rumori alt’estrema sinistra) o per lo meno, degli italiani che in questa Assemblea si trovano, esclusi coloro che rifiutano la qualifica di italiano ... (Applausi al centro e a destra - Proteste all’estrema sinistra) e di ciò noi siamo loro riconoscenti - le sue dichiarazioni hanno squarciato il velo di una tragedia. L’onorevole Mazza diceva poco fa che qui C’è un’aria di famiglia. Noi stiamo occupandoci però purtroppo di gente, di italiani, che non hanno più la famiglia, non hanno più una casa. Bisogna che questi italiani sentano di avere almenouna Patria. Mi riferirò dunque soltanto alle sue ultime parole. Quando ella ha detto che a questi. italiani, così duramente perseguitati da una sorte che dayvero non hanno meritato, bisogna che l’Italia apra il suo cuore, questo e sentimento, è lodevole, alto sentimento e sono lieto di constatare che una volta tanto .qui dentro si è parlato veramente da italiani ... SCOCA. Non una volta tanto ! Sempre ! ALMIRANTE. Ma il sentimento non basta. Occorre, che questi profughi tornan.do in Italia, ricevano qualche ‘cosa di più .di una assistenza sporadica e generica; sen-tano in maniera concreta il cuore della patria palpitare accanto al loro. . È stato emanato recentemente un decreto legislativo che concerne l’assistenza .ai profughi, ivi compresi gli optanti. Ella ricorderà certamente, onorevole So ttosegretario, le disposizioni’ di quel decreto. Io la prego, e prego la Camera, di mettere a paragone quelle disposizioni con le sue parole. Ella ha parlato di tragedia. Jn quel decreto non si sente la tragedia e non si sente neppure il palpito del cuore della Patria. Quelle disposizioni, che io qui non ripeto, perche non voglio turbare quell’atniosfera di solidarietà che tanto ci ha commosso, ,quelle disposizioni, sono veramente insufficienti. Ai profughi che rientrano nelle eon.dizioni da lei illustrate, si concede una volta tanto un sussidio di 12 mila lire, e si concedono 45 lire al giorno ai membri di famiglia e 100 ai capi famiglia. Siccome giustamente ella ha fatto rilevare che dal punto di vista internazionale l’aiuto ‘del nostro Governo ai profughi si può concretare soltanto in pressioni diplomatiche, le quali sciaguratamente non trovano ascolto, o per lo meno non hanno trovato fino ad ora ascolto, il problema non diventa’ pii1 di carattere internazionale ma interno. C’è una nostra precisa responsabiljtà- di fronte a questi italiani, anche se lo straniero li tratta come li tratta, passando sopra non solo allo spirito ma alla lettera di quello stesso iniquo trattato, ma addirittura allo spirito di umanità e al diritto delle genti. .Se, lo straniero li tratta così, noi dobbiamo trattarli ben altrimenti. Quindi, dicendomi soddisfatto e ringraziandola per quanto Ella ha avuto la cortesia .di dire, in tono veramente umano, a proposito, .di quanto il Gov.erno sta facendo per tutelare in sede internazionale i diritti e gli interessi. di questi profughi, io invito il Governo a prendere in esame il problema interno e le responsabilità interne nei confronti di questi profughi: vale a dire, a predisporre immediatamente precise e adeguate misure nei loro riguardi; misure che tanto più debbono essere generose e pronte, quanto 3 più ingiusto ed iniquo e lo straniero nei confronti di questi. fratelli italiani. (Applausi al centro e a destra).

Boia chi Molla: espressione nata sulle barricate della Repubblica Partenopea

Il 29 luglio 1917 nasce il primo reparto d'Assalto al comando del colonnello Giuseppe Alberto Bassi, il reparto assume come motto "Boia chi molla", espressione nata sulle barricate della Repubblica Partenopea del 1799 e poi ripresa nelle 5 giornate di Milano del 1848, e più recentemente divenuto slogan simbolico della rivolta di Reggio Calabria svoltasi  dal luglio del 1970 al febbraio del 1971.


Storia del Reggimento Giovani Fascisti Regio Esercito Italiano 1940-1943

Sacrario Museo Reggimentale 

Il 10 Giugno 1940 l'Italia, con la dichiarazione di guerra alla Francia ed alla Gran Bretagna, entra nel secondo conflitto mondiale.
Animati da sincero entusiasmo e desiderosi di partecipazione, 25.000 giovani di tutte le estrazioni sociali e provenienti dalle fila della G.I.L. (Gioventù Italiana del Littorio), chiedono di essere arruolati volontari per raggiungere il fronte di combattimento. Il P.N.F. (Partito Nazionale Fascista) grazie al Segretario Ettore Muti stabilisce con il Ministero della Guerra, che approva a malincuore, la costituzione di 24 Battaglioni G.I.L. che, militarmente istruiti nella zona della Liguria, sono poi impegnati in una marcia dimostrativa di 450 km, denominata "Marcia della Giovinezza".
Questa si conclude il 10 Ottobre 1940 come termine del periodo di addestramento a Padova, dove sono convenuti il Capo del Governo Benito Mussolini e le autorità militari per passare in rassegna i giovani volontari. Dopo la rivista, cui partecipano rappresentanze delle organizzazioni giovanili europee, i giovani apprendono con profonda delusione che i loro Battaglioni sono smobilitati, su richiesta dei comandi militari ed inviati a rientrare nelle loro case per continuare a studiare e lavorare.
Si mortificano così 25.000 ragazzi che chiedono solo di combattere. Il malcontento è tale che il V° Gruppo, accampato alla Fiera Campionaria di Padova, arriva ad ammutinarsi incendiando un padiglione per non eseguire l'ordine. Vista la violenta reazione di 2.000 volontari che non vogliono rientrare alle loro case, per intercessione di Ettore Muti sono costituiti tre Battaglioni Speciali G.I.L. e inviati a spese del Comando Generale della G.I.L. a Formia, Gaeta e Scauri per completare l'addestramento militare.
I volontari sono stufi di promesse, di esercitazioni e visite di Gerarchi. In seguito a diverse sollecitazioni il Ministero della Guerra invia l'Ispettore della Fanteria Generale Taddeo Orlando, per costatare il grado di preparazione militare dei Battaglioni. Il suo parere è favorevole e i volontari sono pronti al combattimento.
Il Ministero della Guerra, con disposizione n.486120 del 12 Aprile 1941, decide di trasformare i Battaglioni G.I.L. nella 301^ Legione CC.NN.; ma dopo una settimana non avendo i volontari adempiuto ancora il periodo di ferma regolare, essendo la M.V.S.N. (Milizia Volontaria Sicurezza Nazionale) un apparato post-militare, il Ministero si affretta ad emanare una nuova disposizione, n. 49640 del 18 Aprile 1941, che modifica la precedente disponendo la costituzione del "Gruppo Battaglioni Giovani Fascisti" quale unità del Regio Esercito. Nacque così una nuova e particolare unità del Regio Esercito la cui truppa era costituita da giovani, grazie al consenso firmato dai genitori, inquadrati come "volontari ordinari senza vincoli di ferma " anziché come "volontari di guerra", e da sottufficiali ed ufficiali anch'essi come volontari.
Le uniformi ed i pugnali della Milizia sono ritirati e sostituiti dall'Esercito con l'uniforme della Fanteria con due particolarità: al bavero le fiamme sono a due punte bicolore giallo rosse (i colori di Roma e della G.I.L.); come berretto di fatica è adottato il fez nero dei reparti Arditi della Prima Guerra Mondiale. Sarà questo il solo copricapo portato orgogliosamente con un pizzico di spavalderia dai giovani volontari (al reparto non fù consegnato l'elmetto.
A Maggio il "Gruppo Battaglioni Giovani Fascisti" è trasferito a Napoli in attesa di destinazione. Il 24 Giugno è portata al Duce, da parte del Comando Supremo, una lettera intestata "Battaglioni G.I.L." che porta in calce una annotazione del Generale Magli: "…esprimo parere contrario: le unità che dovranno operare sul fronte Russo non possono essere composte da ragazzi…". Letta l'annotazione Mussolini scrive sotto di suo pugno: "Sta bene! i due Battaglioni andranno in Libia".
Il 29 Luglio 1941 il "Gruppo Battaglioni GG.FF.", composto dal I° e II° Battaglione e dal Comando di Gruppo, sbarca a Tripoli ed inviato con compiti di presidio a Homs e Misurata. I Battaglioni subiscono trasformazioni nell'organico e vengono consegnati i cannoncini 47\32 ed i mortai da 81 mm.
Il 2 Settembre 1941 con disposizione n.3 del Supercomando in Africa Settentrionale, il Gruppo entra a far parte del R.E.CA.M. (Raggruppamento Esplorante del Corpo d'Armata di Manovra) comandato dal Generale Gambara il quale, al momento di comunicare al Ten.Col. Tanucci comandante il Gruppo il loro prossimo impegno sul fronte di combattimento, scrive testualmente: "…il loro compito è arduo. I volontari sono al primo combattimento, sono giovani, ma ho piena fiducia in loro…".
Il 3 Dicembre 1941 il "Gruppo Battaglioni GG.FF." si trova schierato a Bir el Gobi (Libia). Il I° Btg. ed il Comando a quota 182; il II° Btg. alle quote 184 e 188. L'intenzione del Comandante dell'8^ Armata Britannica Generale Ritchie era di occupare Bir el Gobi, secondo il quale avrebbe opposto scarsa resistenza perché presidiata dai "Mussolini's Boys" che ai primi colpi di cannone sarebbero scappati, per poi passare così alle spalle del nemico. Quindi fu ordinato all'XI^ Brigata Indiana comandata dal Generale Anderson di occupare Bir el Gobi. La Brigata era composta da tre Battaglioni di Fanteria ( 2nd Maharatta, 2nd Cameron, 1st Rajaputana), da due Reggimenti d'Artiglieria pesante e leggera, da una compagnia di Carri Armati dell'8th Royal Tank Regiment. Il "Gruppo Battaglioni GG.FF." era composto da 1454 uomini armati di 24 fucili mitragliatori Breda mod.30, 12 mitragliatrici Breda mod.36, 12 fucili controcarro Polacco, 6 fucili controcarro Solothurn, 8 cannoncini da 47/32 e 8 mortai da 81mm e due casse di bombe Passaglia (una per Battaglione). Inoltre a Bir el Gobi c'era un presidio composto da 12 carri L3 (alcuni inutilizzabili ma furono interrati ed usati come nidi di mitragliatrici), 2 carri armati M13, 2 cannoncini 47/32 e 2 mitragliere da 20mm.
La battaglia inizia nel pomeriggio del 3 e continua nei giorni 4,5,6 Dicembre. E' presente anche la fanfara del Gruppo che durante gli attacchi nemici suona "Fischia il sasso". Gli scontri sono violenti, i volontari combattono con fredda determinazione, le fanterie nemiche sono falciate dal tiro preciso dei Giovani Fascisti, i carri nemici attaccati e distrutti; per tre giorni l'11^ Brigata Indiana e parte della 22^ Brigata Guardie accorsa in suo aiuto, non riuscirono ad occupare il caposaldo. Nei combattimenti parteciparono anche elementi della 1^ Divisione Sudafricana e della 2^ Divisione Neozelandese.
Innumerevoli sono gli episodi di valore come i sacrifici del Capitano Barbieri, dei Sergenti Lupo, Naldi e Ravaglia, dei volontari Bilferi, Calvano, Cocchi, Crocicchio, Bolognesi, Guidoni, Meloni, Minarelli, Nulli, Romagnoli, Togni e primo fra tutti il Cap.Magg. Ippolito Niccolini benché ferito per tre volte riesce a neutralizzare un carro nemico. Sarà insignito di Medaglia d'Oro al Valor Militare. Anche il Comandante del Gruppo Ten.Col. Tanucci è ferito e impreca contro gli Inglesi urlando "…vigliacchi, colpire un Bersagliere ai c…". Il Comandante del I° Btg. Maggiore Balisti ferito gravemente alla gamba sinistra che sarà successivamente amputata, si fa portare in barella nelle postazioni per incitare " i suoi ragazzi". La mattina del 7 Dicembre arrivano due colonne delle 15^ e 21^ Divisioni Corazzate tedesche. Il Generale Rommel osserva il campo di battaglia e si complimenta con il Ten. Milesi, quindi riparte con le Divisioni all'inseguimento del nemico. Gli Inglesi non sono riusciti ad occupare Bir el Gobi e pesanti sono state le loro perdite: due compagnie la Maharatta e la Cameron sono state completamente distrutte, le loro perdite ammontano a circa 300 morti, 250 feriti, 71 prigionieri; distrutti sei carri amati pesanti, sei leggeri e molti automezzi.
Le perdite nei Volontari GG.FF. ammontano a 54 morti con 117 feriti e 31 dispersi. Dopo l'aspra battaglia il "Gruppo Battaglioni Giovani Fascisti" ripiega con altre unità italo-tedesche.
Il Gruppo entra a far parte della Divisione Sabratha, prende parte ai combattimenti di El Agheila e Marsa el Brega subendo lievi perdite. Successivamente a seguito un ordine inaspettato i Volontari GG.FF. sono inviati a riposo presso il Villaggio Gioda quando nessuno ne sentiva la necessità.
Il 24 Maggio 1942 come riconoscimento del valore dimostrato dai Volontari GG.FF. a Bir el Gobi, per ordine di Mussolini viene costituita la 136^ Divisione Corazzata "Giovani Fascisti", nella quale essi costituiscono il nucleo principale. Presso il Villaggio Gioda fanno seguito visite importanti come quelle del Generale Gambara, dei Marescialli d'Italia Cavallero e Bastico dove quest'ultimo consegna la decorazioni al Valor Militare.
Le forze italo-tedesche hanno ripreso l'avanzata, i Volontari fremono. Finalmente giunge l'ordine di occupare l'Oasi di Siwa in Egitto ed il 23 Luglio 1942 è occupata da una colonna della costituenda 136^ Divisone Corazzata "Giovani Fascisti". Il 21 Luglio un Battaglione di GG.FF aviotrasportato da Junkers 52 atterra nell'Oasi per completare l'occupazione. Siwa riveste particolare importanza strategica per azioni difensive contro eventuali attacchi alleati ma anche per azioni offensive come base di partenza per attacchi tendenti a raggiungere l'interno egiziano. Dall'Oasi partono diverse piste verso Giarabub e la Marmarica ad ovest e verso Bagarya, Sitra, Ain Zeitun ad est (km 370) è la più interessante perché ha ottimi collegamenti con la Valle del Nilo.
Il 30 Agosto il "Gruppo Battaglioni Giovani Fascisti" assume la denominazione di Reggimento "Giovani Fascisti". Il reparto viene schierato presso i vari passi e l'artiglieria divisionale attorno l'Oasi. La popolazione locale ha apprezzato il gesto di lasciare sventolare la Bandiera Egiziana accanto a quella Italiana. Il Mamur invita gli ufficiali ad un pranzo. Viene costituito un Ufficio Affari Civili utilizzando personale egiziano per tenere i contatti con i vari commercianti del luogo.
Il 22 Settembre il Feld Maresciallo Rommel ispezione la Divisione ed in un colloquio con gli Ufficiali Italiani si dimostra interessato alla pista che da Bagarya porta a Moghaga che prosegue sino alla Valle del Nilo ma anche verso la capitale egiziana, Il Cairo. In seguito si intrattiene poi coi le autorità egiziane presenti nell'Oasi. In serata "radio scarpa" comunica che il nemico sarà aggirato e i Volontari riprendono a cantare. Nel frattempo è giunta anche una compagnia del 3° reparto esplorante tedesco. La nuova 136^ Divisone sta prendendo la sua fisionomia con l'arrivo di truppe e mezzi vari mentre il nemico, per mezzo delle ricognizioni aeree, tiene in osservazione tutti gli spostamenti italo-tedeschi presso l'Oasi. Brevi scontri con pattuglie alleate causano lievi perdite mentre il pericolo più insidioso è la malaria che colpisce quasi tutta la guarnigione con circa 800 ricoveri ospedalieri.
Quando inizia l'offensiva ad El Alamein nel Reggimento cresce il malumore per il mancato combattimento e induce ben 825 volontari a chiedere il trasferimento presso reparti operativi con il risultato che l'aiutante Maggiore in I^ annulla tutte le richieste. L'esito sfortunato della battaglia induce il Comando Italiano a far ripiegare la 136^ Divisione.
Il 4 Novembre 1942 alcuni notabili egiziani esprimono il loro dispiacere per il prossimo ritiro dell'Esercito Italiano; il commerciante che riforniva la Divisione di frutta e verdura si presenta al Comando e restituisce le Lire Italiane avute come pagamento delle merci acquistate ma rifiuta le Sterline offertegli in cambio, aggiungendo "…per me è stato un onore avervi conosciuti…". Giunge il VI° Battaglione Libico che si trovava fra le depressioni di Qattara.
Il 6 Novembre, salutati da una parte della popolazione, la 136^ Divisione in due scaglioni inizia il ripiegamento che la porterà ad Agedabia (Libia) mentre il reparto tedesco ripiega verso Sollum. Le due colonne composte da circa 3000 uomini montati su 290 automezzi iniziano il ripiegamento e nella sosta a Giarabub si unisce il reparto che presidiava quest'ultima Oasi. Percorrendo circa 1200 Km su piste sconosciute e mai percorse da una intera Divisone, fu evitato l'accerchiamento da parte del nemico ma subendo due attacchi aerei che causarono diversi morti e feriti. Il ripiegamento si conclude ad Agedabia tra il 16 e il 18 novembre ed essendo il reparto ancora efficiente al 95% delle sue forze è messo in retroguardia allo schieramento italo-tedesco.Il Reggimento di schiera tra Marsa el Brega e El Agheila per poi ripiegare, sempre combattendo, a En Nufilia dove presso l'Ara dei Fileni avviene l'incontro coi Volontari del III°Battaglione che viene sciolto per reintegrare le perdite del I° e del II°. Il Reggimento prosegue fino ad assestarsi tra Buerat e Gheddaia dove avvengono scontri con il XXX° Corpo d'Armata Inglese. I Volontari lasciano due compagnie in retroguardia che si riuniscono a nord di Tarhuna dove avvengono brevi combattimenti con la 7^ Divisione Corazzata Inglese e la 2^ Divisione Neozelandese.
Il 25 Gennaio 1943 superando il confine con la Tunisia viene abbandonata con dolore la Libia. Il ripiegamento si arresta sulla ex linea fortificata del Mareth, sull'uadi Zig Zao, creata dai francesi per fermare un eventuale attacco italiano. E' protetta da un profondo fossato anticarro dove si attestano le Divisioni italo-tedesche. Il Reggimento GG.FF. è schierato verso il mare e a Marzo una compagnia di formazione partecipa all'operazione "Capri" subendo qualche perdita.
Tra il 17 e il 30 Marzo si combatte la battaglia del Mareth. Inizia con un violento bombardamento da parte delle forze alleate, cadono sotto l'attacco nemico alcuni capisaldi come il "Biancospino" che, data la sua posizione crea molti problemi al Reggimento. E' occupato dal 7° Battaglione Green Howard con elementi della 201^ Brigata Guardie Inglesi. Viene deciso di rioccuparlo: partono all'attacco due compagnie di formazione una composta dai volontari GG.FF. ed una dai Legionari CC.NN. del X° M (che era stato assegnato al Reggimento). Quest'ultimo viene preso d'infilata dal nemico e non può avanzare. A suo sostegno interviene il Capitano Baldassari, i combattimenti sono cruenti assalti all'arma bianca con lancio di bombe a mano e il caposaldo "Biancospino" è riconquistato. Molti sono i caduti tra i Volontari compresi due Ufficiali, uno tra i GG.FF. il secondo del X°M. In questo combattimento il III° Battaglione GG.FF. ha avuto il battesimo del fuoco. Dopo la riconquista del caposaldo un ordine inspiegabile del Comando del Corpo D'Armata obbliga l'abbandono della postazione. Il 23 Marzo un contrordine dello stesso invierà un reparto speciale per rioccupare il "Biancospino". A questo punto il Comandante del Reggimento GG.FF. precede tutti e invia una compagnia al comando del Capitano Niccolini (fratello di Ippolito, caduto a Bir el Gobi) che dopo due ore di cruenti combattimenti riesce a conquistare il caposaldo. Nel pomeriggio giunge il reparto inviato dal Comando: "…siamo gli assalitori, dobbiamo rioccupare il caposaldo Biancospino…". Il Colonnello Sechi risponde: "…è già stato rioccupato dai miei Volontari."
I combattimenti proseguono sino al 30 Marzo; per evitare l'accerchiamento lo schieramento italo-tedesco ripiega sulla linea Akarit Chott. La battaglia dura due giorni, il 5 e il 6 Aprile, poi è inevitabile la ritirata sull'ultimo baluardo di Enfidaville.
Questa è l'ultima linea di resistenza e i Volontari vengono schierati sulle quote 97-126-130-141. La prima battaglia di Enfidaville dal 19 al 30 Aprile 1943 inizia con un attacco massiccio dal cielo e da terra. Alle prime luci dell'alba del 25 Aprile, giorno di Pasqua, la 6^ Brigata Neozelandese con elementi della 167^ Brigata Guardie Inglese attaccano tutto il settore tenuto dai Volontari GG.FF., ma è la quota 141 che subisce la maggiore pressione. Essa è tenuta dalla 2^ Compagnia. Il Capitano Raumi organizza il contrattacco, la posizione e persa due volte ma viene riconquistata con violenti a corpo a corpo. Sul campo di battaglia vengono contati circa 150 nemici caduti, mentre le perdite del Reggimento tra morti, feriti e dispersi ammontano a 156. Molti gli episodi di valore. Tra tutti quello del Volontario Stefano David il quale, ferito e catturato dal nemico, viene sospinto dalle baionette inglesi con lo scopo di penetrare nelle linee dei Giovani Fascisti. Giunto nelle vicinanze delle postazioni dei Volontari e accortosi che questi gli andavano incontro per aiutarlo, trova la forza per rialzarsi e gridare: "2^ Compagnia fuoco! Sono nemici" e cade falciato assieme ai nemici. Verrà insignito di Medaglia d'Oro al Valor Militare. Il 29 Aprile la quota 141 è definitivamente riconquistata dai volontari della 3^ Compagnia che alla fine del combattimento sarà ridotta a soli 20 Giovani Fascisti.
La seconda battaglia di Enfidaville dal 9 al 13 Maggio 1943 è violenta e breve, i combattimenti si susseguono, le postazioni dei Volontari ora sono attaccate dalla 69^ Brigata Inglese. La lotta è impari ma la quota 141 è sempre teatro di cruenti scontri ma resta saldamente in mano ai Giovani Fascisti. I camerati della 90^ Divisione Tedesca si arrendono, i volontari del II° Battaglione GG.FF. occupano le postazioni abbandonate dall'alleato e continuano a combattere.
Il 12 Maggio giunge da Roma l'ordine di resa. A malincuore i Volontari accettano la decisione. In nottata seppelliscono le Fiamme di Combattimento del II° e III° Battaglione, mentre quella del I° è divisa in 17 parti (è stata ricostruita in parte a fine guerra e d'ora si trova esposta presso il Museo Reggimentale). Distruggono armi e bruciano il materiale che può essere utile al nemico. Molti reparti inviano telegrammi inneggianti alla Patria, al Re, al Duce, mentre i giovani fascisti volevano ancora combattere, infatti sul diario storico della 2^ Divisione Neozelandese si legge: "…finalmente il fronte tace. Solo su punto 141 il nemico è ancora attivo…". Quota 141 è occupata dai Giovani Fascisti che non persero alcuna delle posizioni loro assegnate.
Il 13 maggio 1943 sulla piana di Bou Fichà i resti del Reggimento sono passati in rassegna dal Colonnello Comandante del Reggimento e dal suo Aiutante in I^, tra lo stupore del nemico venuto a catturarli.
Il reparto perse la metà degli effettivi. Il Reggimento "Giovani Fascisti" è stato l'unico reparto del Regio Esercito Italiano ad essere composto da tutti Volontari ed anche l'unico reparto a non aver ricevuta la Bandiera di Combattimento. Il Reggimento ha onorato la tradizione militare Italiana.



Per saperne di più
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Cento anni della Rivoluzione di ottobre: l'assalto al cielo del comunismo





Hanno inventato il termine
stalinismo. Ma non c’è mai
stato nessuno stalinismo.
Fu un’invenzione di Krusciov
per attribuire a Stalin quelli
che sono invece i caratteri
fondamentali del comunismo,
le sue colpe congenite.
In realtà aveva già detto tutto
Lenin”.
Aleksander Solzenicyn

Premessa
Fu Lenin per primo a teorizzare e praticare il terrore al potere, nel 1922, in occasione della preparazione del codice penale sovietico scriveva: “Il tribunale non deve eliminare il terrore, prometterlo significherebbe ingannare se stessi e ingannare gli altri; bisogna giustificarlo, e legittimarlo sul piano dei principi, senza falsità e senza abbellimenti”. In Lenin, come in una matrioska russa, c’è già Stalin. Per il gulag,  si è cercato di negare le responsabilità all’ideologia ed al sistema che lo hanno generato addossandone la colpa a un loro momento e a un loro rappresentante, ecco l’invenzione dello “stalinismo".
E’ curioso notare che  il filosofo tedesco Habermas usi la reticente e vaga definizione di “espulsione” per lo sterminio staliniano dei kulaki che risale agli anni Venti, ed è a tutti noto che i kulaki nonfu rono semplicemente evacuati, ma proprio massacrati. Quando Luigi Berlinguer ricoprì l’incarico di Ministro della Pubblica Istruzione della Repubblica Italiana, emanò curiose circolari sull’insegnamento della storia del Novecento che eludono l’uso della parola comunismo, preferendo definizioni come stalinismo o sovietismo, questo suscitò una vivace polemica (si veda il libro Sostiene Berlinguer, con testi di Abbruzzese, De
 Michelis e Galli della Loggia che contiene anche una ricca appendice che riproduce i documenti ministeriali oggetto di critiche), continua il “depistaggio stalinista” denunciato da Solgenitsyn in Voci sotto le macerie. I vari comunismi sparsi nel mondo e lungo l’arco del secolo sarebbero dunque tutti surrogati, forme abusive di comunismo, illusioni ottiche, disguidi e tradimenti. Il comunismo resta così una magnifica promessa nell’alto dei cieli che non si è ancora incarnata nella storia. E’ pertanto indispensabile per una comprensione compiuta del comunismo ripristinare l’unità ideologica e la continuità storica del comunismo, a partire da Lenin.
Non si comprendono nè Stalin, né Mao, né Gramsci e nemmeno Gorbacev se non si parte da Lenin e non si restaura il senso di una continuità. Non si comprendono le espressioni multiple del comunismo mondiale se non si riannoda quel filo. Ma più vastamente non si comprende il secolo delle rivoluzioni se non partendo dalla scintilla, Iskra, scintilla si chiamava, appunto, la rivista da cui partì la rivoluzione, che Lenin accese nel 1903.

Iskra 
Non c’è frattura tra il leninismo e l’idea di egemonia in Gramsci, ma prosecuzione coerente in ambito occidentale della pretesa leninista di guidare la storia e le masse, incarnando lo spirito del tempo e sostituendo ogni altra aspirazione in ogni sfera pubblica e privata, a  cominciare dalla religione.
Ma non c’è frattura nemmeno tra il leninismo e il gulag, prosecuzione coerente della rivoluzione e del terrore che ebbero in Lenin il primo convinto interprete, non solo ideologico. Non si tratta di demonizzare il comunismo, e di caricare sulle sue spalle il peso dei mali della modernità, si tratta, all’inverso, di riconoscerne la portata e la grandiosa incidenza nella storia. Si tratta di prendere sul serio il comunismo.
L’idea di sopprimere la realtà, di estirpare la storia vera e di abolire la società presente, la responsabilità degli esiti dolorosi non può essere attenuata, nè attribuita alle circostanze o all’infame corso degli eventi. Laddove alcuni ritengono di cogliere il titolo di nobiltà del totalitarismo comunista, si annida al contrario il suo punto di inarrivabile crudeltà: l’idea dell’abolizione della storia, il sogno di una umanità mai nata e una società mai realizzata che nega radicalmente l’umanità concreta e la società vivente, è già il cuore del male totalitario allo stato puro, non dunque degradazione di principi, ma perfetta conseguenza di essi. Possiamo  accettare la distinzione di Giovanni XXIII tra l’errore e gli erranti e cioè di quanti al comunismo credettero in buona fede, a volte dedicandogli la loro vita e la loro passione intellettuale e civile. Anche le cause peggiori possono attirare gli uomini migliori. C’è una’antica parentela tra angeli e demoni. La sensazione di vivere in un inferno, genera disperanti speranze in altri inferni prossimi venturi, in cui si rovesciano le parti, e dannati e carnefici si scambiano i ruoli. Le utopie inoltre attraggono spesso nobili intelligenze e cuori disperati, tra i primi non sarà difficile trovare intellettuali che al comunismo credettero, salvo poi ricredersi e rovinare la loro esistenza per quel loro ravvedimento, tra i secondi non sarà difficile individuare le grandi masse di dannati della terra che affidarono al sogno di redenzione del comunismo le loro speranze di riscatto sociale, di dignità e di un radioso futuro per i loro figli ed il loro risentimento, la loro voglia di far scontare agli sfruttatori le sofferenze che avevano subito. L’espiazione, un’antica categoria religiosa introdotta nella storia, spiega una delle spinte psicologiche del comunismo.
Sul piano storico e negli assetti sociali, il comunismo è stato in alcuni Paesi un grande liquidatore di società arcaiche premoderne, e un grande traghettatore verso la modernizzazione capitalistica, quasi un taxi con tassametro impazzito (con costi esorbitanti) che ha trasferito le masse dalle comunità tradizionali alla società globale. 
A partire dalla Russia zarista, dove la rivoluzione comunista è stato un corso accelerato di modernità, come sosteneva lo stesso Trotzkj, che aveva fatto vivere, a tappe forzate, alla Russia le rivoluzioni politiche e sociali moderne: la rivoluzione francese ma anche la rivoluzione industriale, il terrore giacobino ma anche la ricerca scientifica e l’applicazione tecnologica. Il comunismo ha rappresentato per la Russia la transizione cruenta fra il mondo premoderno, asiatico e zarista, di cui pur aveva ereditato alcuni incantamenti magici e liturgici, alcune restrizioni etiche e morali e alcune ossessioni geopolitiche ed imperiali, e il mondo moderno delle ricerche spaziali, degli armamenti, delle
fonti energetiche, dell’economia come chiave del mondo. Il comunismo nasce dal progetto di adeguare la realtà ad una idea che diventa norma: da qui la normalizzazione come procedura standard del comunismo al potere e la sua versione debole e dolce di perseguire il sogno di un Paese normale di alcuni intellettuali e politici nelle democrazie d’Occidente.

Ottobre ‘17
Nella rivoluzione dell’ ottobre 1917 occorre distinguere tra due movimenti, momentaneamente convergenti: l’ascesa al potere, attraverso una accurata preparazione dell’insurrezione, del partito bolscevico, minoritario, che si differenzia radicalmente da tutti gli altri attori della rivoluzione, per prassi politica, organizzazione ed ideologia ed una diffusa rivoluzione sociale, multiforme ed autonoma caratterizzata dalla ribellione di uno sterminato numero di contadini, segnati da secoli di servaggio e povertà, che avevano radicato un odio profondo nei confronti dei proprietari terrieri e caratterizzata da una profonda diffidenza contadina verso la città, il mondo estraneo alle comunità di appartenenza e quindi verso ogni forma di ingerenza dello Stato.
Inoltre l’estate e l’autunno del 1917 rappresentano il compimento alla fine vittorioso di tutta una serie di rivolte iniziate nel 1902, e caratterizzanti gli anni dal 1905 al 1907 .
L’ottobre ‘17 fu l’anno della svolta nello scontro tra contadini e latifondisti per l’assegnazione delle terre, arrivava infine la tanto attesa “ripartizione nera”, ma anche l’anno che segnò uno dei momenti della lotta delle campagne che opponevano un rifiuto ad ogni forma di tutela imposta dal potere residente nei centri urbani, tra contadini e Stato. Un conflitto che ebbe in seguito i suoi momenti culminanti nel 1918-22 e poi ancora negli anni 1929-1933, per finire con l’annientamento del mondo rurale, troncato alle radici dalla collettivizzazione forzata delle terre. Il 1917 si caratterizza anche per la completa disgregazione dell’esercito, formato
da 10 milioni di contadini, chiamati a combattere da tre anni una guerra di cui non comprendevano il senso, e motivati a far ritorno alle proprie comunità rurali di appartenenza.
Nelle città dove si concentrano gli operai, che rappresentano solo il 3% della popolazione attiva, in un ambiente che vive tutte le contraddizioni sociali di una modernizzazione economica avviata da non più di una generazione, nasce un movimento di rivendicazione operaia, che agisce politicamente e tende alla conquista del potere (“potere ai soviet”). I popoli assoggettati dall’ ormai ex impero zarista tornano a reclamare dapprima autonomia e poi l’indipendenza. E' questo il contesto dove forze diverse e dai fini eterogenei, che è impossibile ricomprendere nella sola azione e negli slogan dei bolscevichi, contribuiranno a far dissolvere ogni forma di istituzione tradizionale e in generale ogni forma di autorità. In questa fase il colpo di Stato politico e la rivoluzione sociale convergono e sommano le loro forze, i bolscevichi minoranza politica che opera in un sempre più ampio quadro di vuoto istituzionale, procedono nel senso delle aspirazioni generali della maggioranza delle forze in campo, ma i loro obiettivi per l’immediato futuro sono radicalmente diversi.
La prima guerra mondiale rivelò tutta la fragilità del regime zarista, la cui modernizzazione incompiuta, rendeva la Russia dipendente dall’estero per afflusso di capitali e tecnologie, l’avanzata dei tedeschi e degli austro ungarici sin dal 1915 impedì l’arrivo dei prodotti dell’industria polacca peggiorando ulteriormente la situazione, l’economia non resse a lungo. Il sistema dei trasporti ferroviario si stava sgretolando sin dal 1915, mancavano i pezzi di ricambio, la riconversione a scopo bellico di quasi tutte le fabbriche diede il colpo di
grazia al mercato interno. Mancavano i prodotti manifatturieri e l’inflazione salì alle stelle.
Nelle campagne la situazione precipitò rapidamente con il blocco del credito agricolo e della riforma terriera, la mobilitazionedi massa degli uomini in un esercito dove il soldato era trattato più da schiavo che da persona,tutto ciò confermò l’idea che i contadini avevano dello Stato, una forza ostile ed estranea.
Alla fine del 1915 nessuno era più in grado di controllare la situazione, non esisteva più nessun potere, e si andavano organizzando in ogni dove comitati e associazioni che si sostituivano nell’ amministrazione del quotidiano, cosa che lo stato non riusciva più a garantire, si era avviato un grande movimento scaturito dal profondo della società russa la cui evoluzione nessuno era ancora di immaginare appieno, e che sicuramente non fu compreso dallo czar Nicola II, che isolato a Mogilev sede del quartiere generale, aveva di fatto rinunciato a dirigere il paese, lasciando spazio alla Imperatrice Alessandra, che non godeva nel popolo alcuna simpatia per la sua origine tedesca.
Nel 1916 tornarono gli scioperi, fu ucciso Rasputin, il discusso consigliere dell’imperatrice Alessandra, le agitazioni si estesero all’esercito.
Le giornate del febbraio del 1917 rivelarono non solo la estrema debolezza del sistema zarista, travolto dopo cinque giorni di manifestazioni operaie e l’ammutinamento di alcune migliaia di uomini della guardia di Pietrogrado e lo stato di decomposizione dell’esercito, ma anche l’estrema impreparazione e frammentazione delle forze di opposizione, dal Partito costituzional democratico fino ai socialdemocratici.
Le forze dell’opposizione non furono mai alla guida degli avvenimenti in nessuna di questa fase di questa rivoluzione popolare spontanea cominciata nelle strade e conclusa nelle stanze di palazzo Tauride. Liberali e socialisti coltivavano opzioni diverse, l’obiettivo di una russia capitalista, moderna e liberale che guardava alla Francia e all’Inghilterra i primi, mentre per i secondi si prefigurava nel tempo, essendo scoppiata la rivoluzione borghese, la ditttaura del proletariato.
Se da un lato il governo provvisorio pareva preoccupato di ristabilire un minimo di ordine e aveva scelto la via parlamentare, dall’altro il potere del Soviet di Pietrogrado, costituito da un gruppo di socialisti che si annunciava erede della tradizione del Soviet di Pietroburgo del 1905, affermava il principio di rappresentare le masse più direttamente ed in senso rivoluzionario. Il “potere dei soviet” era in verità rappresentato da una galassia in continuo fermento, movimento e cambiamento. I tre governi provvisori che si succedettero dal 2 marzo al 25 ottobre 1917, con i liberali in maggioranza nei primi due  e i socialisti rivoluzionari nel terzo, si dimostrarono incapaci di far fronte alle problematiche che attanagliavano il Paese: crisi economica, proseguimento della guerra, questione operaia e questione agraria. Era salita al potere una èlite urbana colta, divisa tra una fiducia cieca nel popolo e la paura delle masse oscure, una realtà quella del popolo che peraltro questa èlite cittadina, formata sia da liberali che da socialisti rivoluzionari, conosceva pochissimo.
Il principe L’Vov, a capo dei primi due governi provvisori sognava di fare della Russia “il Paese più libero del mondo”, un’idealistica dichiarazione, che però dimostra l’evidente scollegamento con una realtà che a breve dimostrerà l’avvenuto esatto contrario.
Il governo provvisorio moltiplicò i provvedimenti democratici, ma rimandò ad un’assemblea costituente, che sarebbe stata eletta nell’autunno ‘17, le decisioni su due problemi centrali: la pace, la terra.
Mentre continuava il dissolvimento dell’economia la società continuò ad organizzarsi ed in poche settimane si formarono a migliaia soviet, comitati di fabbrica, di quartiere, gruppi di milizie armate, le Guardie rosse, comitati di contadini, di soldati, di cosacchi, di massaie, era una situazione di assemblea permanente, agli antipodi della democrazia parlamentare, una grande festa di liberazione, dove ad essere liberato fu anche l’ odio e il risentimento da decenni accumulato, che nel corso dell’anno 1917 radicalizzò progressivamente rivendicazioni e fermenti.
Gli operai rivendicavano il controllo della produzione, anche i soldati reclamavano un potere nuovo ed inedito, non conoscevano nè comunismo, nè proletariato, nè la costituzione, volevano la pace, la terra, la libertà di vivere senza leggi, senza ufficiali, senza proprietari terrieri, una libertà senza remore, il loro bolscevismo era in realtà più vicino all’anarchia.
Dal giugno all’ottobre del 1917, più di due milioni di soldati abbandonarono un esercito sulla via della dissoluzione e tornarono ai loro villaggi, alimentando disordini nelle campagne. Durante l’estate i disordini si fecero sempre più violenti, di fronte l’immobilità del governo, i comitati agrari che si erano costituiti nei villaggi e nei distretti, presieduti in gran parte da membri dell’intellighentia rurale vicina ai socialisti rivoluzionari, non riuscirono più a trattenere la base, i contadini andarono all’assalto delle proprietà feudali, che furono incendiate a migliaia e centinaia di proprietari terrieri massacrati, presero possesso di boschi, pascoli e terreni incolti. A farne le spese furono anche i kulaki, obiettivi primari della propaganda bolscevica che li definiva rapaci, usurai, succhia sangue, sebbene il kulak di fatto non esistesse più visto che era stato costretto a restituire alla comunità del villaggio la maggior parte del bestiame, delle macchine, delle terre, che vennero riversate nel fondo comune e ripartite secondo il principio delle numero delle bocche da sfamare.
Di fronte alla vastità di una simile rivolta sociale, si inserì il fallito tentativo di colpo di stato del generale Kornilov, a cui si oppose il governo provvisorio presieduto da Aleksandr Kerenskij, ma ormai lo Stato era scomparso, per cedere il posto ad una miriade di comitati, soviet ed assemblee. In questo vuoto istituzionale si inserì l’azione di un nucleo organizzato e deciso che in breve arrivò ad esercitare un’autorità sproporzionata rispetto alla sua forza reale: il Partito bolscevico. Fin dal 1903 anno della sua fondazione, i bolscevichi si distinsero all’interno del panorama della socialdemocrazia russa ed europea per la loro strategia di rompere per sempre con l’ordine esistente e per la concezione di un partito fortemente strutturato, disciplinato, elitario ed efficiente, costituito da rivoluzionari di professione. Secondo le idee di Lenin la rivoluzione sarebbe potuta realizzarsi più facilmente in Russia, dove l’economia era meno sviluppata che non dove il capitalismo era più forte, invertendo così i termini del dogma marxista, purché il processo fosse guidato da un elite disciplinata e disposta ad arrivare sino in fondo e cioè a instaurare la dittatura del proletariato e a trasformare la guerra imperialista in guerra civile.
Dopo la rivoluzione di febbraio alla quale non avevano preso parte alcun dirigente bolscevico di una certa nota, in quanto erano tutti in esilio o all’estero, Lenin fu contrario alla politica di conciliazione con il governo provvisorio, operata dal soviet di Pietrogrado governato da una maggioranza di socialisti rivoluzionari e socialdemocratici, e nel marzo 17 pretese la rottura di ogni rapporto con il governo provvisorio e l’attiva preparazione della rivoluzione proletaria, avendo, secondo Lenin, la rivoluzione, con l’apparizione del soviet già superato la prima fase, quella della rivoluzione borghese.
Era il tempo di prendere il potere , uscire dalla guerra, che avrebbe dovuto mutarsi in guerra civile, un passaggio ineludibile in ogni processo rivoluzionario. Una volta tornato in Russia, nelle celebri Tesi di aprile, Lenin, non fece altro che ribadire la propria incondizionabile ostilità alla repubblica parlamentare e al processo democratico, raccogliendo parecchi consensi fra i nuovi militanti del partito, ed in pochi mesi la vecchia classe dirigente urbanizzata ed intellettuale, formata nelle lotte sociali istituzionalizzate, fu rimpiazzata da militanti di origine popolare, fra cui i soldati contadini, con una scarsa formazione politica, portatori di una forte componente di violenza radicata nella cultura contadina ed esasperata da tre anni di conflitto, che non si chiedevano affatto se la tappa borghese fosse o meno necessaria prima di passare al socialismo.
Quelli che Stalin chiamava praktik, i pratici, per i quali l’unica questione veramente all’ordine del giorno era la conquista del potere. Il partito bolscevico rimase diviso sulla strategia da adottare, anche la disciplina di partito andò piuttosto sfrangiandosi, e nel luglio del ‘17 a Pietrogrado le spinte esplosive della base rischiarano di travolgere tutto il partito, che venne
dichiarato fuorilegge ed i suoi dirigenti arrestati o esiliati come lo stesso Lenin. Dal suo esilio finlandese Lenin continuò a lanciare appelli all’ insurrezione.
Molti dirigenti bolscevichi rimanevano scettici, in fondo la progressiva radicalizzazione della situazione giocava a loro favore, sarebbe bastato mantenere il contatto con le masse, incoraggiare la violenza spontanea e lasciar agire le forze disgregatrici ,aspettare il II Congresso Panrusso, dove la rappresentanza dei soviet dei grandi centri operai e dei comitati dei soldati era superiore a quella dei soviet rurali dove erano maggioritari i socialisti rivoluzionari .
A questa possibilità era fortemente avverso Lenin che da sempre andava reclamando il potere completo per i bolscevichi, e quindi mal digeriva di dividerlo con le altre formazioni socialiste,
Era necessario agire prima del II Congresso con un’insurrezione armata, agli altri partiti sarebbe rimasta solo la scelta di condannare l’insurrezione e quindi di schierarsi all’opposizione lasciando tutto il potere ai bolscevichi. Il 10 ottobre, Lenin rientrato in Russia riunì 12 dei 21 membri del Comitato centrale del partito bolscevico e 10 ivotarono a maggioranza, con i voti contrari di Zinov’ev e Kamenev, un documento in cui si accettava il principio di un ‘insurrezione armata da scatenare al più presto. Il 16 ottobre Trockj organizzò una struttura militare il Milrevkom, il Comitato militare rivoluzionario di Pietrogrado, con il compito di prendere il potere con un insurrezione di tipo militare, cosa ben diversa da un insurrezione popolare spontanea che sarebbe potuta sfuggire di mano ai bolscevichi. Il numero dei partecipanti, così come voluto da Lenin, fu abbastanza esigua, alcune migliaia tra soldati della guarnigione di Pietrogrado, marinai di Kronstat e Guardie rosse riunite nel Milrevkom, ed alcune centinaia di militanti bolscevichi dei comitati di fabbrica.
Il potere fu preso facilmente dal Milrevkom, che non dipendeva in alcun modo dal Congresso dei soviet, su unico mandato del Comitato centrale bolscevico. Le previsioni di Lenin si rivelarono giuste , i socialisti moderati dopo avere denunciato la congiura militare che era stata perpetrata alle spalle dei soviet si ritirarono dal iI Congresso lasciando buon gioco ai bolscevichi, rimasti in gran numero insieme alla sparuta pattuglia di socialisti rivoluzionari di sinistra rimasti i loro unici alleati, che ottennero dai deputati ancora rimasti l’approvazione di un testo presentato da Lenin in cui si attribuiva tutto il potere ai soviet, il congresso prima di sciogliersi proclamò il nuovo governo bolscevico, il Consiglio dei commissari del popolo, presieduto da Lenin, e approvò i primi decreti sulla pace e sulla terra, i primi atti del nuovo regime.
Sulla questione della terra i bolscevichi che da sempre avevano sostenuto la nazionalizzazione, dovettero prendere atto della realtà che li vedeva minoritari nel mondo rurale ed accettare la prospettiva dei socialisti rivoluzionari, approvando la distribuzione della terra ai contadini.
Nel decreto approvato dal nuovo governo bolscevico si proclamava l’abolizione della proprietà privata della terra, senza indennità, e che tutte le terre sarebbero state messe a disposizione del Comitati agrari per la distribuzione, in realtà il decreto riguardo la violenta espropriazione delle terre dei latifondisti e dei kulaki, avvenuta dopo alla fine dell’estate del 11917.  I bolscevichi costretti dalla realtà a consentire alle ragioni della rivolta contadina autonoma, ripresero il loro programma originario appena dieci anni dopo, lo scontro tra il regime instaurato nell’ottobre ‘17 ed il mondo contadino si concluse tragicamente con la collettivizzazione forzata delle campagne.
In poche settimane i bolscevichi subordinarono o eliminarono tutte quelle istituzioni che attraverso la grande rivolta spontanea avevano contribuito a disgregare l’ordine preesistente, dai Comitati di fabbrica a quelli di quartiere, dai sindacati, ai partiti, per finire con i soviet.
Il “potere ai soviet”, si era rapidamente trasformato in un potere del Partito bolscevico sui soviet, Il potere degli operai sulla produzione, invocato dai proletari pietrogradesi e degli altri centri industriali presto si trasformò in controllo dello Stato su imprese e lavoratori. Dopo il dicembre ‘17 si verificarono un gran numero di scioperi e di manifestazioni operaie. In breve tempo i bolscevichi persero moto di quel consenso di cui avevano goduto per tutto il 1917 tra i lavoratori, che vivevano in condizioni da fame, e mal comprendevano l’efficientismo economico perseguito dallo Stato bolscevico. A pochi mesi dal colpo di Stato bolscevico molti popoli dell’ ex impero zarista avevano dichiarato la propria indipendenza e alcuni anche combattuto duramente per ottenerla, così polacchi, finlandesi, lettoni, lituani, estoni, ucraini, georgiani, armeni, azeri. Ben presto si capì che il nuovo Stato sul piano geopolitico,si affermava come erede dell’ex impero zarista, il grano ucraino, il petrolio e i minerali del Caucaso, i porti baltici diventano vitali per sostenere il ruolo imperiale.
Ben presto il Partito bolscevico che escludeva ogni condivisione del potere, arrivò allo scontro finale con le forze presenti nella società che non condividevanoi suoi scopi o che tali scopi non comprendevano affatto e si scatenarono violenza e terrore.


I nemici del popolo
Ill nuovo assetto del potere bolscevico, al di là della retorica del “potere ai soviet” formalmente rappresentato dal Comitato centrale esecutivo, verteva sul Consiglio dei commissari del popolo, organo del governo, che cercava legittimazione sia interna che all’estero, e dal Comitato militare rivoluzionario, il Milrekom che era stata la struttura operativa nella conquista del potere.
Così Feliks Dzerzinskj, che fin dall’inizio vi svolse un ruolo decisivo, e che in seguito fu chiamato da Lenin a dirigere la Ceka, la polizia segreta bolscevica, descriveva il Milrevkom: “Una struttura leggera, flessible, operativa all’istante, senza giuridicismi pignoli. Nessuna restrizione nell’agire, per colpire i nemici con il braccio armato della dittatura del proletariato”. Il Milrevkom, composto da una sessantina di membri, agiva tramite una rete di mille “commissari” nominati negli organismi più disparati, dal 26 ottobre iniziò in tutta autonomia a prendere provvedimenti che consolidassero la dittatura del proletariato, provvedimenti che andavano dal divieto di diffondere opuscoli “controrivoluzionari”, alla chiusura dei sette più importanti giornali della capitale, al controllo di radio e telegrafo a progetti di requisizione di appartamenti e automobili private. La chiusura dei giornali fu approvata, dopo un paio di giorni da un decreto del governo, confermato dopo una settimana ed aspro dibattito dal Consiglio esecutivo centrale dei soviet.
La definizione del concetto di “nemico del popolo apparve per la prima volta in un documento del Milrevkom del 13 novembre in cui si dichiarava gli alti funzionari dello Stato, delle banche, del Tesoro, delle ferrovie, delle poste e telegrafi, nemici del popolo e che i loro nomi sarebbero stati pubblicati sui giornali ed esposti in ogni luogo pubblico.
Seguì a breve un altro proclama: “Tutti gli individui sospetti di sabotaggio, speculazione, accaparramento, potranno essere arrestati sul posto come nemici del popolo e associati nelle carcere di Krondstat”.I n pochi giorni il Mirevkom aveva introdotto due concetti preoccupanti, quello di nemico del popolo e quello di sospetto.
Concetto di nemico del popolo che ebbe valore legale con il decreto emesso da Lenin il 28 novembre in cui stabiliva che i membri del partito Costituzionaldemocratico, partito dei nemici del popolo, erano dichiarati fuorilegge, passibili di arresto immediato e giudicati dai tribunali rivoluzionari.
Questi tribunali erano stati di recente istituiti, con il Decreto n.1 sui tribunali, in cui si sanciva l’abolizione di tutte le leggi in contrasto con i decreti del governo bolscevico, l’abolizione dei programmi politici dei Partititi socialdemocratico e socialista rivoluzionario In attesa del nuovo codice penale, i tribunali del popolo dovevano valutare la legge esistente in conformità dell’ordine e della legalità rivoluzionaria, un concetto così vago da consentire ogni tipo di abuso. Tali tribunali erano intesi come organi della lotta contro la controrivoluzione, più preoccupati di estirpare che di giudicare.
Nel frattempo cresceva l’organizzazione del Comitato militare rivoluzionario di Pietroburgo, in una città ridotta alla fame, il rifornimento era una delle primarie necessità.
Il 4 novembre fu creata la Commissione per il vettovagliamento, distaccamenti di soldati, marinai, Guardie rosse, operai, furono inviati nelle province agricole per procurare prodotti alimentari per Pietrogrado e per il fronte.
Si andava prefigurando la requisizione generale imposta per tre anni dall’ esercito per il vettovagliamento, che fu il fattore determinante a scatenate lo scontro tra il potere bolscevico il il mondo contadino che sarebbe esploso con una violenza ed un terrore inimmaginabile.
IL 10 novembre fece la sua comparsa una nuova Commissione militare d’inchiesta, creata per arrestare gli ufficiali controrivoluzionari ,i membri dei partiti borghesi, i funzionari sospetti di sabotaggio, in realtà finì per occuparsi di tutto, ed ogni giorno centinai di individui venivano mandati di fronte alla Commissione per rispondere dei reati più diversi, saccheggio, speculazione, accaparramento di prodotti di prima necessità, stato di ebbrezza, appartenenza ad una classe ostile, in una città ridotta ormai alla fame, dove imperversavano Guardie rosse e milizie improvvisate, la violenza spontanea fino ad allora alimentata dai bolscevichi stava rischiando di avere il sopravvento. Il Milrevkom creò una Commissione di lotta contro l’ubriachezza e i disordini che il 6 dicembre dichiarò lo stato di assedio e il coprifuoco “per mettere fine a disordini o sommosse fomentati da loschi elementi che si mascherano da sedicenti rivoluzionari.” Ma la maggiore preoccupazione per il Governo bolscevico era rappresentata dallo sciopero dei funzionari, che era iniziato il giorno stesso del colpo di stato del 25 Ottobre. Il 7 dicembre, pochi giorni dopo lo scioglimeto del Milrevkom, che aveva svolto il suo compito, venne creata la Veserossijskaia Crezycajaja Kommissja po bor’be Kontrrevoljucej, Spekuljaciej i Sabotezem, la Commissione staordinaria panrussa di lotta contro la controrivoluzione, la speculazione e il sabotaggio, la Veceka, tristemente nota anche come con l’abbreviazione Ceka, la polizia segreta bolscevica, a dirigere la quale venne nominato Feliks Dzerzinskij, che aveva perfezionato le sue competenze nel Milrevkom.
Il decreto di approvazione della Ceka non fu mai pubblicato, si stava avvicinando la data dell’Assemblea costituente, dove i bolscevichi erano in minoranza e apparentemente non volevano contribuire a creare tensioni.
Di fatto la Ceka, aveva le mani libere di agire senza “pignolerie giuridiche” così come era nella visione di Dzerzinskij, doveva rispondere dei suoi atti unicamente al Governo del Commissari del popolo.
Tra la fine del 1917 e i primi mesi del 1918 non esisteva più alcuna reale opposizione al potere dei bolscevichi che controllavano il centro nord della Russia e numerose grandi città sin nel Caucaso ed in Asia centrale. L’Ucraina e la Finlandia si erano dichiarate indipendenti, ma non costituivano un pericolo milItare per il potere bolscevico a cui si opponevano in realtà solo i circa 3.000 uomini costituenti l’Esercito dei volontari, organizzato dai generali zaristi Kornilov e Alekseev nel sud della Russia che andrà a costituire il primo nucleo della futura Armata Bianca. e che speravano nella rivolta della popolazione contadino-guerriera della steppa, i cosacchi
I cosacchi avevano uno status diverso rispetto agli altri contadini russi, infatti sotto lo czar, in cambio del servizio nell’ esercito prestato fino all’ età di 36 anni, ricevevano 30 ettari di terra, i cosacchi non pretendevano altre terre, ma erano ben decisi a non farsi portare via quelle che già possedevano, nella primavera del 18 si uniranno ai volontari antibolscevichi per conservare le loro terre, la loro indipendenza, preoccupati delle idee espresse conto il Kulak dai bolscevichi.
Tra la primavera 1917 e l’inverno del 18 avvennero i primi scontri tra i reparti bolscevichi del general Sivers. che non raccoglievano più di 6.000 uomini e il piccolo Esercito dei volontari. La repressione bolscevica fu feroce e riguardò non solo militari, ma soprattutto civili, insieme a junkers ed ufficiali bianchi, perirono uomini politici, avvocati, giornalisti, professori, elementi borghesi, considerati nemici del popolo. L’esempio da imitare, come più volte dichiarato dai leader bolscevichi era quello del terrore rivoluzionario applicato dalla Rivoluzione francese del 1789, contro i suoi oppositori, da molti veniva evocato l’esempio della Vandea, dove i giacobini arrivarono a praticare uno sterminio pianificato che non risparmiò nemmeno i neonati e le donne che, bruciate a fuoco lento, divennero sapone per la francia rivoluzionaria.
La prima azione della Ceka fu l’arresto dei capi dello sciopero dei funzionari di Pietrogrado tra cui un certo numero di deputati socialisti rivoluzionari e menscevichi eletti nell’Assemblea costituente.
L’Assemblea costituente che si riunì il 6 gennaio 1918, dove i bolscevichi erano fortemente minoritari fu sciolta con la forza, in poche ore, il bilancio della giornata fu di 20 morti.
Mentre a Brest Litovsk Trockij, e Kamenev tattavano la pace con gli imperi centrali il 9 gennaio il Governo discuteva del trasferimento della Capitale a Mosca non tanto per la paura dei tedeschi, l’armistizio era entrato in vigore dal 15 dicembre, ma per il pericolo di una insurrezione operaia, nelle masse operaie di Piertogrado che avevano sostenuto i bolscevichi sino a pochi mesi prima, covava molto scontento, la fine delle commesse di guerra aveva portato al licenziamento di decine di migliaia di lavoratori, la mancanza di cibo aveva portato la razione quotidiana di pane ad appena 100 grammi. .
Trockij, appena tornato da Brest Litovsk, il 31 gennaio fu messo a capo di una Commissione
straordinaria per il vettovagliamento.
La capitale fu trasferita a Mosca il 10 marzo 1918, la Ceka si insediò nella sede di una compagnia di assicurazioni in via Bol’saja Lubjanka, lì sarebbe rimasta , assumendo varie sigle GPU, NKVD, MVD, KGB, fino al croLlo dell’Unione Sovietica. La prima operazione in grande stile della Ceka fu condotta da oltre 1000 uomini dei suoi corpi speciali contro una ventina di case di anarchici, nella notte tra l’11 e il 12 aprile 1918, 530 furono arrestati, 25 furono fucilati sul posto come banditi, denominazione che da quel giornò indicò chiunque si opponesse alla realizzazione dei piani bolscevichi. Tra il tentativo di ricostruire un minimo di mercato che ripristinasse lo scambio tra città e campagna i bolscevichi scelsero le requisizioni forzate, convinti che fosse necessario procedere allo smantellamento del vecchio ordine, attraverso la guerra civile evocata da Lenin , Trockij e gli altri compagni. Tra il maggio e il giugno ‘18, vennero approvati due provvedimenti che furono alla base dell’inizio della guerra civile, il cosiddetto comunismo di guerra. Con il primo venne organizzato un vero e proprio esercito del vettovagliamento che nella fase culminate nel 1920 arrivò a contare 80.000 uomini, in gran parte formato da operai pietrogradesi disoccupati, attirati da un buon salario e da una quota proporzionale alla quantità di cereali sequestrati; il secondo istituiva i comitati dei contadini poveri che avrebbero affiancato le squadre di vettovagliamento nelle requisizioni ai contadini benestanti, partecipando anch’essi alla spartizioni in natura, inoltre questi comitati erano in teoria destinati sostituire i soviet rurali fedeli ai socialisti rivoluzionari.
I boscevichi sapevano poco del mondo contadino, secondo uno schematismo proprio del marxismo semplicistico che adottavano, li pensavano in classi antagoniste, mentre nel mondo contadino valevano ancora i legami comunitari e solidaristi, per cui l’onere delle requisizioni venne ripartito su tutti i membri della comunità e questo riguardò tutti, non solo i contadini benestanti.
Inoltre la squadre di vettovagliamento agirono, spalleggiate dai cekisti o dall’esercito con una tale brutalità da scatenare vere e proprie resistenze armate. Tra il luglio e l’agosto del 1918 scoppiarono 110 rivolte contadine, le rivolte di Kulak, secondo la definizione dei bolscevichi, ma che in realtà erano rivolte di intere comunità di villaggio. Nei tre anni di politica delle requisizioni ce ne furono migliaia, che scaturirono in vere e proprie guerre, e furono represse con una feroce violenza.
L’indubbia capacità organizzativa dimostrata dai bolscevichi si accompagnò ad una realtà, condita di carrierismo, odio, corruzione, ed in cui la radicata violenza della società russa, sfociava spesso in stupri di massa. Una situazione in cui avevano un ruolo non secondario l’uso diffusissimo di alcolici e l’utilizzo in certi casi di cocaina. Nella primavera del 1918 furono definitivamnete chiusi tutti i giornali non bolscevichi, i soviet con una maggioranza mescevica o socialista rivoluzionaria furono sciolti con la forza, ed i membri dei due partiti espulsi dal Comitato esecutivo panrusso dei soviet. gli oppositori arrestati e numerosi scioperi, marce della fame,e sommosse operaie represse,operazioni in cui sempre più diviene protagonista la Ceka.
La Ceka nel 1918 contava di 12.000 uomini divisi in 43 sezioni locali, agli inizi del 21 sarebbero diventati oltre 180.000, ed una vastissima area di competenze.
Il 13 giugno fu ufficialmente rientrodotta la pena di morte, abolita con la rivoluzione del 17 (Lenin era fortemente contrario), e reintrodotta da Kerenskij nelle sole zone di guerra, ma applicata normalmente dalla Ceka senza pignolerie giuridiche, l’ammiraglio Castnij fu il primo controrivoluzionario fucilato legalmente.
Per il popolo russo la situazione economica non era andato migliorando sotto il governo bolscevico, anzi andò peggiorando ed inoltre stavano perdendo quelle libertà acquisite nella rivoluzione dl 1917. per i contadini i bolscevichi che avevano legittimato l’occupazione della terra erano diventati i comunista che tolgono anche il sangue al contadino, negli operai le parole d’ordine e gli slogan parlavano di nuova Ohrana (polizia segreta zarista) al servizio della commissariocrazia. Il 20 giugno con l’uccisione di uno dei capi Bolscevichi di Pietrogrado, si intensificò la repressione operaia, agli scioperi , i bolscevichi risposero con la serrata delle grandi fabbriche nazionalizzate, l’Assemblea dei plenipotenziari operai, vero contro potere rispetto al soviet di Pietrogrado fu sciolta, in due giorni furono arrestati oltre 800 individui. Uno sciopero generale fu convocato per il 2 luglio 1918.

Il terrore rosso
Nell’ estate del 1918 i bolscevichi ebbero la percezione che il loro potere fosse in pericolo, di fatto esercitavano il loro controllo sulla Moscovia storica, ma intanto si erano consolidati tre fronti antibolscevichi: nella regione del Don controllata dai cosacchi dell’atamano Krasnov e dall’Armata bianca del generale Denikin; in Ucraina tenuta dai tedeschi e dalla Rada, il governo nazionale ucraino; mentre la Legione ceka controllava, con l’appoggio del governo socialista rivoluzionario di Samara, la maggior parte delle città lungo la Transiberiana.
Nel territorio più o meno controllato dai bolscevichi, nell’estate del 1918, scoppiarono circa 140 grandi rivolte o insurrezioni. In stragrande maggioranza spontanee, solo a Jaroslavl’, Rybinsk e Murom ci fu dietro l’organizazione dell’Unione di difesa della patria del dirigente socialista rivoluzionario Boris Savinkov, mentre la rivolta degli operai delle fabriche d’armi di Izevsk fu ispirata da elementi mescevichi e socialisti rivoluzionari locali. In realtà si trattava di rivolte di intere comunità di villaggio che si opponevano alla brutalità delle requisizioni delle squadre di vettovagliamento, alle limitazioni contro il commercio privato, o all’arruolamento forzato nell’Armata rossa. Le rivolte contadine, che i bolscevichi interpretavano come una vasta congiura controrivoluzionaria ordita da Kulak, travestiti da Guardie bianche, furono soffocate nel sangue in pochi giorni da Guardie rossse e reparti cekisti. Nella sola città di Jaroslav, l’unica che riuscì a resistere per 15 giorni, una commissione speciale della Ceka fucilò fra il 24 e il 28 luglio 1918 428 persone.
Per tutto l’agosto 1918 Lenin e Dzerzinskij inviarono un gran numero di telegrammi ai responsabili locali della Ceka o del Partito, “Compagni!- scriveva Lenin il 10 agosto al Comitato esecutivo del Soviet di Pensa-L’insurrezione dei Kulak nei vostri cinque distretti dev’essere soffocata senza pietà. Lo esigono gli interessi della rivoluzione intera, perché è cominciata dappertutto la “battaglia finale”contro i kulak. Bisogna dare un esempio. 1. Impiccare (e dico impiccare in modo che tutti vedano) non meno di 100 kulak, ricconi, notori succhiasangue. 2. Pubblicarne i nomi. 3. Appropriarsi di tutto il loro grano. 4. Individuare gli ostaggi, come abbiamo scritto nel telegramma di ieri. Fate così in modo che tutti lo vedano, per centinaia di leghe tutto intorno, e tremino, e pensino: questi ammazzano e continueranno ad ammazzare i kulak assetati di sangue. Telegrafate che avete ricevuto ed eseguito queste istruzioni. Vostro Lenin. P.S. Trovate elementi più duri”.
I bolscevichi cercarono di applicare “misure preventive” per arginare qualsiasi tentativo di insurrezione, Dzerzinkij, a capo della Ceka, riteneva che “le più efficaci sono la cattura degli ostaggi scelti nella borghesia, l’arresto e la reclusione in campi di concentramento di tutti gli ostaggi e i sospetti”. Il 9 agosto Lenin telegrafò al Comitato esecutivo del Soviet di Pensa ordinando di “applicare implacabile terrore di massa contro kulak, pope, Guardie bianche; rinchiudere i sospetti in un campo di concentramento fuori città”.
Tra i primi a subire l’arresto preventivo furono gli ultimi dirigenti del partito mescevico ancora liberi: Martov, Dan, Potresov, Gol’dman.
Il 30 agosto 1918, ci furono due attentati a Pietrogrado, uno contro Urickij, a capo della Ceka locale, e l’altro contro Lenin. In realtà tra i due episodi non vi è alcun collegamento, il primo fu compiuto da uno studente che voleva vendicare la morte di un suo amico ufficiale, assassinato pochi giorni prima dalla Ceka, l’altro attribuito a Fannie Kaplan, militante vicina agli anarchici e ed ai socialisti rivoluzionari, che fu arrestata e giustiziata senza processo, sembra ormai certo che si trattasse di una provocazione ordita dalla Ceka e sfuggita di mano ai suoi organizzatori.
Seguirono appelli alla mobilitaziione ed al terrore di massa, “L’inno della classe operaia sarà un canto di odio e di vendetta”pubblicava la Pravda il 31 agosto, mentre sull’Izvestija del 3 settembre Dzerzinskij e il suo vice Peters, pubblicarono un appello alla classe operaia dello stesso tenore: “Che la classe operaia schiacci l’idra della controrivoluzione con il terrore di massa! Lo sappiano i nemici della classe operaia: ogni individuo arrestato che sia trovato illecitamente in possesso di un arma sarà giustiziato all’istante, ogni individuo che osi fare la minima propaganda contro il regime sovietico sarà subito arrestato e chiuso in campo di concentramento!”.
Il 4 settembre Petrovskij, commissario del popolo per l’Interno invia una direttiva a tutti i soviet, che di fatto segnerà l’inizio ufficiale del Terrore rosso su larga scala. Petrovskij, lamentando che il Terrore rosso tardasse a manifestarsi ordinava: E’ ormai ora di farla finita con tutte queste mollezze e sentimentalismi. Tutti i socialisti rivoluzionari di destra devono essere immediatamente arrestati. Si deve prevedere un grande numero di ostaggi nella borghesia e tra gli ufficiali. Di fronte alla minima resistenza si dovrà ricorrere alle esecuzioni di massa..
La Ceka e le altre milizie devono individuare e arrestare tutti i sospetti, giustiziando immediatamente chiunque risulti compromesso in attività... Nell’attuare il terrore di massa non si possono tollerare debolezze o esitazioni”.
Nello stesso peiodo Grigrij Zinov’ev, uno dei principali dirigenti bolscevichi dichiarò: “Per distruggere i nostri nemici dobbiamo avere il nostro proprio terrore socialista. Dobbiamo tirare dalla nostra parte, diciamo, novanta sui cento milioni di abitanti della Russia sovietica, Quanto agli altri, non abbiamo nulla da dirgli. Devono essere annientati”.
Il 5 settembre il governo sovietico emanò il famoso decreto “Sul Terrore rosso”: “Nella situazione attuale è assolutamente vitale rafforzare la Ceka...proteggere la Repubblica sovietica contro i nemici di classe, isolandoli in campi di concentramento, fucilando all’istante ogni individuo implicato nelle organizzazioni delle Guardie bianche, nei complotti, insurrezioni, o sommosse, e pubblicando i nomi dei fucilati insieme alle ragioni per cui sono stati passati per le armi”.
Dzerzinskij fu particolarmente soddisfatto, alla Ceka fu legalmente riconosciuto “il diritto di farla finita su due piedi con la feccia controrivoluzionaria, senza doverne riferire a nessuno”.
iL 17 settembre una circolare interna invitava tutte le Ceka locali ad accelerare le procedure e a liquidare le faccende in sospeso, in verità le liquidazioni erano già iniziate dal 31 agosto, in quei giorni la Ceka aveva giustiziato 500 persone a Pietrogrado, si calcola che nel mese di settembre nella città ci furono 1300 esecuzioni, senza contare le centinia di ufficiali e civili fucilati a Kronstadt, dove in una sola notte furono fucilate 400 persone. Secondo l’Izsvetija, il 3 e 4 settembre a Mosca furono fucilati 29 ostaggi, fra questi due ex ministri dello czar, Hostov e Sceglovitov, ma molte testimonianze rivelano centinaia di esecuzioni nelle prigioni moscovite durante i “massacri di settembre".
Durante il periodo del Terrore rosso per sei settimane uscì Ezenedel’nik vck, il settimanale della Ceka, dove si riferivano gli arresti di ostaggi, gli internamenti nei campi di concentramento, le esecuzioni capitali, questo settimanale si rivela come una fonte ufficiale, anche se minimale del Terrore rosso per i mesi di settembre e ottobre 1918, compendiato da altri dati usciti su giornali delle Ceka locali, E’ difficile conteggiare le le vittime del Terrore rosso nell’ autunno 1918, ma tenendo solo conto delle notizie di esecuzioni riportate dai giornali, si arriva a desumere che non fu inferiore a 10.000- 15.000 in due mesi. In poche settimane la Ceka da sola aveva giustiziato un numero di persone da due a tre volte superiore rispetto a quanti l’impero zarista ne avesse condannato a morte in novantadue anni.
La Ceka, che agiva al di sopra dei soviet e dello stesso Partito venne messa in discussione da alcuni dirigenti bolscevichi come Buharin, Ominskij e Petrovskij che pretendevano provvedimenti per arginare “gli eccessi di zelo di un’organizzazione affollata di criminali e di sadici, di elementi degenerati del Lumpeproletariat”, Kamenev arrivò a chiedere lo scioglimento della Ceka.
Ma ebbero la meglio Sverdlov, Stalin, Trockij, e ovviamente Lenin che difese risolutamente”un istituzione attaccata non solo dai nemici, ma spesso anche dagli amici”. Il dibattito sulla Ceka si chiuse, come diceva Lenin “il buon comunista è anche buon cekista”.
Nei primi mesi del 1919 furono costituiti dipartimenti speciali della Ceka a cui veniva affidata la sicurezza militare.
Il 16 marzo del 1919 Dzerzinskij fu nominato commissario del popolo per l’Interno, e si dedicò alla riorganizzazione di tutte le varie formazioni militari che fino a quel momento dipendevano da amministrazioni diverse. Nascono così nel maggio 1919 le Truppe di difesa interna, che nel 21 arrivavano a 200.000 effettivi, con l’incarico di assicurare la sorveglianza di campi, stazioni, altri punti strategici, di svolgere operazioni di requisizione e di reprimere le rivolte contadine, le sommosse operaie e gli ammutinamenti dell’Armata rossa, una vera e proprio esercito repressivo, inserito in un Armata rossa, minata dalle diserzioni, che contava milioni di effettivi, ma che non riuscì mai a schierarne più di 500.000 con equipaggiamento completo.
Uno dei primi decreti del nuovo commissario del popolo per gli Interni, riguardò l’organizzazione dei campi di concentramento, che esistevano dal 1918 .
Il Decreto del 15 aprile 1918 li divideva in campi di lavoro forzato nei quali erano internati, almeno in teoria, coloro che erano stati condannati da un tribunale e campi di concentramento riservati per lo più ad ostaggi, incarcerati sulla base di semplici ordinanze amministrative, anche se queste distinzioni rimasero più nella teoria che nella pratica. Nella circolare esplicativa del decreto si stabiliva che ogni provincia avrebbe dovuto approntare almeno un campo con la capienza minima di 300 persone, si prevedeva inoltre la stesura di una lista che prevedeva 12 tipologie di persone destinate all’internamento. Tra il 19 e il 21 il numero degli internati complessivi salì dai 16.000 ad oltre 70.000, escludendo un certo numero di campi allestiti nelle regioni insorte contro il potere sovietico,nella sola provincia di Tambov, nei sette campi di concentramento organizzati per reprimere la rivolta contadina si contavano 50.000 “banditi e famigliari di banditi” internati.


La guerra dei rossi, dei bianchi e dei
verdi
La guerra civile russa, non deve essere considerata semplicemente come lo scontro tra bolscevichi e monarchici, aldilà degli scontri tra Armata rossa e Armata bianca, gli episodipiù importanti avvennero sul cosidetto “fronte interno”,e furono caratterizzati dalle varie forme di repressione esercitata dal potere costituito dei Bianchi e dei Rossi .
Al contrario del terrore bianco, che si manifestò in particolare nei pogrom dell’Ucraina del 1919, perpetrati da alcuni distaccamenti senza controllo di Denikin e di Petlura, dove morirono 150.000 persone e che furono condannati dallo stesso Denikin e che per il resto si limitò quasi sempre ad una repressione di tipo di controspionaggio militare, il terrorre Rosso venne teorizzato e messo in pratica molto prima dello scoppio della guerra civile, contro interi gruppi sociali con metodo e scrupolosa organizzazione. Il terrore rosso si caratterizzò come una lotta di classe, contro aristocratici, borghesi, elementi estranei alla società, di caccia ai militanti di tutti i partiti non bolscevichi, di repressione degli scioperi operai, degli ammutinamenti di unità dell’Armata rossa e delle rivolte contadine.
La guerra sul fronte interno consistette soprattutto nella resistenza opposta da milioni di contadini, ribelli e disertori, che sia i Bianchi che i Rossi chiamavano Verdi.
L’azione dei Verdi fu determinante per la vittoria di uno schieramento sull’altro come ad esempio è accaduto durante l’estate del 1919 nel Medio Volga ed in Ucraina, dove lo scoppio di violente rivolte contadine favorì l’azione di sfondamento delle linee bolsceviche da parte dell’ammiraglio Kolcak e del generale Denikin, così come l’insurrezione dei contadini siberiani ostili al ripristino dei diritti dei proprietari terrieri favorì la disfatta di Kolcak di fronte all’Armata Rossa.
Il terrore bolscevico la cui continuità ed evoluzione si deve cogliere sin dai primi mesi del regime riguardò principalmente alcuni gruppi di vittime, che vennero sottoposte ad una repressione coerente e sistemica:
1- tutti i militanti politici non bolscevichi;
2- operai in lotta in difesa di diritti elementari: pane, lavoro, libertà, dignità;
3- i contadini, coinvolti nelle innumerevoli insurrezioni o nelle diserzioni dell’Armata rossa;
4- i cosacchi, deportati in massa, perchè considerati gruppo sociale ed etnico ostile al regime.  La decosacchizzazione anticipa la dekulakizzazione e la deportazione di gruppi etnici degli anni ‘30 e mette in evidenza la continuità repressiva della fase leniniana con quella staliniana.
5- gli elementi estranei alla società, nemici del popolo, sospetti, ostaggi liquidati preventivamentte da parte dei bolscevichi, soprattutto nelle fasi di abbandono di città o di riconquista di territtori occupati dai Bianchi.
Un delle prime repressioni della Ceka riguardò gli anarchici di Mosca nell’aprile 1918, che furono fucilati a decine senza processo. La repressione contro gli anarchici, che nonostante l’adesione di alcuni elementi al Partito bolscevico, rimanevano in stragrande maggioranza avversi al regime, non conobbe tregua. Il comportamento degli anarchici, oppositori sia del vecchio che del nuovo regime, è esemplificato dall’azione del grande dirigente anarchico contadino Mahno, che dapprima si schierò con i Rossi per combattere i Bianchi, ed una volta vinto il pericolo bianco, per difendere i suoi ideali continuò il combattimento contro l’Armata rossa, migliaia di anonimi militanti anarchici furono giustiziati come banditi. Secondo i dati, seppur incompleti, presentati nel 1922 dagli anarchici in esilio la maggioranza delle vittime anarchiche è rappresentata dai contadini di Manho, nel 1919-21 furono fucilati 138 militanti, 281 esiliati e 608 il primo gennaio 1921 erano ancora
in carcere.
I socialisti rivoluzionari di sinistra, alleati dei bolscevichi sino all’estate del 1918, beneficiarono di una certa clemenza sino al febbraio 1919, quando la loro storica leader Marija Spiridova fu arrestata insieme ad altri 210 militanti, per avere criticato i metodi brutali della Ceka, e condannata dal Tribunale rivoluzionario ad una detenzione in un sanatorio come isterica. E’ il primo caso di reclusione di un avversario politico in un ospedale psichiatrico. La Spiridova, riuscità ad evadere, continuò a dirigere il partito, messo
fuori legge, in clandestinità. Secondo la Ceka nel 1919 furono disciolte 58 organizzazioni Socialiste rivoluzioabrie di sinisra, 45 nel 1920, nei due anni furono arrestati come ostaggi 1875 militanti.
I socialisti rivoluzionari di destra, considerati da sempre gli avversari politici più pericolosi, nel novembre-dicembre 17 alle libere elezioni avevano ottenuto una grande maggioranza,
erano altresì maggioranza nell’Assemblea costituente sciolta dai bolscevichi con la forza, furono espulsi dal Comitato esecutivo dei soviet, insieme ai mescevichi nel giugno 1918, e con alcuni costituzionaldemocratici e mescevichi avevano dato vita ad effimeri governi a Samara ed a Omsk che in breve vennero rovesciati dall’Armata Bianca di Kolkac. I socialisti rivoluzionari, presi tra i Bianchi ed i bolscevichi che alternavano nei loro confronti una politica di repressione e conciliazione e manovre d’infiltrazioni, il 31 marzo del 1919, nel pieno dell’offensiva bianca, dopo che la Ceka aveva autorizzato la ripresa delle pubblicazioni del loro giornale “Delo Naroda” dal 20 al 30 marzo, nonostante i loro partiti fossero ancora considerati legali dal regime, furono oggetto di una violenta repressione della Polizia politica, furono arrestati in varie città 1900 militanti .
Seppur si conosce approssimativamente il numero delle vittime dei principali episodi di repressione degli scioperi e delle rivolte contadini in cui spesso mescevichi e socialisti rivoluzionari avevano un ruolo da protagonisti, non si può estrapolare il dato di quanti di loro furono giustiziati sommariamente.
Un’altra ondata di arresti seguì la pubblicazione di un articolo di Lenin sulla Pravda del 28 agosto 1919, , in cui criticava SR e mescevichi”complici e lacchè dei Bianchi, dei proprietari terrieri e dei capitalisti”, secondo fonti della Ceka negli ultimi mesi del 1919 ci furono 2380 arresti tra socialisti rivoluzionari e mescevichi. Il 23 maggio 1920 Viktor Cernov, che per un
giorno era stato presidente dell’Assemblea costituente,attivamente ricercato, sotto false vesti, prese la parola durante un comizio organizzato dal sindacato dei tipografi in onore di una delegazione operaia inglese, mettendo in ridicolo Ceka e governo, questo episodio rilanciò in grande stile la caccia contro i miltanti socialisti, tutta la famiglia di Cernov fu presa come ostaggio, e i dirigenti di partito ancora liberi imprigionati. Nell’estate del 1920 , furono schedati ed arrestati 2000 tra socialisti rivoluzionari e mescevichi.
La Ceka, in una circolare interna datata luglio 1920, così descriveva la politica da attuare nei confronti degli oppositori socialisti: “Invece di mettere fuori legge tali partiti, facendoli piombare in una clandestinità che potrebbe essere difficile controllare, è assai preferibile mantenerli in una condizione di semi legalità. Infatti in questo modo è più agevole averli a portata di mano per estrarne, quando è necessario, fomentatori di sommosse, rinnegati e altri utili informatori...Con questi partiti antisovietici bisogna approfittare assolutamente della situazione bellica attuale, per imputare ai loro membri crimini quali l’attività controrivoluzionaria, l’alto tradimento, la disorganizzazione delle retrovie, lo spionaggio a favore di una potenza straniera interventista.
La violenza esercitata contro il mondo operaio, in nome del quale, i boscevichi avevano preso il potere, cominciò nel 1918, crebbe nel 1919 e nel 1920, arrivò al suo apice nella primavera ‘21 con il famoso episodio di Kronsdat.
Fin dal 1918 gli operai avevano inizato a dimostrare diffidenze verso i boscevichi, fallito lo sciopero generale del 2 luglio 1918, le sommossse operaie ripresero intensità e vigore nel marzo 1919, in risposta alle difficoltà di approvvigionamento ed agli arresti di numerosi dirigenti socialisti rivoluzionari, tra cui la Spiridova, che aveva condotto un giro nelle principali fabbriche pietrogradesi riscuotendo un entusiastico consenso. Il 10 marzo 1919 10.000 operai delle officine di Putilov, riuniti in assemblea generale approvarono un documento di dura condanna del governo bolscevico considerato “nulla più che di una dittatura del Comiatto centrale del Partito comunista, che governa con l’aiuto della Ceka e dei tribunali rivoluzionari.
Nel documento gli operai chiedevano il trasferimento di tutto il potere ai Soviet, lo svolgimento di libere elezioni per i soviet e i comitati di fabbrica, la soppressione delle limitazioni sulla quantità di cibo che gli operai erano autorizzati a portare dalle campagne (un pud e mezzo-24 kg), il rilascio di tutti i prigionieri politici degli “autentici partiti rivoluzionari”, e in particolare di Maria Spiridova,
Lenin stesso per cercare di risolvere la situazione che si stava aggravando fortemente per i bolscevichi, il 12 e 13 marzo si recò a Pietrogrado, ma quando tentò di prendere la parola nelle fabbriche occupate insieme a Zinov’ev, fu zittito al grido di “Abbasso gli ebrei e i commissari!”.
Esplodeva l’antisemitismo radicato nel popolo russo, che quando i bolscevichi persero il favore goduto subito dopo la rivoluzione di ottobre associò il fatto che molti dei loro dirigenti più noti fossero ebrei (Tockij, Zinov’ev, Kamenev, Rykov, Radek ecc.).
Le officine di Putilov furono attaccate il 16 marzo 1919 dalle squadre della Ceka, gli operai si difesero con le armi, ma ebbero la peggio, furono arrestati in 900 e nei giorni successivi 200 ne furono fucilati nella fortezza di Slussel’burg vicina a Pietrogrado. Gli scioperanti furono tutti licenziati e riassunti solo dopo aver firmato una dichiarazione in cui ammettevano di essere stati “indotti al crimine” da sobillatori controrivoluzionari, la Ceka creò subito una rete di informatori che dovevano riferire”sullo stato d’animo in questa o quella fabbrica”.
Nella primavera del 1919 si contano numerosi scioperi, sedati con violenza in molte città della Russia: a Tula, Srmovo, Orel, Brjansk, Tver’, Ivanovo-Voznesensk, Astrakhan.
Le rivendicazioni degli operai, ridotti alla fame da miseri salari che garantivano solamente il prezzo di una carta annonaria, cioè 250 grammi di pane al giorno erano sempre le stesse, chiedevano che le loro razioni fossero parificate a quelle dell’Armata rossa, la soppressione dei privilegi per i comunisti, rilascio di tutti i prigionieri politici, libere elezioni per comitati di fabbrica e soviet, abolizione della leva obbligatoria, libertà di associazione, stampa, e di espressione. I bolscevichi erano molto preoccupati, anche perchè in molti casi i reparti dell’Armata rossa di stanza nelle città aderivano alle insurrezioni a Orel, Brjansk, Gomel, Astrakhan i soldati si unirono ai manifestanti e al grido di “Morte ai giudei, abbasso i commissari” occuparono e saccheggiarono intere città che furono rioccupate da reparti cekisti, da reparti dell’esercito rimasti fedeli al regime, dopo molti giorni di combattimento.
Le armi della repressione andarono dalla serrata delle fabbriche, alla confisca delle tessere annonarie, la fame era una delle armi più potenti dei bolscevichi, sino alle esecuzioni
di massa.

 PRIMA PARTE.