#patrioti Italiani contro l'americanizzazione dell'Occidente
SERVIZIO DI DIFESA NAZIONALE
La creazione di un Servizio di Difesa Nazionale (SDN) della durata di alcuni mesi, a inquadramento militare, per tutti i cittadini italiani a partire dai 16 anni che risultino idonei sotto il profilo psico-fisico.
Il SDN dovrebbe assorbire il “Servizio Civile Nazionale”, istituito con L. 64/2001 su base volontaria, ed essere rivolto esclusivamente ad attività di pubblica utilità (assistenza, tutela ambientale, ambiente, educazione e promozione culturale, patrimonio artistico e culturale, ecc.) ed a interventi di protezione civile a favore della popolazione in caso di calamità naturali o disastri provocati dall’uomo.
Lo scopo del servizio sarebbe quello di rafforzare il senso di appartenenza al Paese, ma anche di imparare il rispetto delle regole della società e della vita di gruppo, e contribuire cosi alla formazione civica, sociale e culturale dei giovani.
Tutto questo consentirebbe di riportare a galla importanti valori per le giovani generazioni, primo fra tutti quello di porsi al servizio di una società della quale sono parte integrante. I giovani d’oggi sono bravi ragazzi: curiosi, aperti agli insegnamenti e agli esempi positivi. Hanno bisogno di una guida onesta e sincera e di persone che sappiano trasmettere loro i giusti valori, soprattutto con la forza dell’esempio morale, intellettuale e pratico.
Secondo il “30° Rapporto Italia”, pubblicato a gennaio 2018 dall’Istituto Eurispes, il 67,8% degli Italiani (quasi 7 su 10!) è favorevole al ritorno dell’insegnamento dell’educazione civica nelle scuole.
Lo stesso sondaggio evidenzia che nella graduatoria della fiducia degli Italiani verso le istituzioni svettano le Forze Armate, con un consenso che si attesta sul 70%, a testimonianza della fiducia che i cittadini ripongono verso i Militari e i loro valori fondanti, come modello cui ispirarsi.
Ovviamente, è imprescindibile la piena condivisione del progetto a livello interministeriale (Difesa, Interno, Economia, Lavoro, Educazione, Sport, Sanità, ecc.).
Tale condivisione interministeriale consentirebbe d’individuare le risorse finanziarie necessarie, di usufruire del Servizio Sanitario Nazionale (visite mediche) e di avvalersi delle strutture didattiche pubbliche per le attività propedeutiche.
L’eventuale SDN non potrebbe essere assolutamente assimilato al precedente servizio militare obbligatorio: deve piuttosto essere visto (e conseguentemente veicolato) come un’occasione di avviamento professionale che, attraverso specifici incentivi e agevolazioni, favorisca l’inserimento nel mondo del lavoro, pubblico e privato, e in tutto il vasto settore della difesa e della sicurezza, mediante l’attribuzione di un titolo di preferenza (es. un punteggio incrementale in un concorso pubblico).
Il Servizio nazionale non dovrebbe, inoltre, essere posto in contrapposizione/sostituzione alle Forze Armate basate su personale professionista, che continuerà ad assolvere i compiti istituzionali attualmente previsti: i nostri soldati volontari sono, infatti, la risorsa più importante!
I militari professionisti potranno invece essere sostituti nelle attività in Patria meno professionali e specialistiche, come quelle di concorso in occasione di eventi naturali (rimozione macerie, riempimento sacchetti a terra, ecc.) o problemi urbani (rimozione immondizie, vigilanza nella “terra dei fuochi”, ecc.), e dedicarsi esclusivamente ai compiti tipici di una qualsiasi Forza Armata: prepararsi per difendere il proprio Paese e per tutelare gli interessi nazionali con le armi!
L’addestramento dovrebbe essere svolto in ambito regionale/provinciale, sotto direzione militare, con il concorso delle Associazioni Combattentistiche e d’Arma, articolato su tre momenti: un primo periodo di 15 giorni, senza vincoli di alloggio in strutture specifiche, per l’indottrinamento iniziale; un secondo di 15 giorni, con l’obbligo di alloggio, per favorire la coesione dei ragazzi; un terzo periodo, di alcuni mesi, per l’impiego a seconda delle esigenze.
I primi due periodi dovrebbero essere previsti al termine del 3° e 4° anno di scuola media superiore all’inizio delle vacanze estive, nell’ambito dell’alternanza scuola-lavoro (200 ore), obbligatoria per tutti gli studenti e le studentesse degli ultimi tre anni delle superiori (legge n. 107 del 2015), mentre l’impiego vero e proprio dovrebbe avvenire dopo il 5° anno.
La formazione, inoltre, potrebbe essere implementata attraverso richiami brevi e scaglionati nel tempo (anche nei fine settimana) per non incidere sulla vita dei giovani.
L’addestramento dovrebbe essere concentrato prioritariamente su funzioni di soccorso, protezione civile, procedure di sicurezza e uso basilare delle armi, garantendo comunque la preparazione di base nel caso (assai improbabile ma teoricamente non impossibile) di una mobilitazione generale causata da una grave crisi internazionale che imponga il ripristino del servizio di leva.
Per soddisfare le varie esigenze, e tener conto dello spirito antimilitarista di una parte dell’opinione pubblica, i giovani potrebbero essere indirizzati, dopo i due periodi iniziali comuni, al servizio civile o militare, a seconda delle proprie aspirazioni e condizioni psico-fisiche (e per evitare sospetti di eccessiva militarizzazione della società).
Posto in questi termini, il Servizio di Difesa Nazionale assumerebbe i contorni di un servizio ausiliario allo stesso tempo moderno e in continuità con le tradizioni. Un provvedimento in grado di rispondere a una necessità educativa ben avvertita dalla società, avvicinare i giovani alle istituzioni e fornire loro quelle capacità basilari per la gestione delle emergenze e degli interventi di pubblica utilità,.con la creazione di un bacino di riservisti (da non confondere con la riserva selezionata) prontamente disponibile.
Da non dimenticare, infine, la possibilità di effettuare lo screening sanitario della popolazione giovanile, come avveniva in passato, che fornirebbe un quadro medico generale utile ai fini della prevenzione, diagnosi precoce e cura di varie malattie, perseguendo gli obiettivi di miglioramento delle condizioni di vita e creazione di risparmi per la sanità pubblica negli anni a venire.
Rimane da definire prioritariamente lo status giuridico di questi ragazzi e individuare le infrastrutture per il loro alloggiamento.
Per approfondire www.analisidifesa.it
I GERMANOFOBI SONO ANTI-ITALIANI
L'odio antitedesco, che possiamo anche chiamare germanofobia, non è diverso da quello antirusso o russofobo da noi rimproverato ai filo-americani, decisamente sovrabbondanti in casa nostra. Stranamente, si fa per dire, l'odio antitedesco ha qualcosa in comune con quello antirusso. Entrambi mettono in secondo piano lo strapotere statunitense in Europa, per scagliarsi contro i suoi effetti secondari o accidentali. Addirittura, qualcuno ha affermato che occorre approfittare della guerra commerciale di Trump all'Europa per liberarsi dal giogo crucco. Sciocchezze inenarrabili che solo teste povere e limitate potevano esitare. Dietro queste castronerie c'è però qualcosa di più sostanziale, attinente all'approccio teorico con cui si vorrebbe interpretare l'epoca storica: l'assurda convinzione che (uso il linguaggio con cui si esprimono tali decerebrati) il “turbocapitalismo, ormai finanziarizzato” sia l'ultimo stadio di un sistema globale “apolide e sradicante”. Simili definizioni generiche descrivono esclusivamente la pochezza del loro contenuto e sono profferite per impressionare più che per spiegare. Quando si accetta l'assunto che sia la finanza, con la sua volatilità, a dettare i tempi del mondo la dura realtà dei rapporti di forza evapora in una nebulosa indistinta nella quale non è più possibile raccapezzarsi, al fine di individuare i veri centri del potere (i quali sono fisici, armati, egemonici). Bisogna tornare con i piedi per terra, l'unico luogo dove è possibile praticare la teoria che non sta in cielo, come qualcuno crede, ma saldamente ancorata al terreno sociale. La sottosfera finanziaria, in quanto ambito appartenente alla sfera economica-mercantile è il luogo in cui i rapporti sociali si manifestano come rapporti tra cose. Quest'ultimi sono la proiezione di relazioni (conflittuali e cooperative) tra gruppi umani, agenti in una specifica organizzazione sociale. E' strano che chi sostiene di voler rimettere l'uomo al centro dell'analisi lo faccia capovolgendo le cose, ponendo la fantasmagoria dei mercati prima della produzione di società. Semmai essa sta davanti, a mascheramento del resto da cui promana. Non è però casuale che le teoresi antifinanziaristiche inducano a siffatti errori di valutazione storica e siano alimentati proprio da quei poteri centrali dominanti che hanno tutto l'interesse a obnubilare la loro azione imperiale. Come ha più volte chiarito La Grassa la finanza è sempre in primo piano, non però come causa “profonda” della crisi bensì quale sua iniziale manifestazione particolarmente eclatante, in grado di provocare comunque effetti pesantemente risentiti dalla grande maggioranza della popolazione da essa investita...tale aspetto della crisi va assimilato ai terremoti (di superficie), i cui risultati sono disastrosi per i soggetti implicati; tali terremoti trovano però la loro origine in scontri e frizioni tra falde o placche di terreno roccioso situate a varie profondità[la lotta tra formazioni o aree di paesi per la preminenza], reale “motore” del catastrofico fenomeno superficiale.
Allora, diventa essenziale stabilire come si articola la dominazione mondiale e non “seguire il denaro” come si dice superficialmente, per ritrovare la propria sovranità, esercizio sempre più complicato nella fasi in cui il campo egemonico in cui si è inseriti (per noi quello occidentale a supremazia americana) viene sfidato da nuovi concorrenti. Se fino a qualche decennio fa potevamo vederci concessa una sovranità limitata, in virtù di un equilibrio mondiale bipolare, ora che si affaccia il multipolarismo ci viene imposta una cieca obbedienza ad ogni costo, funzionale soltanto alla riconfigurazione strategica di chi ha il controllo del nostro Paese e si sta confrontando con i potenziali concorrenti a livello mondiale. In tale clima, non sono ammesse “iniziative” nazionali autonome ed ogni smottamento dalla linea può comportare pesanti conseguenze. Questo è il tema principale, non le diatribe minori tra sottoposti alla stessa area d'influenza (come lo sono Germania, Francia e Italia nell'ambito europeo) seppur con diversi margini di “libertà” e “convenienza”. E' vero che i nostri partner europei intendono scaricare sul Belpaese le maggiori difficoltà discendenti da questo scenario, ma non si può scagionare il martello e al contempo prendersela con l'incudine che sta ferma mentre quello batte. Pertanto, chi punta sul bersaglio tedesco (i francesi sono meglio?), oltre a sbagliare mira politica fornisce all'arciere che tiene sotto tiro l’intero continente la freccia col quale proseguire nella minaccia. Toglietevi, dunque, dalla testa di poter avvantaggiarvi delle presunte contraddizioni tra Washington e Berlino per guadagnare in indipendenza. Guadagnerete in servilismo e non è nemmeno detto che sarete ricompensati. Non è questa la strada per riportare l'Italia a livelli decenti di importanza regionale e benessere sociale.
da Conflitti e strategie
Un governo di deboli (non dei più deboli)
Parte il Governo M5s-Lega. Dopo una serie di peripezie, dettate da ingenuità quirinalizia e furbizia leghista, vede la luce un bambino deforme che non avrà vita facile né lunga. Salvini e Di Maio spezzeranno le reni all’Europa? Restituiranno all’Italia la sovranità perduta (e mai pienamente avuta) combattendo contro chi ce l’ha strappata e conculcata? Dubitiamo che tutto ciò avvenga. Il can can battagliero grillino-leghista è solo una triste prospettiva economicistica che ha ben poco di politico. Manca la visione d’epoca storica mentre abbondano i giochetti di partito e di palazzo. Secondo la ristretta prospettiva del sodalizio giallo-verde sarebbe Berlino ad averci ridotto con le pezze al culo. Però, in ogni caso, dall’Ue e dall’euro non si esce, come hanno dichiarato, e ciò rappresenta una palese contraddizione della loro stessa teoresi sballata. Contemporaneamente, viene affermato di voler restare nella Nato e saldamente ancorati a quell’occidente americanocentrico che rappresenta il vero vulnus dal quale deriva la nostra sudditanza nazionale. Di più, si sente dire che appoggiandosi al nuovo corso americano di Trump sarà possibile liberarsi dal giogo crucco che ci ha retrocesso a provincia povera del Continente. Un po’ di logica per favore. L’Ue è una costruzione americana, come pure la sua moneta unica. Quest’ultima fu imposta ai tedeschi (via Parigi) come prezzo da pagare per la riunificazione, in quanto con il marco il potere condizionante dei tedeschi sarebbe stato anche più forte di quanto non lo sia ora con l’euro. Germania e Francia sono le due grandi potenze europee che sin qui hanno gestito il mandato americano, che va mutando per riconfigurazione strategica statunitense. I gruppi europei che lo hanno maneggiato nell’epoca unipolare non soddisfano i nuovi requisiti richiesti dall’egemonia statunitense in una fase multicentrica. Quindi qualcosa deve cambiare in Europa e cambierà. In sostanza ce la si può pur prendere quanto si vuole con il gregario tedesco per vederlo sostituito col francese o con una via di mezzo Franco-tedesca. Che vantaggio avremmo? Bisogna invece auspicare che i poteri tedeschi finora dominanti siano sostituiti da drappelli autenticamente autonomisti ed in grado di corrodere la predominanza yankee sul suolo comune. In ciò occorre incoraggiare la Germania, non puntare ad indebolirla, perché se il Paese meglio posizionato d’Europa avvia il necessario trapasso ci spiana la strada. Quindi nessun risparmio di critiche a chi ci narra di IV Reich per nascondere alla vista le mosse del superimpero d’oltreoceano mirante ad un riassetto delle sue sfere d’influenza per non lasciare lo scettro. Nessuno in Europa spezzerà mai le catene americane danneggiando il suo vicino. Il nemico è uno e non è a Berlino. I tedeschi, come gli italiani e i francesi devono sbarazzarsi dei loro dirigenti asserviti (senza sostituirli con altri cangianti ma ugualmente filo zio Sam), non puntarsi il dito a vicenda. Se accade è effetto del divide et impera a stelle strisce che ci rende tutti perdenti anche se non nella stessa maniera o con i medesimi svantaggi. C’è il servo che sta in casa e quello che lavora i campi, la condizione è la stessa anche se esistono differenziali di benessere(che contano, per carità, ma che non portano alla sovranità).
da https://www.facebook.com/conflitti.estrategie/
L'Europa non è Lampedusa è la nostra Civiltà
L'Europa non è Lampedusa, è la nostra civiltà.
L'Europa non è l'organizzazione di Bruxelles, né una valuta o una banca centrale.
L'Europa non è uno spazio globalizzato senza frontiere.
L'Europa non è il mondo africano, né è una terra dell'Islam.
L'Europa non è né bruttura né non arte.
L'Europa è il continente degli europei.
L'Europa ha millenni di storia, 700 milioni di europei.
L'Europa è un'identità: la civiltà europea e cristiana.
L'Europa è costituita da templi greci, acquedotti e teatri romani, cappelle romaniche, cattedrali gotiche, palazzi rinascimentali, grandi piazze, beghinaggio, chiese barocche, castelli classici e palazzi in stile liberty.
L'Europa è rive selvagge, montagne maestose, fiumi tranquilli. L'Europa è il sentimento della natura. L'Europa è un paesaggio creato dall'uomo: boschetti per polder, prati e coltivazioni terrazzate. L'Europa è la terra di mele e ulivi, viti e luppolo.
L'Europa non è il mondo del cibo industriale, è la gastronomia di olio e burro, vino e birra, pane e formaggio, salsiccia e prosciutto.
L'Europa non è il mondo dell'astrazione, è l'arte della rappresentazione, da Prassitele a Rodin, dagli affreschi di Pompei alla Secessione di Vienna. L'Europa è l'immaginazione celtica e il mistero cristiano. L'Europa è una civiltà che trasforma la pietra in pizzo.
L'Europa è il rifiuto dello smarrimento, è la cultura che ha inventato il canto polifonico e l'orchestra sinfonica.
L'Europa non è il mondo di Belphégor, è la civiltà che onora le donne: dea, madre o guerriero. L'Europa è la cultura della cavalleria e dell'amore cortese.
L'Europa non è il mondo della sorveglianza, è la patria della libertà: la cittadinanza greca, il foro romano, la grande carta inglese del 1215, le città e le università libere del Medioevo, il risveglio dei popoli nel diciannovesimo secolo.
L'Europa è un'eredità letteraria e mitologica: Omero, Virgilio, Esiodo, Edda, il canto dei Nibelunghi e il ciclo arturiano. È anche Shakespeare, Perrault e Grimm.
L'Europa è lo spirito di invenzione e conquista: è Leonardo da Vinci e Gutenberg; Queste sono le caravelle, i palloncini, gli inizi dell'aviazione e Ariane, questi sono i mazzi gettati sui mari.
L'Europa, sono gli eroi che l'hanno difesa nel corso dei secoli: sono Leonida ei suoi 300 spartani a salvare la Grecia dall'Asia; è Scipione l'africana che conserva Roma di Cartagine, è Carlo Martello che respinge l'invasione araba, è Godefroy de Bouillon che consegna i luoghi santi e fonda il regno franco di Gerusalemme, è Ferdinando d'Aragona e Isabella il cattolico liberando Granada, è Ivan il Terribile che allontana i mongoli dalla santa Russia, è don Giovanni d'Austria vittorioso dei Turchi a Lepanto.
Europa, questi sono posti alti: è il Partenone, Piazza San Marco, San Pietro di Roma, la Torre di Belém, Santiago de Compostela, il Mont Saint-Michel, la Torre di Londra, il Porta di Brandeburgo, le torri del Cremlino.
Questa è la nostra storia di civiltà!
Oggi l'Europa è l'uomo malato del mondo. È colpevole di colpevolezza, colonizzata, indebolita. Non è né fatale né sostenibile. Stop al pentimento! Scopriamo il filo della lunga memoria. Ascoltiamo il messaggio di speranza di Dominique Venner:
"Credo nelle qualità specifiche degli europei che sono temporaneamente dormienti. Credo nella loro individualità attiva, nella loro inventiva e nel risveglio della loro energia. Il risveglio verrà. Quando? Non lo so, ma di questa sveglia non ne dubito. "
Salvini: l'Italia è una porcheria
Questi sono i mostri che il centrodestra ha portato al governo della Nazione e non solo per l’inabilità del personaggio Berlusconi, perché Berlusconi ragionava, e ragiona, da imprenditore e non da statista e quindi non ha capito nulla di quanto stava accadendo in termini di smantellamento globale dell’Italia, ma anche per responsabilità di una destra italiana che ha sempre preferito il salotto alla trincea, le prebende individuali, alla fatica di costruire un futuro alla Nazione, e tra le rincorse alle poltrone ha visto non solo evaporare l'Italia ma anche se stessa.
L'Italia è una porcheria
Impossibile su Booking ed Edreams, per Italiani ed Europei prenotare un alloggio a Cuba
Secondo la normativa americana, non è consentito recarsi a Cuba per motivi di turismo partendo dagli Stati Uniti. La normativa si applica a tutti i cittadini stranieri che volessero raggiungere l'isola caraibica dagli USA, vi sono alcune categorie esenti, come ad esempio viaggi per motivi familiari, di culto, attività umanitarie, missioni ufficiali, etc. Chiaro è che questa normativa riguarda gli Stati Uniti, ed è stata introdotta dall'amministrazione Trump, una restrizione alla precedente decisione che aveva abolito l'embargo deciso dagli USA, che tante sofferenze ha prodotto al popolo cubano.
Su booking e su Edream, per prenotare una qualsiasi alloggio a Cuba, dai grandi alberghi internazionali ad una casa particular, occorre riempire una casella obbligatoria al fine di completare l'operazione, in cui la parola turismo non appare, appare solo l'elenco delle categorie esenti secondo la legislazione americana ai divieti di Trump, quindi se sei un cittadino italiano, o dell'Unione Europea, paesi in cui è libera la possibilità di visitare l'Isola per motivi turistici, almeno di dichiarare il falso, sui due siti in questione non è possibile prenotare un alloggio. Booking risponde: "A causa di restrizioni commerciali, sul nostro sito non è possibile effettuare prenotazioni per Cuba a scopo turistico." - e continua- "Si tratta di una restrizione europea strettamente commerciale, che non ha niente a che vedere con l'amministrazione Trump". Ma basta andare sul sito www.viaggiaresicuri.it, della Farnesina, sulla pagina dedicata a Cuba ,per non trovare alcuna traccia di queste presunte restrizioni commerciali, se non il riferimento a quelle dell'ordinamento americano
.http://www.viaggiaresicuri.it/paesi/dettaglio/cuba.html?no_cache=1
Centri sociali
«I centri sociali sono la guardia gratuita del ceto intellettuale di sinistra. La loro cultura è inesistente, trattandosi di ghetti consentiti e foraggiati dalla Sinistra Politicamente Corretta (SPC), che li può sempre usare come potenziale guardia plebea.
Privi di qualsiasi ragion d'essere storica, costoro, composti di semianalfabeti, intontiti dalla musica che ascoltano abitualmente ad altissimo volume e dallo spinellamento di gruppo, hanno una cultura della mobilitazione, dello scontro e della paranoia del fascismo esterno sempre attuale, ed è del tutto inutile porsi in un razionale atteggiamento dialogico, che pure potrebbe teoricamente chiarire moltissimi equivoci. Ma il paranoico non è un interlocutore.
Anche l'interesse per i migranti è un pretesto, perché essi li vivono come un raddoppiamento mimetico della loro marginalità».
Costanzo Preve
2 giugno 1948: interrogazione degli onorevoli Almirante, Mieville, Michelini, Roberti, Russo Perez, al Ministro degli affari esteri, per conoscere quali misure siano state prese per la tutela degli italiani dell’Istria e della Dalmazia
In questa foto Giorgio Almirante con Sandro Pertini Cerimonia del Ventaglio 26 luglio 1968 |
PRESIDENTE. Passiamo allo svolgimento
dell’interrogazione degli onorevoli *Almirante,
Mieville, Michelini, Roberti, Russo
Perez, al Ministro degli affari esteri, ((per conoscere quali misure e quali provvidenze
siano state prese o predisposte al fine di tutelare
i diritti e gli interessi degli italiani
dell’Istria e della Dalmazia, i quali, avendo
optato in questi giorni per l’Italia, sono
ostacolati in tutti i modi dalle autorità jugoslave,
sino al punto di essere spogliati anche
dei loro effetti personali 1).
L’onorevole Sottosegretario di Stato per
gli affari esteri ha facoltà di rispondere.
.BRUSASCA, Sottosegretario di Stato per
gli affari esteri. È noto che il Trattato di
pace, all’articolo 19, paragrafo 29, attribuisce
al Governo jugoslavo la facoltà di
adottare misure legislative appropriate per
l’esercizio del diritto di opzione di tutte le
persone di lingua italiana domiciliate al
10 giugno 1940 nelle zone cedute.
’I1 Governo jugoslavo emanò infatti, nei
limiti di tempo indicati dal Trattato, norme
di legge che regolano minutamente le modalità
relative.
Per quanto il Trattato stesso non facesse
esplicita menzione della facoltà per
l’Italia di intervenire nella materia, pure il
Governo italiano non esitò a prendere posizione,
nell’interesse di migliaia e migliaia
di italiani, nel momento in cui si decideva il
loro destino.
Ancor prima che fossero conosciute le
disposizioni jugoslave, si provvide con circolare
6 novembre 1947 ad illustrare le disposizioni
a tutti i nostri uffici consolari e diplomatici,
mettendoli in gràdo di continuare la
protezione e l’assistenza agli istriani, giuliani
e dalmati all’estero, cercando di evitare
inutili attriti con le autorila jugoslave.
In data 6 febbraio ultimo SCÒ~SO, essendo
venuto .a conoscenza - ancora non, in via
ufficiale - delle disposizioni jugoslave, il
Ministero per gli affari esteri si affrettò a
chiedere precisazioni alla Legazione jugoslava
in Roma sulle modalità della presentazione
delle domande di opzione, sui documenti
da allegare, sulla lingua in cui le di- .
chiarazioni dovevano essere redatte, sulle
spese inerenti ecc., ponendo nel dovuto rilievo
che molti erano coloro che si erano già
trasferiti sul territorio nazionale, e la necessità,
quindi, di adeguare le modalità per
l’esercizio del diritto. di opzione alla loro
posizione di profughi dispersi per tutta 1’11alia.
In tale occasione il Ministero .degli affari
esteri, richiamandosi a nome stabili te nei
trattati di pace che chiusero la prima guerra
mondiale, credette di dover avanzare una
formale riserva nei riguardi della disposizione
jugoslava secondo, cui l’attestato della lingua d’uso all’optante deve essere rilasciato dai
comitati popol,ari jugoslavi.
Su questa disposizione del Governo jugoslavo
richiamo l’attenzione della Camera
affinché, attraverso questo dibattito e l’azione
dei deputati, essa sia chiaramente spiegata
agli interessati; nel senso che il Governo
italiano non può per nulla intervenire, e che
l’accertamento della lingua d’uso viene fatto
esclusivamente dai comitati popolari jugoslavi,
i quali agiscono con le facoltà e le
possibilità di organi di siffatta natura.
I trattati che chiusero l’altra guerra,
con spirito di ben maggiore equanimità,
ammettevano che gli optanti potessero pro,
vare con ogni mezzo, compreso l’att,o notorio,
quale fosse in effetti la lingua da loro
usata: È chiaro infatti che l’accertamento
della lingua d’uso può risentire delle diverse
vaIutazioni adottate, e quindi mal si presta
ad essere rimessa all’autorità locale in zone
mistilingue, come sono quasi tutte le zone
di frontiera.
La riserva che noi poniamo si risolverebbe
in sostanza nella offerta della nostra
collaborazione per dirimere punti controversi,
per evitare equivoci, e partiva dal presupposto
che fosse interesse comune jugoslavo
e italiano procedere all’accertamento della
lingua d’uso in condizioni tali da non lasciare
dubbi o sospetti di parzialità.
Ma il Governo jugoslavo, che pure aderì
a quasi tutti i punti da noi prospettati concedendo
facilitazioni a favore degli optanti
stabiliti in Italia, insistette nel sostenere che
l’accertamento della lingua d’uso da esso,
adottato è conforme al Trattato di Pace.
Con ciÒ ci fu definitivamente preclusa ogni
p-ossibilità di intervenire in una materia tanto
delicata e l’accertamento che la lingua d’uso
degli optanti è quella italiana rimase affidato
agli uffici jugoslavi.
Poiché gli onorevoli interroganti sembrano
riferirsi particolarmente alla situazione di
coloro che si trovano tuttora in Jugoslavia,
chiedendo di conoscere le misure e le provvidenze
adottate dal Governo per la tutela . dei loro diritti ed interessi, ritengo doveroso
ricordare che, secondo la tesi jugoslava, per
il paragrafo 10 dell’articolo 19 del Trattato
di Pace, le persone domiciliate alla data del
i0 giugno i940 nei territori ceduti sono diventate,
anche se con riserva dell’opzione, cittadini
dello Stato jugoslavo. L’optante è
perciò considerato cittadino jugoslavo fino
al momento in cui un decreto del Ministero
dell’interno croato o sloveno non avrà riconosciuto
l’opzione da lui esercitata per la cittadinanza italiana. Ciò. significa che la
difesa dell’optante da parte dei Consolati e
delle Delegazioni italiane in Jugoslavia si
urta contro limiti^ precisi, quali sono definiti
dalla prassi del diritto internazionale, sino a
quando questi cittadini rimangono nei confini
dello Stato .che li considera suoi propri,
cittadini.
Va riconosciuto che la Jugoslavia, in sede
di emanazione di queste norme, si i! strettamente
attenuta ai termini letterali del Trattato.
Aggiungo che, sia pure con ritardo, le
autorità jugoslave hanno accolto i passi
esperiti da noi per una più equa applicazione
delle norme stesse da parte delle autorità
locali. Ma purtroppo gli inconvenienti
non poterono essere rimossi. Va detto chiaramente
che la vita è dura, molto dura per
chi ha esercitato il diritto di opzione’ ed è
in attesa della decisione jugoslava che gli
riconosca la cittadinanza italiana. Per 1’au’-
torità locale egli è ancora ‘jugoslavo, peggio,
uno jugoslavo che ha dichiarato di non volerlo
più essere: privato del lavoro e delle
carte annonarie l’optante deve vivere di
ripieghi, vendendo il vendibile in attesa del
decreto che gli riconosca la qualità di straniero
nonché del visto di uscita che gli consenta
di iniziare il viaggio di trasferimento
per l’Italia. È appena il caso di aggiungere
che le difficoltà fatte da qualche autorittt
locale finiscono per creare, anche forse contra
la volontà di coloro stessi che usano tali
mezzi, uno stato di costrizione che non pu+
non riflettersi sulle decisioni di chi può optare.
Posso comunque assicurare che la Legazione
di Belgrado e il Consolato generale di
Zagabria si adoperano come possono per
cercare di far migliorare le condizioni di
vita degli optanti.
Con la notifica del decreto del competente
Ministero dell’interno jugoslavo, l’optante viene
riconosciuto quale italiano e come tale
ha i doveri e i’diritti di tutti gli stranieri e
quindi può finalmente valersi dell’assistenza
consolare italiana. Nell’intento di dare una
assistenza, in quanto possibile, pronta e
larga, ai nostri connazionali ed offrire alla
vicina repubblica una concreta collabora-,
zione per l’operazione di opzione, noi chiedemmo
di potere aprire Uffici consolari nelle
città dove presumibilmente si sarebbe accentrata
la massa degli optanti. In particolare
insistemmo e continuiamo ad insistere per
l’apertura di un Consolato a Fiume, essendo
,umanamente impossibile che a Zagabria, centro
di circoscrizione che comprende le intere
Repubbliche di Croazia e Slovenia si possa seguire da vicino la posizione dei singoli
italiani in circostanze tanto eccezionali. Nell’attuale
momento i nostri connazionali devono
fare capo a Zagabria per avere un
passaporto provvisorio, un documento, un
timbro qualsiasi.
Per riparare; in quanto possibile, gli inconvenienti
lamentati il Consolato di Zagabria
ha ricevuto istruzioni dal Ministero di intensificare
le visite personali a Fiume e ad altri
centri.
Gli onorevoli interroganti fanno cenno
di difficoltà frapposte dalle autorità jugoslave
contro coloro che hanno optato per l’Italia.
Bisogna dire che il visto di uscita dalla
Jugoslavia si fa talvolta troppo abtendere.
.Si aggiunga che i visti di uscita jugoslavi
hanna validità di 15 giorni e le disposizioni
che regolano la vita dello straniero in Jugoslavia
risentono tuttora delle restrizioni del
periodo bellico. E così effettivamente si è
verificato qualche caso di nostri connazionali
i quali, dopo’avere lungamente atteso, dovettero
poi partire precipitosamente senza potere
aspettare il mezzo che consentisse loro
di farsi accompagnare dalle masserizie.
Quanto al trasporto dei connazionali e
alle’ pratiche doganali e di frontiera, le Amministrazioni
italiane hanno già preso le opportune
disposizioni di loro spettanza. Comunicammo
al Governo jugoslavo che eravamo
pronti ad offrire la disponibilità di 10 vagoni
al giorno che, facendo capo a Fume,
potevano risolvere il probleqia dei trasporti
giuliani. Da parte jugoslava ci fu invece
risposto di avere già la quantità di vagoni
occorrenti ai rimpatrianti.
Sono tuttora in coi’s0 pratiche per l’invio
a Zara di un piroscafo capace di circa 300
persone, ma secondo le più recenti comunicazioni
sembra che il Governo jugoslavo si
proponga, come per i mezzi terrestri, di
provvedere con i suoi propri niezzi marittimi.
Per quanto concerne l’esportazione dalla
Jugoslavia dei beni mobili, il trasferimento
dei fondi e valuta, la vendita e la custodia
dei beni immobili e in genere ogni questione
relativa ai beni degli optanti, va ricordato
che l’Allegato 14 del Trattato di pace ne
rimette la definizione delle condizioni e delle
modalità ad accordi fra i due Governi.
Sono lieto di annunziare che una nostra
delegazione, è in viaggio per Belgrado ove
si incontrertt con quella jugoslava. Da parte
del Governo di Belgrado si sostiene che la
questione dei beni degli optanti è connessa’
con altre di carattere economico e finanziario,
pure comprese nel citato paragrafo 14. Noi non rifiutiamo di discutere il complesso
di questioni che ci viene proposto,
ma dobbiamo insistere, per delle ragioni
sopratutto umane, che nell’ordine dei. lavori
della conferenza si dia la precedenza assoluta
alla trattazione di quelli relativi ai
beni degli optanti ed in questo senso sono
state date categoriche istruzioni alla nostra
delegazione.
* Desidero, infine, informare la Camera che
su conformi istruzioni impartite, il Ministro
d’Italia in Belgrado, ha intrattenuto il
9 corrente il Viceministro degli affari esteri
jugoslavo Bebler su tutto l’andamento delle
opzioni e sugli inconvenienti e sulle diEcoltà,
talvolta gravi, che incontrano quanti optano
per la cittadinanza italiana.
I1 Ministro Martino, venuto in- questi
giorni a Roma, ha riferito di aver ricevuto
ampie assicurazioni che le questioni per le
quali vi è in questa Camera tanta giustiiicata
apprensione, saranno oggetto del più
attento esame da parte del Governo jugoslavo.
I1 Ministero degli esteri, con queste chiare,
precise e dettagliate comunicazioni ha voluto
rispondere agli interroganti, cui va il
merito di aver sollevato questa importante
questione in un momento di ansia come l’attuale,
e dimostrare al Paese tutta la sua preoccupazione
per risolvere al più presto i problemi
di questi nostri connazionali, i quali
stanno per diventare italiani superando difficoltà
e sopportando dei sacrifici pei’ i quali
da questa Camera deve partire oggi un
benvenuto cordiale e affettuoso, che dia loro
la sensazione che, dopo aver tanto patito e
sofferto, entreranno in Italia in una grande
famiglia ! (Vivissimi applausi a sinistra, al
centro e a destra).
PRESIDENTE. L’onorevole interrogante
ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.
ALMIRANTE. Onorevole Sottosegretario,
le sue dichiarazioni, di cui la ringrazio - e
oso ringraziarla non solo a nome mio e dei
miei colleghi, ma di tutta l’Assemblea ... (Rumori alt’estrema sinistra) o per lo meno,
degli italiani che in questa Assemblea si
trovano, esclusi coloro che rifiutano la qualifica
di italiano ... (Applausi al centro e a
destra - Proteste all’estrema sinistra) e di
ciò noi siamo loro riconoscenti - le sue
dichiarazioni hanno squarciato il velo di
una tragedia. L’onorevole Mazza diceva
poco fa che qui C’è un’aria di famiglia.
Noi stiamo occupandoci però purtroppo di
gente, di italiani, che non hanno più la famiglia,
non hanno più una casa. Bisogna che questi italiani sentano di avere almenouna
Patria. Mi riferirò dunque soltanto alle
sue ultime parole.
Quando ella ha detto che a questi. italiani,
così duramente perseguitati da una
sorte che dayvero non hanno meritato, bisogna
che l’Italia apra il suo cuore, questo e
sentimento, è lodevole, alto sentimento e
sono lieto di constatare che una volta tanto
.qui dentro si è parlato veramente da italiani ... SCOCA. Non una volta tanto ! Sempre !
ALMIRANTE. Ma il sentimento non
basta. Occorre, che questi profughi tornan.do
in Italia, ricevano qualche ‘cosa di più
.di una assistenza sporadica e generica; sen-tano
in maniera concreta il cuore della patria
palpitare accanto al loro.
. È stato emanato recentemente un decreto
legislativo che concerne l’assistenza
.ai profughi, ivi compresi gli optanti. Ella
ricorderà certamente, onorevole So ttosegretario,
le disposizioni’ di quel decreto.
Io la prego, e prego la Camera, di mettere
a paragone quelle disposizioni con le sue
parole. Ella ha parlato di tragedia. Jn quel
decreto non si sente la tragedia e non si
sente neppure il palpito del cuore della Patria.
Quelle disposizioni, che io qui non ripeto,
perche non voglio turbare quell’atniosfera
di solidarietà che tanto ci ha commosso,
,quelle disposizioni, sono veramente insufficienti.
Ai profughi che rientrano nelle eon.dizioni
da lei illustrate, si concede una volta
tanto un sussidio di 12 mila lire, e si concedono
45 lire al giorno ai membri di famiglia
e 100 ai capi famiglia.
Siccome giustamente ella ha fatto rilevare
che dal punto di vista internazionale
l’aiuto ‘del nostro Governo ai profughi si può
concretare soltanto in pressioni diplomatiche,
le quali sciaguratamente non trovano ascolto,
o per lo meno non hanno trovato fino ad
ora ascolto, il problema non diventa’ pii1
di carattere internazionale ma interno.
C’è una nostra precisa responsabiljtà- di
fronte a questi italiani, anche se lo straniero
li tratta come li tratta, passando sopra non
solo allo spirito ma alla lettera di quello
stesso iniquo trattato, ma addirittura allo
spirito di umanità e al diritto delle genti.
.Se, lo straniero li tratta così, noi dobbiamo
trattarli ben altrimenti.
Quindi, dicendomi soddisfatto e ringraziandola
per quanto Ella ha avuto la cortesia
.di dire, in tono veramente umano, a proposito,
.di quanto il Gov.erno sta facendo per tutelare
in sede internazionale i diritti e gli interessi.
di questi profughi, io invito il Governo a prendere in esame il problema interno e le
responsabilità interne nei confronti di questi
profughi: vale a dire, a predisporre immediatamente
precise e adeguate misure nei loro
riguardi; misure che tanto più debbono essere
generose e pronte, quanto 3 più ingiusto
ed iniquo e lo straniero nei confronti di
questi. fratelli italiani. (Applausi al centro e a
destra).
Boia chi Molla: espressione nata sulle barricate della Repubblica Partenopea
Il 29 luglio 1917 nasce il primo reparto d'Assalto al comando del colonnello Giuseppe Alberto Bassi, il reparto assume come motto "Boia chi molla", espressione nata sulle barricate della Repubblica Partenopea del 1799 e poi ripresa nelle 5 giornate di Milano del 1848, e più recentemente divenuto slogan simbolico della rivolta di Reggio Calabria svoltasi dal luglio del 1970 al febbraio del 1971.
Storia del Reggimento Giovani Fascisti Regio Esercito Italiano 1940-1943
Sacrario Museo Reggimentale
Il 10 Giugno 1940 l'Italia, con la dichiarazione di guerra alla Francia ed alla Gran Bretagna, entra nel secondo conflitto mondiale.
Animati da sincero entusiasmo e desiderosi di partecipazione, 25.000 giovani di tutte le estrazioni sociali e provenienti dalle fila della G.I.L. (Gioventù Italiana del Littorio), chiedono di essere arruolati volontari per raggiungere il fronte di combattimento. Il P.N.F. (Partito Nazionale Fascista) grazie al Segretario Ettore Muti stabilisce con il Ministero della Guerra, che approva a malincuore, la costituzione di 24 Battaglioni G.I.L. che, militarmente istruiti nella zona della Liguria, sono poi impegnati in una marcia dimostrativa di 450 km, denominata "Marcia della Giovinezza".
Questa si conclude il 10 Ottobre 1940 come termine del periodo di addestramento a Padova, dove sono convenuti il Capo del Governo Benito Mussolini e le autorità militari per passare in rassegna i giovani volontari. Dopo la rivista, cui partecipano rappresentanze delle organizzazioni giovanili europee, i giovani apprendono con profonda delusione che i loro Battaglioni sono smobilitati, su richiesta dei comandi militari ed inviati a rientrare nelle loro case per continuare a studiare e lavorare.
Si mortificano così 25.000 ragazzi che chiedono solo di combattere. Il malcontento è tale che il V° Gruppo, accampato alla Fiera Campionaria di Padova, arriva ad ammutinarsi incendiando un padiglione per non eseguire l'ordine. Vista la violenta reazione di 2.000 volontari che non vogliono rientrare alle loro case, per intercessione di Ettore Muti sono costituiti tre Battaglioni Speciali G.I.L. e inviati a spese del Comando Generale della G.I.L. a Formia, Gaeta e Scauri per completare l'addestramento militare.
I volontari sono stufi di promesse, di esercitazioni e visite di Gerarchi. In seguito a diverse sollecitazioni il Ministero della Guerra invia l'Ispettore della Fanteria Generale Taddeo Orlando, per costatare il grado di preparazione militare dei Battaglioni. Il suo parere è favorevole e i volontari sono pronti al combattimento.
Il Ministero della Guerra, con disposizione n.486120 del 12 Aprile 1941, decide di trasformare i Battaglioni G.I.L. nella 301^ Legione CC.NN.; ma dopo una settimana non avendo i volontari adempiuto ancora il periodo di ferma regolare, essendo la M.V.S.N. (Milizia Volontaria Sicurezza Nazionale) un apparato post-militare, il Ministero si affretta ad emanare una nuova disposizione, n. 49640 del 18 Aprile 1941, che modifica la precedente disponendo la costituzione del "Gruppo Battaglioni Giovani Fascisti" quale unità del Regio Esercito. Nacque così una nuova e particolare unità del Regio Esercito la cui truppa era costituita da giovani, grazie al consenso firmato dai genitori, inquadrati come "volontari ordinari senza vincoli di ferma " anziché come "volontari di guerra", e da sottufficiali ed ufficiali anch'essi come volontari.
Le uniformi ed i pugnali della Milizia sono ritirati e sostituiti dall'Esercito con l'uniforme della Fanteria con due particolarità: al bavero le fiamme sono a due punte bicolore giallo rosse (i colori di Roma e della G.I.L.); come berretto di fatica è adottato il fez nero dei reparti Arditi della Prima Guerra Mondiale. Sarà questo il solo copricapo portato orgogliosamente con un pizzico di spavalderia dai giovani volontari (al reparto non fù consegnato l'elmetto.
A Maggio il "Gruppo Battaglioni Giovani Fascisti" è trasferito a Napoli in attesa di destinazione. Il 24 Giugno è portata al Duce, da parte del Comando Supremo, una lettera intestata "Battaglioni G.I.L." che porta in calce una annotazione del Generale Magli: "…esprimo parere contrario: le unità che dovranno operare sul fronte Russo non possono essere composte da ragazzi…". Letta l'annotazione Mussolini scrive sotto di suo pugno: "Sta bene! i due Battaglioni andranno in Libia".
Il 29 Luglio 1941 il "Gruppo Battaglioni GG.FF.", composto dal I° e II° Battaglione e dal Comando di Gruppo, sbarca a Tripoli ed inviato con compiti di presidio a Homs e Misurata. I Battaglioni subiscono trasformazioni nell'organico e vengono consegnati i cannoncini 47\32 ed i mortai da 81 mm.
Il 2 Settembre 1941 con disposizione n.3 del Supercomando in Africa Settentrionale, il Gruppo entra a far parte del R.E.CA.M. (Raggruppamento Esplorante del Corpo d'Armata di Manovra) comandato dal Generale Gambara il quale, al momento di comunicare al Ten.Col. Tanucci comandante il Gruppo il loro prossimo impegno sul fronte di combattimento, scrive testualmente: "…il loro compito è arduo. I volontari sono al primo combattimento, sono giovani, ma ho piena fiducia in loro…".
Il 3 Dicembre 1941 il "Gruppo Battaglioni GG.FF." si trova schierato a Bir el Gobi (Libia). Il I° Btg. ed il Comando a quota 182; il II° Btg. alle quote 184 e 188. L'intenzione del Comandante dell'8^ Armata Britannica Generale Ritchie era di occupare Bir el Gobi, secondo il quale avrebbe opposto scarsa resistenza perché presidiata dai "Mussolini's Boys" che ai primi colpi di cannone sarebbero scappati, per poi passare così alle spalle del nemico. Quindi fu ordinato all'XI^ Brigata Indiana comandata dal Generale Anderson di occupare Bir el Gobi. La Brigata era composta da tre Battaglioni di Fanteria ( 2nd Maharatta, 2nd Cameron, 1st Rajaputana), da due Reggimenti d'Artiglieria pesante e leggera, da una compagnia di Carri Armati dell'8th Royal Tank Regiment. Il "Gruppo Battaglioni GG.FF." era composto da 1454 uomini armati di 24 fucili mitragliatori Breda mod.30, 12 mitragliatrici Breda mod.36, 12 fucili controcarro Polacco, 6 fucili controcarro Solothurn, 8 cannoncini da 47/32 e 8 mortai da 81mm e due casse di bombe Passaglia (una per Battaglione). Inoltre a Bir el Gobi c'era un presidio composto da 12 carri L3 (alcuni inutilizzabili ma furono interrati ed usati come nidi di mitragliatrici), 2 carri armati M13, 2 cannoncini 47/32 e 2 mitragliere da 20mm.
La battaglia inizia nel pomeriggio del 3 e continua nei giorni 4,5,6 Dicembre. E' presente anche la fanfara del Gruppo che durante gli attacchi nemici suona "Fischia il sasso". Gli scontri sono violenti, i volontari combattono con fredda determinazione, le fanterie nemiche sono falciate dal tiro preciso dei Giovani Fascisti, i carri nemici attaccati e distrutti; per tre giorni l'11^ Brigata Indiana e parte della 22^ Brigata Guardie accorsa in suo aiuto, non riuscirono ad occupare il caposaldo. Nei combattimenti parteciparono anche elementi della 1^ Divisione Sudafricana e della 2^ Divisione Neozelandese.
Innumerevoli sono gli episodi di valore come i sacrifici del Capitano Barbieri, dei Sergenti Lupo, Naldi e Ravaglia, dei volontari Bilferi, Calvano, Cocchi, Crocicchio, Bolognesi, Guidoni, Meloni, Minarelli, Nulli, Romagnoli, Togni e primo fra tutti il Cap.Magg. Ippolito Niccolini benché ferito per tre volte riesce a neutralizzare un carro nemico. Sarà insignito di Medaglia d'Oro al Valor Militare. Anche il Comandante del Gruppo Ten.Col. Tanucci è ferito e impreca contro gli Inglesi urlando "…vigliacchi, colpire un Bersagliere ai c…". Il Comandante del I° Btg. Maggiore Balisti ferito gravemente alla gamba sinistra che sarà successivamente amputata, si fa portare in barella nelle postazioni per incitare " i suoi ragazzi". La mattina del 7 Dicembre arrivano due colonne delle 15^ e 21^ Divisioni Corazzate tedesche. Il Generale Rommel osserva il campo di battaglia e si complimenta con il Ten. Milesi, quindi riparte con le Divisioni all'inseguimento del nemico. Gli Inglesi non sono riusciti ad occupare Bir el Gobi e pesanti sono state le loro perdite: due compagnie la Maharatta e la Cameron sono state completamente distrutte, le loro perdite ammontano a circa 300 morti, 250 feriti, 71 prigionieri; distrutti sei carri amati pesanti, sei leggeri e molti automezzi.
Le perdite nei Volontari GG.FF. ammontano a 54 morti con 117 feriti e 31 dispersi. Dopo l'aspra battaglia il "Gruppo Battaglioni Giovani Fascisti" ripiega con altre unità italo-tedesche.
Il Gruppo entra a far parte della Divisione Sabratha, prende parte ai combattimenti di El Agheila e Marsa el Brega subendo lievi perdite. Successivamente a seguito un ordine inaspettato i Volontari GG.FF. sono inviati a riposo presso il Villaggio Gioda quando nessuno ne sentiva la necessità.
Il 24 Maggio 1942 come riconoscimento del valore dimostrato dai Volontari GG.FF. a Bir el Gobi, per ordine di Mussolini viene costituita la 136^ Divisione Corazzata "Giovani Fascisti", nella quale essi costituiscono il nucleo principale. Presso il Villaggio Gioda fanno seguito visite importanti come quelle del Generale Gambara, dei Marescialli d'Italia Cavallero e Bastico dove quest'ultimo consegna la decorazioni al Valor Militare.
Le forze italo-tedesche hanno ripreso l'avanzata, i Volontari fremono. Finalmente giunge l'ordine di occupare l'Oasi di Siwa in Egitto ed il 23 Luglio 1942 è occupata da una colonna della costituenda 136^ Divisone Corazzata "Giovani Fascisti". Il 21 Luglio un Battaglione di GG.FF aviotrasportato da Junkers 52 atterra nell'Oasi per completare l'occupazione. Siwa riveste particolare importanza strategica per azioni difensive contro eventuali attacchi alleati ma anche per azioni offensive come base di partenza per attacchi tendenti a raggiungere l'interno egiziano. Dall'Oasi partono diverse piste verso Giarabub e la Marmarica ad ovest e verso Bagarya, Sitra, Ain Zeitun ad est (km 370) è la più interessante perché ha ottimi collegamenti con la Valle del Nilo.
Il 30 Agosto il "Gruppo Battaglioni Giovani Fascisti" assume la denominazione di Reggimento "Giovani Fascisti". Il reparto viene schierato presso i vari passi e l'artiglieria divisionale attorno l'Oasi. La popolazione locale ha apprezzato il gesto di lasciare sventolare la Bandiera Egiziana accanto a quella Italiana. Il Mamur invita gli ufficiali ad un pranzo. Viene costituito un Ufficio Affari Civili utilizzando personale egiziano per tenere i contatti con i vari commercianti del luogo.
Il 22 Settembre il Feld Maresciallo Rommel ispezione la Divisione ed in un colloquio con gli Ufficiali Italiani si dimostra interessato alla pista che da Bagarya porta a Moghaga che prosegue sino alla Valle del Nilo ma anche verso la capitale egiziana, Il Cairo. In seguito si intrattiene poi coi le autorità egiziane presenti nell'Oasi. In serata "radio scarpa" comunica che il nemico sarà aggirato e i Volontari riprendono a cantare. Nel frattempo è giunta anche una compagnia del 3° reparto esplorante tedesco. La nuova 136^ Divisone sta prendendo la sua fisionomia con l'arrivo di truppe e mezzi vari mentre il nemico, per mezzo delle ricognizioni aeree, tiene in osservazione tutti gli spostamenti italo-tedeschi presso l'Oasi. Brevi scontri con pattuglie alleate causano lievi perdite mentre il pericolo più insidioso è la malaria che colpisce quasi tutta la guarnigione con circa 800 ricoveri ospedalieri.
Quando inizia l'offensiva ad El Alamein nel Reggimento cresce il malumore per il mancato combattimento e induce ben 825 volontari a chiedere il trasferimento presso reparti operativi con il risultato che l'aiutante Maggiore in I^ annulla tutte le richieste. L'esito sfortunato della battaglia induce il Comando Italiano a far ripiegare la 136^ Divisione.
Il 4 Novembre 1942 alcuni notabili egiziani esprimono il loro dispiacere per il prossimo ritiro dell'Esercito Italiano; il commerciante che riforniva la Divisione di frutta e verdura si presenta al Comando e restituisce le Lire Italiane avute come pagamento delle merci acquistate ma rifiuta le Sterline offertegli in cambio, aggiungendo "…per me è stato un onore avervi conosciuti…". Giunge il VI° Battaglione Libico che si trovava fra le depressioni di Qattara.
Il 6 Novembre, salutati da una parte della popolazione, la 136^ Divisione in due scaglioni inizia il ripiegamento che la porterà ad Agedabia (Libia) mentre il reparto tedesco ripiega verso Sollum. Le due colonne composte da circa 3000 uomini montati su 290 automezzi iniziano il ripiegamento e nella sosta a Giarabub si unisce il reparto che presidiava quest'ultima Oasi. Percorrendo circa 1200 Km su piste sconosciute e mai percorse da una intera Divisone, fu evitato l'accerchiamento da parte del nemico ma subendo due attacchi aerei che causarono diversi morti e feriti. Il ripiegamento si conclude ad Agedabia tra il 16 e il 18 novembre ed essendo il reparto ancora efficiente al 95% delle sue forze è messo in retroguardia allo schieramento italo-tedesco.Il Reggimento di schiera tra Marsa el Brega e El Agheila per poi ripiegare, sempre combattendo, a En Nufilia dove presso l'Ara dei Fileni avviene l'incontro coi Volontari del III°Battaglione che viene sciolto per reintegrare le perdite del I° e del II°. Il Reggimento prosegue fino ad assestarsi tra Buerat e Gheddaia dove avvengono scontri con il XXX° Corpo d'Armata Inglese. I Volontari lasciano due compagnie in retroguardia che si riuniscono a nord di Tarhuna dove avvengono brevi combattimenti con la 7^ Divisione Corazzata Inglese e la 2^ Divisione Neozelandese.
Il 25 Gennaio 1943 superando il confine con la Tunisia viene abbandonata con dolore la Libia. Il ripiegamento si arresta sulla ex linea fortificata del Mareth, sull'uadi Zig Zao, creata dai francesi per fermare un eventuale attacco italiano. E' protetta da un profondo fossato anticarro dove si attestano le Divisioni italo-tedesche. Il Reggimento GG.FF. è schierato verso il mare e a Marzo una compagnia di formazione partecipa all'operazione "Capri" subendo qualche perdita.
Tra il 17 e il 30 Marzo si combatte la battaglia del Mareth. Inizia con un violento bombardamento da parte delle forze alleate, cadono sotto l'attacco nemico alcuni capisaldi come il "Biancospino" che, data la sua posizione crea molti problemi al Reggimento. E' occupato dal 7° Battaglione Green Howard con elementi della 201^ Brigata Guardie Inglesi. Viene deciso di rioccuparlo: partono all'attacco due compagnie di formazione una composta dai volontari GG.FF. ed una dai Legionari CC.NN. del X° M (che era stato assegnato al Reggimento). Quest'ultimo viene preso d'infilata dal nemico e non può avanzare. A suo sostegno interviene il Capitano Baldassari, i combattimenti sono cruenti assalti all'arma bianca con lancio di bombe a mano e il caposaldo "Biancospino" è riconquistato. Molti sono i caduti tra i Volontari compresi due Ufficiali, uno tra i GG.FF. il secondo del X°M. In questo combattimento il III° Battaglione GG.FF. ha avuto il battesimo del fuoco. Dopo la riconquista del caposaldo un ordine inspiegabile del Comando del Corpo D'Armata obbliga l'abbandono della postazione. Il 23 Marzo un contrordine dello stesso invierà un reparto speciale per rioccupare il "Biancospino". A questo punto il Comandante del Reggimento GG.FF. precede tutti e invia una compagnia al comando del Capitano Niccolini (fratello di Ippolito, caduto a Bir el Gobi) che dopo due ore di cruenti combattimenti riesce a conquistare il caposaldo. Nel pomeriggio giunge il reparto inviato dal Comando: "…siamo gli assalitori, dobbiamo rioccupare il caposaldo Biancospino…". Il Colonnello Sechi risponde: "…è già stato rioccupato dai miei Volontari."
I combattimenti proseguono sino al 30 Marzo; per evitare l'accerchiamento lo schieramento italo-tedesco ripiega sulla linea Akarit Chott. La battaglia dura due giorni, il 5 e il 6 Aprile, poi è inevitabile la ritirata sull'ultimo baluardo di Enfidaville.
Questa è l'ultima linea di resistenza e i Volontari vengono schierati sulle quote 97-126-130-141. La prima battaglia di Enfidaville dal 19 al 30 Aprile 1943 inizia con un attacco massiccio dal cielo e da terra. Alle prime luci dell'alba del 25 Aprile, giorno di Pasqua, la 6^ Brigata Neozelandese con elementi della 167^ Brigata Guardie Inglese attaccano tutto il settore tenuto dai Volontari GG.FF., ma è la quota 141 che subisce la maggiore pressione. Essa è tenuta dalla 2^ Compagnia. Il Capitano Raumi organizza il contrattacco, la posizione e persa due volte ma viene riconquistata con violenti a corpo a corpo. Sul campo di battaglia vengono contati circa 150 nemici caduti, mentre le perdite del Reggimento tra morti, feriti e dispersi ammontano a 156. Molti gli episodi di valore. Tra tutti quello del Volontario Stefano David il quale, ferito e catturato dal nemico, viene sospinto dalle baionette inglesi con lo scopo di penetrare nelle linee dei Giovani Fascisti. Giunto nelle vicinanze delle postazioni dei Volontari e accortosi che questi gli andavano incontro per aiutarlo, trova la forza per rialzarsi e gridare: "2^ Compagnia fuoco! Sono nemici" e cade falciato assieme ai nemici. Verrà insignito di Medaglia d'Oro al Valor Militare. Il 29 Aprile la quota 141 è definitivamente riconquistata dai volontari della 3^ Compagnia che alla fine del combattimento sarà ridotta a soli 20 Giovani Fascisti.
La seconda battaglia di Enfidaville dal 9 al 13 Maggio 1943 è violenta e breve, i combattimenti si susseguono, le postazioni dei Volontari ora sono attaccate dalla 69^ Brigata Inglese. La lotta è impari ma la quota 141 è sempre teatro di cruenti scontri ma resta saldamente in mano ai Giovani Fascisti. I camerati della 90^ Divisione Tedesca si arrendono, i volontari del II° Battaglione GG.FF. occupano le postazioni abbandonate dall'alleato e continuano a combattere.
Il 12 Maggio giunge da Roma l'ordine di resa. A malincuore i Volontari accettano la decisione. In nottata seppelliscono le Fiamme di Combattimento del II° e III° Battaglione, mentre quella del I° è divisa in 17 parti (è stata ricostruita in parte a fine guerra e d'ora si trova esposta presso il Museo Reggimentale). Distruggono armi e bruciano il materiale che può essere utile al nemico. Molti reparti inviano telegrammi inneggianti alla Patria, al Re, al Duce, mentre i giovani fascisti volevano ancora combattere, infatti sul diario storico della 2^ Divisione Neozelandese si legge: "…finalmente il fronte tace. Solo su punto 141 il nemico è ancora attivo…". Quota 141 è occupata dai Giovani Fascisti che non persero alcuna delle posizioni loro assegnate.
Il 13 maggio 1943 sulla piana di Bou Fichà i resti del Reggimento sono passati in rassegna dal Colonnello Comandante del Reggimento e dal suo Aiutante in I^, tra lo stupore del nemico venuto a catturarli.
Il reparto perse la metà degli effettivi. Il Reggimento "Giovani Fascisti" è stato l'unico reparto del Regio Esercito Italiano ad essere composto da tutti Volontari ed anche l'unico reparto a non aver ricevuta la Bandiera di Combattimento. Il Reggimento ha onorato la tradizione militare Italiana.
Questa si conclude il 10 Ottobre 1940 come termine del periodo di addestramento a Padova, dove sono convenuti il Capo del Governo Benito Mussolini e le autorità militari per passare in rassegna i giovani volontari. Dopo la rivista, cui partecipano rappresentanze delle organizzazioni giovanili europee, i giovani apprendono con profonda delusione che i loro Battaglioni sono smobilitati, su richiesta dei comandi militari ed inviati a rientrare nelle loro case per continuare a studiare e lavorare.
Si mortificano così 25.000 ragazzi che chiedono solo di combattere. Il malcontento è tale che il V° Gruppo, accampato alla Fiera Campionaria di Padova, arriva ad ammutinarsi incendiando un padiglione per non eseguire l'ordine. Vista la violenta reazione di 2.000 volontari che non vogliono rientrare alle loro case, per intercessione di Ettore Muti sono costituiti tre Battaglioni Speciali G.I.L. e inviati a spese del Comando Generale della G.I.L. a Formia, Gaeta e Scauri per completare l'addestramento militare.
I volontari sono stufi di promesse, di esercitazioni e visite di Gerarchi. In seguito a diverse sollecitazioni il Ministero della Guerra invia l'Ispettore della Fanteria Generale Taddeo Orlando, per costatare il grado di preparazione militare dei Battaglioni. Il suo parere è favorevole e i volontari sono pronti al combattimento.
Il Ministero della Guerra, con disposizione n.486120 del 12 Aprile 1941, decide di trasformare i Battaglioni G.I.L. nella 301^ Legione CC.NN.; ma dopo una settimana non avendo i volontari adempiuto ancora il periodo di ferma regolare, essendo la M.V.S.N. (Milizia Volontaria Sicurezza Nazionale) un apparato post-militare, il Ministero si affretta ad emanare una nuova disposizione, n. 49640 del 18 Aprile 1941, che modifica la precedente disponendo la costituzione del "Gruppo Battaglioni Giovani Fascisti" quale unità del Regio Esercito. Nacque così una nuova e particolare unità del Regio Esercito la cui truppa era costituita da giovani, grazie al consenso firmato dai genitori, inquadrati come "volontari ordinari senza vincoli di ferma " anziché come "volontari di guerra", e da sottufficiali ed ufficiali anch'essi come volontari.
Le uniformi ed i pugnali della Milizia sono ritirati e sostituiti dall'Esercito con l'uniforme della Fanteria con due particolarità: al bavero le fiamme sono a due punte bicolore giallo rosse (i colori di Roma e della G.I.L.); come berretto di fatica è adottato il fez nero dei reparti Arditi della Prima Guerra Mondiale. Sarà questo il solo copricapo portato orgogliosamente con un pizzico di spavalderia dai giovani volontari (al reparto non fù consegnato l'elmetto.
A Maggio il "Gruppo Battaglioni Giovani Fascisti" è trasferito a Napoli in attesa di destinazione. Il 24 Giugno è portata al Duce, da parte del Comando Supremo, una lettera intestata "Battaglioni G.I.L." che porta in calce una annotazione del Generale Magli: "…esprimo parere contrario: le unità che dovranno operare sul fronte Russo non possono essere composte da ragazzi…". Letta l'annotazione Mussolini scrive sotto di suo pugno: "Sta bene! i due Battaglioni andranno in Libia".
Il 29 Luglio 1941 il "Gruppo Battaglioni GG.FF.", composto dal I° e II° Battaglione e dal Comando di Gruppo, sbarca a Tripoli ed inviato con compiti di presidio a Homs e Misurata. I Battaglioni subiscono trasformazioni nell'organico e vengono consegnati i cannoncini 47\32 ed i mortai da 81 mm.
Il 2 Settembre 1941 con disposizione n.3 del Supercomando in Africa Settentrionale, il Gruppo entra a far parte del R.E.CA.M. (Raggruppamento Esplorante del Corpo d'Armata di Manovra) comandato dal Generale Gambara il quale, al momento di comunicare al Ten.Col. Tanucci comandante il Gruppo il loro prossimo impegno sul fronte di combattimento, scrive testualmente: "…il loro compito è arduo. I volontari sono al primo combattimento, sono giovani, ma ho piena fiducia in loro…".
Il 3 Dicembre 1941 il "Gruppo Battaglioni GG.FF." si trova schierato a Bir el Gobi (Libia). Il I° Btg. ed il Comando a quota 182; il II° Btg. alle quote 184 e 188. L'intenzione del Comandante dell'8^ Armata Britannica Generale Ritchie era di occupare Bir el Gobi, secondo il quale avrebbe opposto scarsa resistenza perché presidiata dai "Mussolini's Boys" che ai primi colpi di cannone sarebbero scappati, per poi passare così alle spalle del nemico. Quindi fu ordinato all'XI^ Brigata Indiana comandata dal Generale Anderson di occupare Bir el Gobi. La Brigata era composta da tre Battaglioni di Fanteria ( 2nd Maharatta, 2nd Cameron, 1st Rajaputana), da due Reggimenti d'Artiglieria pesante e leggera, da una compagnia di Carri Armati dell'8th Royal Tank Regiment. Il "Gruppo Battaglioni GG.FF." era composto da 1454 uomini armati di 24 fucili mitragliatori Breda mod.30, 12 mitragliatrici Breda mod.36, 12 fucili controcarro Polacco, 6 fucili controcarro Solothurn, 8 cannoncini da 47/32 e 8 mortai da 81mm e due casse di bombe Passaglia (una per Battaglione). Inoltre a Bir el Gobi c'era un presidio composto da 12 carri L3 (alcuni inutilizzabili ma furono interrati ed usati come nidi di mitragliatrici), 2 carri armati M13, 2 cannoncini 47/32 e 2 mitragliere da 20mm.
La battaglia inizia nel pomeriggio del 3 e continua nei giorni 4,5,6 Dicembre. E' presente anche la fanfara del Gruppo che durante gli attacchi nemici suona "Fischia il sasso". Gli scontri sono violenti, i volontari combattono con fredda determinazione, le fanterie nemiche sono falciate dal tiro preciso dei Giovani Fascisti, i carri nemici attaccati e distrutti; per tre giorni l'11^ Brigata Indiana e parte della 22^ Brigata Guardie accorsa in suo aiuto, non riuscirono ad occupare il caposaldo. Nei combattimenti parteciparono anche elementi della 1^ Divisione Sudafricana e della 2^ Divisione Neozelandese.
Innumerevoli sono gli episodi di valore come i sacrifici del Capitano Barbieri, dei Sergenti Lupo, Naldi e Ravaglia, dei volontari Bilferi, Calvano, Cocchi, Crocicchio, Bolognesi, Guidoni, Meloni, Minarelli, Nulli, Romagnoli, Togni e primo fra tutti il Cap.Magg. Ippolito Niccolini benché ferito per tre volte riesce a neutralizzare un carro nemico. Sarà insignito di Medaglia d'Oro al Valor Militare. Anche il Comandante del Gruppo Ten.Col. Tanucci è ferito e impreca contro gli Inglesi urlando "…vigliacchi, colpire un Bersagliere ai c…". Il Comandante del I° Btg. Maggiore Balisti ferito gravemente alla gamba sinistra che sarà successivamente amputata, si fa portare in barella nelle postazioni per incitare " i suoi ragazzi". La mattina del 7 Dicembre arrivano due colonne delle 15^ e 21^ Divisioni Corazzate tedesche. Il Generale Rommel osserva il campo di battaglia e si complimenta con il Ten. Milesi, quindi riparte con le Divisioni all'inseguimento del nemico. Gli Inglesi non sono riusciti ad occupare Bir el Gobi e pesanti sono state le loro perdite: due compagnie la Maharatta e la Cameron sono state completamente distrutte, le loro perdite ammontano a circa 300 morti, 250 feriti, 71 prigionieri; distrutti sei carri amati pesanti, sei leggeri e molti automezzi.
Le perdite nei Volontari GG.FF. ammontano a 54 morti con 117 feriti e 31 dispersi. Dopo l'aspra battaglia il "Gruppo Battaglioni Giovani Fascisti" ripiega con altre unità italo-tedesche.
Il Gruppo entra a far parte della Divisione Sabratha, prende parte ai combattimenti di El Agheila e Marsa el Brega subendo lievi perdite. Successivamente a seguito un ordine inaspettato i Volontari GG.FF. sono inviati a riposo presso il Villaggio Gioda quando nessuno ne sentiva la necessità.
Il 24 Maggio 1942 come riconoscimento del valore dimostrato dai Volontari GG.FF. a Bir el Gobi, per ordine di Mussolini viene costituita la 136^ Divisione Corazzata "Giovani Fascisti", nella quale essi costituiscono il nucleo principale. Presso il Villaggio Gioda fanno seguito visite importanti come quelle del Generale Gambara, dei Marescialli d'Italia Cavallero e Bastico dove quest'ultimo consegna la decorazioni al Valor Militare.
Le forze italo-tedesche hanno ripreso l'avanzata, i Volontari fremono. Finalmente giunge l'ordine di occupare l'Oasi di Siwa in Egitto ed il 23 Luglio 1942 è occupata da una colonna della costituenda 136^ Divisone Corazzata "Giovani Fascisti". Il 21 Luglio un Battaglione di GG.FF aviotrasportato da Junkers 52 atterra nell'Oasi per completare l'occupazione. Siwa riveste particolare importanza strategica per azioni difensive contro eventuali attacchi alleati ma anche per azioni offensive come base di partenza per attacchi tendenti a raggiungere l'interno egiziano. Dall'Oasi partono diverse piste verso Giarabub e la Marmarica ad ovest e verso Bagarya, Sitra, Ain Zeitun ad est (km 370) è la più interessante perché ha ottimi collegamenti con la Valle del Nilo.
Il 30 Agosto il "Gruppo Battaglioni Giovani Fascisti" assume la denominazione di Reggimento "Giovani Fascisti". Il reparto viene schierato presso i vari passi e l'artiglieria divisionale attorno l'Oasi. La popolazione locale ha apprezzato il gesto di lasciare sventolare la Bandiera Egiziana accanto a quella Italiana. Il Mamur invita gli ufficiali ad un pranzo. Viene costituito un Ufficio Affari Civili utilizzando personale egiziano per tenere i contatti con i vari commercianti del luogo.
Il 22 Settembre il Feld Maresciallo Rommel ispezione la Divisione ed in un colloquio con gli Ufficiali Italiani si dimostra interessato alla pista che da Bagarya porta a Moghaga che prosegue sino alla Valle del Nilo ma anche verso la capitale egiziana, Il Cairo. In seguito si intrattiene poi coi le autorità egiziane presenti nell'Oasi. In serata "radio scarpa" comunica che il nemico sarà aggirato e i Volontari riprendono a cantare. Nel frattempo è giunta anche una compagnia del 3° reparto esplorante tedesco. La nuova 136^ Divisone sta prendendo la sua fisionomia con l'arrivo di truppe e mezzi vari mentre il nemico, per mezzo delle ricognizioni aeree, tiene in osservazione tutti gli spostamenti italo-tedeschi presso l'Oasi. Brevi scontri con pattuglie alleate causano lievi perdite mentre il pericolo più insidioso è la malaria che colpisce quasi tutta la guarnigione con circa 800 ricoveri ospedalieri.
Quando inizia l'offensiva ad El Alamein nel Reggimento cresce il malumore per il mancato combattimento e induce ben 825 volontari a chiedere il trasferimento presso reparti operativi con il risultato che l'aiutante Maggiore in I^ annulla tutte le richieste. L'esito sfortunato della battaglia induce il Comando Italiano a far ripiegare la 136^ Divisione.
Il 4 Novembre 1942 alcuni notabili egiziani esprimono il loro dispiacere per il prossimo ritiro dell'Esercito Italiano; il commerciante che riforniva la Divisione di frutta e verdura si presenta al Comando e restituisce le Lire Italiane avute come pagamento delle merci acquistate ma rifiuta le Sterline offertegli in cambio, aggiungendo "…per me è stato un onore avervi conosciuti…". Giunge il VI° Battaglione Libico che si trovava fra le depressioni di Qattara.
Il 6 Novembre, salutati da una parte della popolazione, la 136^ Divisione in due scaglioni inizia il ripiegamento che la porterà ad Agedabia (Libia) mentre il reparto tedesco ripiega verso Sollum. Le due colonne composte da circa 3000 uomini montati su 290 automezzi iniziano il ripiegamento e nella sosta a Giarabub si unisce il reparto che presidiava quest'ultima Oasi. Percorrendo circa 1200 Km su piste sconosciute e mai percorse da una intera Divisone, fu evitato l'accerchiamento da parte del nemico ma subendo due attacchi aerei che causarono diversi morti e feriti. Il ripiegamento si conclude ad Agedabia tra il 16 e il 18 novembre ed essendo il reparto ancora efficiente al 95% delle sue forze è messo in retroguardia allo schieramento italo-tedesco.Il Reggimento di schiera tra Marsa el Brega e El Agheila per poi ripiegare, sempre combattendo, a En Nufilia dove presso l'Ara dei Fileni avviene l'incontro coi Volontari del III°Battaglione che viene sciolto per reintegrare le perdite del I° e del II°. Il Reggimento prosegue fino ad assestarsi tra Buerat e Gheddaia dove avvengono scontri con il XXX° Corpo d'Armata Inglese. I Volontari lasciano due compagnie in retroguardia che si riuniscono a nord di Tarhuna dove avvengono brevi combattimenti con la 7^ Divisione Corazzata Inglese e la 2^ Divisione Neozelandese.
Il 25 Gennaio 1943 superando il confine con la Tunisia viene abbandonata con dolore la Libia. Il ripiegamento si arresta sulla ex linea fortificata del Mareth, sull'uadi Zig Zao, creata dai francesi per fermare un eventuale attacco italiano. E' protetta da un profondo fossato anticarro dove si attestano le Divisioni italo-tedesche. Il Reggimento GG.FF. è schierato verso il mare e a Marzo una compagnia di formazione partecipa all'operazione "Capri" subendo qualche perdita.
Tra il 17 e il 30 Marzo si combatte la battaglia del Mareth. Inizia con un violento bombardamento da parte delle forze alleate, cadono sotto l'attacco nemico alcuni capisaldi come il "Biancospino" che, data la sua posizione crea molti problemi al Reggimento. E' occupato dal 7° Battaglione Green Howard con elementi della 201^ Brigata Guardie Inglesi. Viene deciso di rioccuparlo: partono all'attacco due compagnie di formazione una composta dai volontari GG.FF. ed una dai Legionari CC.NN. del X° M (che era stato assegnato al Reggimento). Quest'ultimo viene preso d'infilata dal nemico e non può avanzare. A suo sostegno interviene il Capitano Baldassari, i combattimenti sono cruenti assalti all'arma bianca con lancio di bombe a mano e il caposaldo "Biancospino" è riconquistato. Molti sono i caduti tra i Volontari compresi due Ufficiali, uno tra i GG.FF. il secondo del X°M. In questo combattimento il III° Battaglione GG.FF. ha avuto il battesimo del fuoco. Dopo la riconquista del caposaldo un ordine inspiegabile del Comando del Corpo D'Armata obbliga l'abbandono della postazione. Il 23 Marzo un contrordine dello stesso invierà un reparto speciale per rioccupare il "Biancospino". A questo punto il Comandante del Reggimento GG.FF. precede tutti e invia una compagnia al comando del Capitano Niccolini (fratello di Ippolito, caduto a Bir el Gobi) che dopo due ore di cruenti combattimenti riesce a conquistare il caposaldo. Nel pomeriggio giunge il reparto inviato dal Comando: "…siamo gli assalitori, dobbiamo rioccupare il caposaldo Biancospino…". Il Colonnello Sechi risponde: "…è già stato rioccupato dai miei Volontari."
I combattimenti proseguono sino al 30 Marzo; per evitare l'accerchiamento lo schieramento italo-tedesco ripiega sulla linea Akarit Chott. La battaglia dura due giorni, il 5 e il 6 Aprile, poi è inevitabile la ritirata sull'ultimo baluardo di Enfidaville.
Questa è l'ultima linea di resistenza e i Volontari vengono schierati sulle quote 97-126-130-141. La prima battaglia di Enfidaville dal 19 al 30 Aprile 1943 inizia con un attacco massiccio dal cielo e da terra. Alle prime luci dell'alba del 25 Aprile, giorno di Pasqua, la 6^ Brigata Neozelandese con elementi della 167^ Brigata Guardie Inglese attaccano tutto il settore tenuto dai Volontari GG.FF., ma è la quota 141 che subisce la maggiore pressione. Essa è tenuta dalla 2^ Compagnia. Il Capitano Raumi organizza il contrattacco, la posizione e persa due volte ma viene riconquistata con violenti a corpo a corpo. Sul campo di battaglia vengono contati circa 150 nemici caduti, mentre le perdite del Reggimento tra morti, feriti e dispersi ammontano a 156. Molti gli episodi di valore. Tra tutti quello del Volontario Stefano David il quale, ferito e catturato dal nemico, viene sospinto dalle baionette inglesi con lo scopo di penetrare nelle linee dei Giovani Fascisti. Giunto nelle vicinanze delle postazioni dei Volontari e accortosi che questi gli andavano incontro per aiutarlo, trova la forza per rialzarsi e gridare: "2^ Compagnia fuoco! Sono nemici" e cade falciato assieme ai nemici. Verrà insignito di Medaglia d'Oro al Valor Militare. Il 29 Aprile la quota 141 è definitivamente riconquistata dai volontari della 3^ Compagnia che alla fine del combattimento sarà ridotta a soli 20 Giovani Fascisti.
La seconda battaglia di Enfidaville dal 9 al 13 Maggio 1943 è violenta e breve, i combattimenti si susseguono, le postazioni dei Volontari ora sono attaccate dalla 69^ Brigata Inglese. La lotta è impari ma la quota 141 è sempre teatro di cruenti scontri ma resta saldamente in mano ai Giovani Fascisti. I camerati della 90^ Divisione Tedesca si arrendono, i volontari del II° Battaglione GG.FF. occupano le postazioni abbandonate dall'alleato e continuano a combattere.
Il 12 Maggio giunge da Roma l'ordine di resa. A malincuore i Volontari accettano la decisione. In nottata seppelliscono le Fiamme di Combattimento del II° e III° Battaglione, mentre quella del I° è divisa in 17 parti (è stata ricostruita in parte a fine guerra e d'ora si trova esposta presso il Museo Reggimentale). Distruggono armi e bruciano il materiale che può essere utile al nemico. Molti reparti inviano telegrammi inneggianti alla Patria, al Re, al Duce, mentre i giovani fascisti volevano ancora combattere, infatti sul diario storico della 2^ Divisione Neozelandese si legge: "…finalmente il fronte tace. Solo su punto 141 il nemico è ancora attivo…". Quota 141 è occupata dai Giovani Fascisti che non persero alcuna delle posizioni loro assegnate.
Il 13 maggio 1943 sulla piana di Bou Fichà i resti del Reggimento sono passati in rassegna dal Colonnello Comandante del Reggimento e dal suo Aiutante in I^, tra lo stupore del nemico venuto a catturarli.
Il reparto perse la metà degli effettivi. Il Reggimento "Giovani Fascisti" è stato l'unico reparto del Regio Esercito Italiano ad essere composto da tutti Volontari ed anche l'unico reparto a non aver ricevuta la Bandiera di Combattimento. Il Reggimento ha onorato la tradizione militare Italiana.
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www.piccolacapreara.it
Cento anni della Rivoluzione di ottobre: l'assalto al cielo del comunismo
“Hanno
inventato il termine
stalinismo.
Ma non c’è mai
stato
nessuno stalinismo.
Fu
un’invenzione di Krusciov
per
attribuire a Stalin quelli
che
sono invece i caratteri
fondamentali
del comunismo,
le
sue colpe congenite.
In
realtà aveva già detto tutto
Lenin”.
Aleksander
Solzenicyn
Premessa
Fu
Lenin per primo a teorizzare e praticare il terrore al potere, nel
1922, in occasione della preparazione del codice penale
sovietico scriveva: “Il tribunale non
deve eliminare il terrore, prometterlo significherebbe ingannare
se stessi e ingannare gli altri; bisogna giustificarlo,
e legittimarlo sul piano dei principi, senza
falsità e senza abbellimenti”. In Lenin, come in una
matrioska russa, c’è già Stalin. Per il gulag, si è cercato di negare le
responsabilità all’ideologia
ed al sistema che lo hanno generato addossandone
la colpa a un loro momento e a un loro
rappresentante, ecco l’invenzione dello “stalinismo".
E’ curioso notare che il filosofo tedesco
Habermas usi la reticente e vaga definizione di
“espulsione” per lo sterminio staliniano dei kulaki che risale
agli anni Venti, ed è a tutti noto che i kulaki nonfu rono
semplicemente evacuati, ma proprio massacrati. Quando
Luigi Berlinguer ricoprì l’incarico di Ministro della
Pubblica Istruzione della Repubblica Italiana, emanò
curiose circolari sull’insegnamento della storia del
Novecento che eludono l’uso della parola comunismo, preferendo
definizioni come stalinismo o sovietismo, questo
suscitò una vivace polemica (si veda il libro Sostiene
Berlinguer, con testi di Abbruzzese, De
Michelis
e Galli della Loggia che contiene anche una ricca
appendice che riproduce i documenti ministeriali oggetto
di critiche), continua il “depistaggio stalinista” denunciato
da Solgenitsyn in Voci sotto le macerie. I vari
comunismi sparsi nel mondo e lungo l’arco del secolo sarebbero
dunque tutti surrogati, forme abusive di comunismo,
illusioni ottiche, disguidi e tradimenti. Il comunismo
resta così una magnifica promessa nell’alto dei
cieli che non si è ancora incarnata nella storia. E’
pertanto indispensabile per una comprensione compiuta del
comunismo ripristinare l’unità ideologica e la
continuità storica del comunismo, a partire da Lenin.
Non si
comprendono nè Stalin, né Mao, né Gramsci e
nemmeno Gorbacev se non si parte da Lenin e non
si restaura il senso di una continuità. Non si
comprendono le espressioni multiple del comunismo mondiale
se non si riannoda quel filo. Ma più
vastamente non si comprende il secolo delle
rivoluzioni se non partendo dalla scintilla, Iskra,
scintilla si chiamava, appunto, la rivista da cui
partì la rivoluzione, che Lenin accese nel 1903.
Iskra
Non c’è
frattura tra il leninismo e l’idea di egemonia in
Gramsci, ma prosecuzione coerente in ambito occidentale della
pretesa leninista di guidare la storia e le masse,
incarnando lo spirito del tempo e sostituendo ogni
altra aspirazione in ogni sfera pubblica e privata, a cominciare
dalla religione.
Ma non
c’è frattura nemmeno tra il leninismo e il gulag, prosecuzione coerente
della rivoluzione e del terrore che ebbero in
Lenin il primo convinto interprete, non solo ideologico. Non si
tratta di demonizzare il comunismo, e di caricare sulle
sue spalle il peso dei mali della modernità, si tratta, all’inverso,
di riconoscerne la portata e la grandiosa incidenza nella
storia. Si tratta di prendere sul serio il comunismo.
L’idea
di sopprimere la realtà, di estirpare la storia vera e
di abolire la società presente, la responsabilità degli
esiti dolorosi non può essere attenuata, nè attribuita alle
circostanze o all’infame corso degli eventi. Laddove
alcuni ritengono di cogliere il titolo di nobiltà del totalitarismo
comunista, si annida al contrario il suo punto di
inarrivabile crudeltà: l’idea dell’abolizione della storia, il sogno
di una umanità mai nata e una società mai realizzata che
nega radicalmente l’umanità concreta e la società vivente, è già
il cuore del male totalitario allo stato puro, non dunque degradazione
di principi, ma perfetta conseguenza di essi. Possiamo accettare la distinzione di Giovanni XXIII
tra l’errore e gli erranti e cioè di quanti al comunismo
credettero in buona fede, a volte dedicandogli la loro
vita e la loro passione intellettuale e civile. Anche
le cause peggiori possono attirare gli uomini migliori. C’è
una’antica parentela tra angeli e demoni. La
sensazione di vivere in un inferno, genera disperanti speranze
in altri inferni prossimi venturi, in cui si rovesciano
le parti, e dannati e carnefici si scambiano i ruoli. Le
utopie inoltre attraggono spesso nobili intelligenze e cuori disperati,
tra i primi non sarà difficile trovare intellettuali che al
comunismo credettero, salvo poi ricredersi e rovinare la loro
esistenza per quel loro ravvedimento, tra i secondi non
sarà difficile individuare le grandi masse di dannati della terra
che affidarono al sogno di redenzione del comunismo le loro
speranze di riscatto sociale, di dignità e di un radioso futuro
per i loro figli ed il loro risentimento, la loro voglia di far
scontare agli sfruttatori le sofferenze che avevano subito. L’espiazione,
un’antica categoria religiosa introdotta nella storia,
spiega una delle spinte psicologiche del comunismo.
Sul
piano storico e negli assetti sociali, il comunismo è
stato in alcuni Paesi un grande liquidatore di società arcaiche
premoderne, e un grande traghettatore verso la modernizzazione
capitalistica, quasi un taxi con tassametro impazzito
(con costi esorbitanti) che ha trasferito le masse dalle
comunità tradizionali alla società globale.
A partire dalla
Russia zarista, dove la rivoluzione comunista è stato un
corso accelerato di modernità, come sosteneva lo stesso Trotzkj,
che aveva fatto vivere, a tappe forzate, alla Russia le
rivoluzioni politiche e sociali moderne: la rivoluzione francese
ma anche la rivoluzione industriale, il terrore giacobino
ma anche la ricerca scientifica e l’applicazione tecnologica.
Il comunismo ha rappresentato per la Russia la
transizione cruenta fra il mondo premoderno, asiatico e
zarista, di cui pur aveva ereditato alcuni incantamenti magici
e liturgici, alcune restrizioni etiche e morali e alcune
ossessioni geopolitiche ed imperiali, e il mondo moderno
delle ricerche spaziali, degli armamenti, delle
fonti
energetiche, dell’economia come chiave del mondo. Il
comunismo nasce dal progetto di adeguare la realtà ad una idea
che diventa norma: da qui la normalizzazione come procedura standard
del comunismo al potere e la sua versione debole
e dolce di perseguire il sogno di un Paese normale di
alcuni intellettuali e politici nelle democrazie d’Occidente.
Ottobre
‘17
Nella
rivoluzione dell’ ottobre 1917 occorre distinguere tra due
movimenti, momentaneamente convergenti: l’ascesa
al potere, attraverso una accurata preparazione dell’insurrezione,
del partito bolscevico, minoritario, che si differenzia
radicalmente da tutti gli altri attori della rivoluzione,
per prassi politica, organizzazione ed ideologia ed una
diffusa rivoluzione sociale, multiforme ed autonoma caratterizzata
dalla ribellione di uno sterminato numero di
contadini, segnati da secoli di servaggio e povertà, che avevano
radicato un odio profondo nei confronti dei proprietari terrieri
e caratterizzata da una profonda diffidenza contadina verso
la città, il mondo estraneo alle comunità di appartenenza e
quindi verso ogni forma di ingerenza dello Stato.
Inoltre
l’estate e l’autunno del 1917 rappresentano il compimento
alla fine vittorioso di tutta una serie di rivolte iniziate
nel 1902, e caratterizzanti gli anni dal 1905 al 1907 .
L’ottobre
‘17 fu l’anno della svolta nello scontro tra contadini
e latifondisti per l’assegnazione delle terre, arrivava infine
la tanto attesa “ripartizione nera”, ma anche l’anno
che segnò uno dei momenti della lotta delle
campagne che opponevano un rifiuto ad ogni
forma di tutela imposta dal potere residente
nei centri urbani, tra contadini e Stato. Un
conflitto che ebbe in seguito i suoi momenti culminanti nel
1918-22 e poi ancora negli anni 1929-1933, per finire con l’annientamento
del mondo rurale, troncato alle radici dalla collettivizzazione
forzata delle terre. Il 1917 si caratterizza anche
per la completa disgregazione dell’esercito, formato
da 10
milioni di contadini, chiamati a combattere da tre anni una
guerra di cui non comprendevano il senso, e motivati a far
ritorno alle proprie comunità rurali di appartenenza.
Nelle
città dove si concentrano gli operai, che rappresentano solo il
3% della popolazione attiva, in un ambiente che vive
tutte le contraddizioni sociali di una modernizzazione economica
avviata da non più di una generazione, nasce un movimento
di rivendicazione operaia, che agisce politicamente e tende
alla conquista del potere (“potere ai soviet”). I
popoli assoggettati dall’ ormai ex impero zarista tornano
a reclamare dapprima autonomia e poi l’indipendenza. E' questo il contesto dove forze diverse e dai fini eterogenei, che è
impossibile ricomprendere nella sola azione e negli
slogan dei bolscevichi, contribuiranno a far
dissolvere ogni forma di istituzione tradizionale e in
generale ogni forma di autorità. In
questa fase il colpo di Stato politico e la rivoluzione sociale convergono
e sommano le loro forze, i bolscevichi minoranza politica
che opera in un sempre più ampio quadro di
vuoto istituzionale, procedono nel senso delle aspirazioni generali
della maggioranza delle forze in campo, ma i loro obiettivi
per l’immediato futuro sono radicalmente diversi.
La
prima guerra mondiale rivelò tutta la fragilità del regime zarista,
la cui modernizzazione incompiuta, rendeva la
Russia dipendente dall’estero per afflusso di capitali e tecnologie,
l’avanzata dei tedeschi e degli austro ungarici sin dal
1915 impedì l’arrivo dei prodotti dell’industria polacca peggiorando
ulteriormente la situazione, l’economia non
resse a lungo. Il
sistema dei trasporti ferroviario si stava sgretolando sin dal
1915, mancavano i pezzi di ricambio, la riconversione a scopo
bellico di quasi tutte le fabbriche diede il colpo di
grazia
al mercato interno. Mancavano i prodotti manifatturieri e
l’inflazione salì alle stelle.
Nelle
campagne la situazione precipitò rapidamente con il blocco
del credito agricolo e della riforma terriera, la mobilitazionedi
massa degli uomini in un esercito dove il soldato
era trattato più da schiavo che da persona,tutto
ciò confermò l’idea che i contadini avevano
dello Stato, una forza ostile ed estranea.
Alla fine del 1915 nessuno era più in grado di controllare la
situazione, non esisteva più nessun potere, e si
andavano organizzando in ogni dove comitati e associazioni che si
sostituivano nell’ amministrazione del
quotidiano, cosa che lo stato non riusciva più a garantire, si era
avviato un grande movimento scaturito dal
profondo della società russa la cui evoluzione nessuno era
ancora di immaginare appieno, e che sicuramente non fu
compreso dallo czar Nicola II, che isolato a
Mogilev sede del quartiere generale, aveva di fatto
rinunciato a dirigere il paese, lasciando spazio alla
Imperatrice Alessandra, che non godeva nel popolo alcuna
simpatia per la sua origine tedesca.
Nel
1916 tornarono gli scioperi, fu ucciso Rasputin, il
discusso consigliere dell’imperatrice Alessandra, le
agitazioni si estesero all’esercito.
Le
giornate del febbraio del 1917 rivelarono non solo la
estrema debolezza del sistema zarista, travolto dopo
cinque giorni di manifestazioni operaie e
l’ammutinamento di alcune migliaia di uomini della guardia di
Pietrogrado e lo stato di decomposizione dell’esercito, ma
anche l’estrema impreparazione e frammentazione delle forze
di opposizione, dal Partito costituzional democratico fino ai
socialdemocratici.
Le
forze dell’opposizione non furono mai alla guida degli
avvenimenti in nessuna di questa fase di questa rivoluzione
popolare spontanea cominciata nelle strade
e conclusa nelle stanze di palazzo Tauride. Liberali
e socialisti coltivavano opzioni diverse, l’obiettivo di una
russia capitalista, moderna e liberale che guardava alla Francia
e all’Inghilterra i primi, mentre per i secondi si prefigurava nel
tempo, essendo scoppiata la rivoluzione borghese, la ditttaura del proletariato.
Se da
un lato il governo provvisorio pareva preoccupato di
ristabilire un minimo di ordine e aveva scelto la via
parlamentare, dall’altro il potere del Soviet di Pietrogrado,
costituito da un gruppo di socialisti che si
annunciava erede della tradizione del Soviet di Pietroburgo del 1905, affermava il principio di rappresentare le
masse più direttamente ed in senso rivoluzionario. Il
“potere dei soviet” era in verità rappresentato da una galassia
in continuo fermento, movimento e cambiamento. I tre
governi provvisori che si succedettero dal 2 marzo
al 25 ottobre 1917, con i liberali in maggioranza nei
primi due e i socialisti rivoluzionari nel
terzo, si dimostrarono incapaci di far fronte alle
problematiche che attanagliavano il Paese: crisi
economica, proseguimento della guerra, questione operaia
e questione agraria. Era salita al potere una èlite urbana
colta, divisa tra una fiducia cieca nel popolo e la
paura delle masse oscure, una realtà quella del popolo che
peraltro questa èlite cittadina, formata sia da liberali che da
socialisti rivoluzionari, conosceva pochissimo.
Il
principe L’Vov, a capo dei primi due governi provvisori sognava
di fare della Russia “il Paese più libero del
mondo”, un’idealistica dichiarazione, che però dimostra
l’evidente scollegamento con una realtà che a
breve dimostrerà l’avvenuto esatto contrario.
Il
governo provvisorio moltiplicò i provvedimenti democratici,
ma rimandò ad un’assemblea costituente, che
sarebbe stata eletta nell’autunno ‘17, le decisioni su due
problemi centrali: la pace, la terra.
Mentre
continuava il dissolvimento dell’economia la società continuò
ad organizzarsi ed in poche settimane si formarono a migliaia
soviet, comitati di fabbrica, di quartiere, gruppi di milizie armate,
le Guardie rosse, comitati di contadini, di soldati, di
cosacchi, di massaie, era una situazione di assemblea permanente,
agli antipodi della democrazia parlamentare, una
grande festa di liberazione, dove ad essere liberato fu anche
l’ odio e il risentimento da decenni accumulato, che nel
corso dell’anno 1917 radicalizzò progressivamente rivendicazioni
e fermenti.
Gli
operai rivendicavano il controllo della produzione, anche i
soldati reclamavano un potere nuovo ed inedito, non conoscevano nè comunismo, nè proletariato, nè la costituzione, volevano
la pace, la terra, la libertà di vivere senza leggi, senza ufficiali,
senza proprietari terrieri, una libertà senza remore, il loro
bolscevismo era in realtà più vicino all’anarchia.
Dal
giugno all’ottobre del 1917, più di due milioni di soldati abbandonarono
un esercito sulla via della dissoluzione e tornarono
ai loro villaggi, alimentando disordini nelle campagne.
Durante l’estate i disordini si fecero sempre più
violenti, di fronte l’immobilità del governo, i comitati agrari
che si erano costituiti nei villaggi e nei distretti, presieduti
in gran parte da membri dell’intellighentia rurale
vicina ai socialisti rivoluzionari, non riuscirono più a
trattenere la base, i contadini andarono all’assalto delle
proprietà feudali, che furono incendiate a migliaia e
centinaia di proprietari terrieri massacrati, presero possesso di
boschi, pascoli e terreni incolti. A farne le spese furono
anche i kulaki, obiettivi primari della propaganda bolscevica
che li definiva rapaci, usurai, succhia sangue, sebbene
il kulak di fatto non esistesse più visto che era stato
costretto a restituire alla comunità del villaggio la maggior
parte del bestiame, delle macchine, delle terre, che
vennero riversate nel fondo comune e ripartite secondo il
principio delle numero delle bocche da sfamare.
Di
fronte alla vastità di una simile rivolta sociale, si
inserì il fallito tentativo di colpo di stato del generale Kornilov,
a cui si oppose il governo provvisorio presieduto
da Aleksandr Kerenskij, ma ormai lo Stato era
scomparso, per cedere il posto ad una miriade di comitati,
soviet ed assemblee. In questo vuoto istituzionale si
inserì l’azione di un nucleo organizzato e deciso che in
breve arrivò ad esercitare un’autorità sproporzionata rispetto
alla sua forza reale: il Partito bolscevico. Fin dal
1903 anno della sua fondazione, i bolscevichi si distinsero all’interno
del panorama della socialdemocrazia russa
ed europea per la loro strategia di rompere per sempre con
l’ordine esistente e per la concezione di un partito fortemente strutturato,
disciplinato, elitario ed efficiente, costituito da
rivoluzionari di professione. Secondo le idee di Lenin la
rivoluzione sarebbe potuta realizzarsi più facilmente in
Russia, dove l’economia era meno sviluppata che non dove il
capitalismo era più forte, invertendo così i termini del
dogma marxista, purché il processo fosse guidato da un
elite disciplinata e disposta ad arrivare sino in
fondo e cioè a instaurare la dittatura del proletariato e a
trasformare la guerra imperialista in guerra civile.
Dopo la
rivoluzione di febbraio alla quale non avevano preso
parte alcun dirigente bolscevico di una certa nota,
in quanto erano tutti in esilio o all’estero, Lenin fu
contrario alla politica di conciliazione con il governo provvisorio,
operata dal soviet di Pietrogrado governato
da una maggioranza di socialisti rivoluzionari e
socialdemocratici, e nel marzo 17 pretese la rottura
di ogni rapporto con il governo provvisorio e
l’attiva preparazione della rivoluzione proletaria, avendo, secondo
Lenin, la rivoluzione, con l’apparizione del soviet già
superato la prima fase, quella della rivoluzione borghese.
Era il
tempo di prendere il potere , uscire dalla guerra, che avrebbe dovuto
mutarsi in guerra civile, un passaggio ineludibile in ogni
processo rivoluzionario. Una volta tornato in Russia, nelle
celebri Tesi di aprile, Lenin, non fece altro che ribadire la
propria incondizionabile ostilità alla repubblica parlamentare e al
processo democratico, raccogliendo parecchi consensi
fra i nuovi militanti del partito, ed in pochi mesi la
vecchia classe dirigente urbanizzata ed intellettuale, formata
nelle lotte sociali istituzionalizzate, fu rimpiazzata da
militanti di origine popolare, fra cui i soldati contadini, con una
scarsa formazione politica, portatori di una
forte componente di violenza radicata nella cultura contadina
ed esasperata da tre anni di conflitto, che non si
chiedevano affatto se la tappa borghese fosse o meno
necessaria prima di passare al socialismo.
Quelli
che Stalin chiamava praktik, i pratici, per i quali
l’unica questione veramente all’ordine del giorno
era la conquista del potere. Il partito bolscevico rimase
diviso sulla strategia da adottare, anche
la disciplina di partito andò piuttosto sfrangiandosi, e nel
luglio del ‘17 a Pietrogrado le spinte esplosive della base rischiarano
di travolgere tutto il partito, che venne
dichiarato
fuorilegge ed i suoi dirigenti arrestati o esiliati come lo
stesso Lenin. Dal suo esilio finlandese Lenin
continuò a lanciare appelli all’ insurrezione.
Molti
dirigenti bolscevichi rimanevano scettici, in fondo
la progressiva radicalizzazione della situazione giocava
a loro favore, sarebbe bastato mantenere il
contatto con le masse, incoraggiare la violenza spontanea
e lasciar agire le forze disgregatrici ,aspettare
il II Congresso Panrusso, dove la rappresentanza dei
soviet dei grandi centri operai e dei comitati dei
soldati era superiore a quella dei soviet rurali dove
erano maggioritari i socialisti rivoluzionari .
A
questa possibilità era fortemente avverso Lenin che da
sempre andava reclamando il potere completo
per i bolscevichi, e quindi mal digeriva di
dividerlo con le altre formazioni socialiste,
Era
necessario agire prima del II Congresso con un’insurrezione
armata, agli altri partiti sarebbe rimasta solo la
scelta di condannare l’insurrezione e quindi di schierarsi all’opposizione
lasciando tutto il potere ai bolscevichi. Il 10
ottobre, Lenin rientrato in Russia riunì 12 dei 21 membri
del Comitato centrale del partito bolscevico e 10 ivotarono a maggioranza, con i voti contrari di Zinov’ev
e Kamenev, un documento in cui si accettava il
principio di un ‘insurrezione armata da scatenare al più
presto. Il 16 ottobre Trockj organizzò una struttura
militare il Milrevkom, il Comitato militare rivoluzionario
di Pietrogrado, con il compito di prendere il
potere con un insurrezione di tipo militare, cosa ben
diversa da un insurrezione popolare spontanea che sarebbe
potuta sfuggire di mano ai bolscevichi. Il numero dei
partecipanti, così come voluto da Lenin, fu abbastanza esigua,
alcune migliaia tra soldati della guarnigione di Pietrogrado,
marinai di Kronstat e Guardie rosse riunite
nel Milrevkom, ed alcune centinaia di militanti
bolscevichi dei comitati di fabbrica.
Il
potere fu preso facilmente dal Milrevkom, che non dipendeva
in alcun modo dal Congresso dei soviet, su
unico mandato del Comitato centrale bolscevico. Le
previsioni di Lenin si rivelarono giuste , i socialisti moderati
dopo avere denunciato la congiura militare che era
stata perpetrata alle spalle dei soviet si ritirarono dal iI
Congresso lasciando buon gioco ai bolscevichi, rimasti in gran
numero insieme alla sparuta pattuglia di socialisti rivoluzionari
di sinistra rimasti i loro unici alleati, che ottennero dai
deputati ancora rimasti l’approvazione di un testo
presentato da Lenin in cui si attribuiva tutto il potere ai
soviet, il congresso prima di sciogliersi proclamò il nuovo
governo bolscevico, il Consiglio dei commissari del
popolo, presieduto da Lenin, e approvò i primi decreti sulla
pace e sulla terra, i primi atti del nuovo regime.
Sulla
questione della terra i bolscevichi che da sempre avevano
sostenuto la nazionalizzazione, dovettero prendere atto
della realtà che li vedeva minoritari nel mondo rurale ed
accettare la prospettiva dei socialisti rivoluzionari,
approvando la distribuzione della terra ai contadini.
Nel
decreto approvato dal nuovo governo bolscevico si
proclamava l’abolizione della proprietà privata della
terra, senza indennità, e che tutte le terre sarebbero state
messe a disposizione del Comitati agrari per la
distribuzione, in realtà il decreto riguardo la violenta
espropriazione delle terre dei latifondisti e dei
kulaki, avvenuta dopo alla fine dell’estate del 11917. I
bolscevichi costretti dalla realtà a consentire alle ragioni della
rivolta contadina autonoma, ripresero il loro programma originario
appena dieci anni dopo, lo scontro tra il
regime instaurato nell’ottobre ‘17 ed il mondo contadino si
concluse tragicamente con la collettivizzazione forzata delle
campagne.
In
poche settimane i bolscevichi subordinarono o eliminarono tutte
quelle istituzioni che attraverso la grande rivolta
spontanea avevano contribuito a disgregare l’ordine
preesistente, dai Comitati di fabbrica a quelli di quartiere,
dai sindacati, ai partiti, per finire con i soviet.
Il
“potere ai soviet”, si era rapidamente trasformato in un
potere del Partito bolscevico sui soviet, Il
potere degli operai sulla produzione, invocato dai proletari
pietrogradesi e degli altri centri industriali presto
si trasformò in controllo dello Stato su imprese e
lavoratori. Dopo il dicembre ‘17 si verificarono un gran
numero di scioperi e di manifestazioni operaie. In
breve tempo i bolscevichi persero moto di quel consenso di cui
avevano goduto per tutto il 1917 tra i lavoratori, che
vivevano in condizioni da fame, e mal comprendevano l’efficientismo
economico perseguito dallo Stato bolscevico. A pochi
mesi dal colpo di Stato bolscevico molti popoli dell’
ex impero zarista avevano dichiarato la propria indipendenza
e alcuni anche combattuto duramente per
ottenerla, così polacchi, finlandesi, lettoni, lituani, estoni,
ucraini, georgiani, armeni, azeri. Ben presto
si capì che il nuovo Stato sul piano geopolitico,si
affermava come erede dell’ex impero zarista, il
grano ucraino, il petrolio e i minerali del Caucaso, i porti baltici
diventano vitali per sostenere il ruolo imperiale.
Ben
presto il Partito bolscevico che escludeva ogni condivisione
del potere, arrivò allo scontro finale con le
forze presenti nella società che non condividevanoi suoi
scopi o che tali scopi non comprendevano affatto
e si scatenarono violenza e terrore.
I
nemici del popolo
Ill nuovo assetto del potere bolscevico, al di là della retorica del
“potere ai soviet” formalmente rappresentato dal Comitato centrale
esecutivo, verteva sul Consiglio dei commissari del popolo, organo del
governo, che cercava legittimazione sia interna che all’estero, e
dal Comitato militare rivoluzionario, il Milrekom che era stata la
struttura operativa nella conquista del potere.
Così
Feliks Dzerzinskj, che fin dall’inizio vi svolse un ruolo decisivo,
e che in seguito fu chiamato da Lenin a dirigere la Ceka, la polizia
segreta bolscevica, descriveva il Milrevkom: “Una struttura leggera,
flessible, operativa all’istante, senza giuridicismi pignoli.
Nessuna restrizione nell’agire, per colpire i nemici con il braccio
armato della dittatura del proletariato”. Il Milrevkom, composto da
una sessantina di membri, agiva tramite una rete di mille
“commissari” nominati negli organismi più disparati, dal 26
ottobre iniziò in tutta autonomia a prendere provvedimenti che
consolidassero la dittatura del proletariato, provvedimenti che
andavano dal divieto di diffondere opuscoli “controrivoluzionari”,
alla chiusura dei sette più importanti giornali della capitale, al
controllo di radio e telegrafo a progetti di requisizione di
appartamenti e automobili private. La chiusura dei giornali fu
approvata, dopo un paio di giorni da un decreto del governo,
confermato dopo una settimana ed aspro dibattito dal Consiglio
esecutivo centrale dei soviet.
La
definizione del concetto di “nemico del popolo apparve per la prima
volta in un documento del Milrevkom del 13 novembre in cui si
dichiarava gli alti funzionari dello Stato, delle banche, del Tesoro,
delle ferrovie, delle poste e telegrafi, nemici del popolo e che i
loro nomi sarebbero stati pubblicati sui giornali ed esposti in ogni
luogo pubblico.
Seguì
a breve un altro proclama: “Tutti gli individui sospetti di
sabotaggio, speculazione, accaparramento, potranno essere arrestati
sul posto come nemici del popolo e associati nelle carcere di
Krondstat”.I n pochi giorni il Mirevkom aveva introdotto due
concetti preoccupanti, quello di nemico del popolo e quello di
sospetto.
Concetto
di nemico del popolo che ebbe valore legale con il decreto emesso da
Lenin il 28 novembre in cui stabiliva che i membri del partito
Costituzionaldemocratico, partito dei nemici del popolo, erano
dichiarati fuorilegge, passibili di arresto immediato e giudicati dai
tribunali rivoluzionari.
Questi
tribunali erano stati di recente istituiti, con il Decreto n.1 sui
tribunali, in cui si sanciva l’abolizione di tutte le leggi in
contrasto con i decreti del governo bolscevico, l’abolizione dei
programmi politici dei Partititi socialdemocratico e socialista
rivoluzionario In attesa del nuovo codice penale, i tribunali del
popolo dovevano valutare la legge esistente in conformità
dell’ordine e della legalità rivoluzionaria, un concetto così
vago da consentire ogni tipo di abuso. Tali tribunali erano intesi
come organi della lotta contro la controrivoluzione, più preoccupati
di estirpare che di giudicare.
Nel
frattempo cresceva l’organizzazione del Comitato militare
rivoluzionario di Pietroburgo, in una città ridotta alla fame, il
rifornimento era una delle primarie necessità.
Il
4 novembre fu creata la Commissione per il vettovagliamento,
distaccamenti di soldati, marinai, Guardie rosse, operai, furono
inviati nelle province agricole per procurare prodotti alimentari per
Pietrogrado e per il fronte.
Si
andava prefigurando la requisizione generale imposta per tre anni
dall’ esercito per il vettovagliamento, che fu il fattore
determinante a scatenate lo scontro tra il potere bolscevico il il
mondo contadino che sarebbe esploso con una violenza ed un terrore
inimmaginabile.
IL
10 novembre fece la sua comparsa una nuova Commissione militare
d’inchiesta, creata per arrestare gli ufficiali controrivoluzionari
,i membri dei partiti borghesi, i funzionari sospetti di sabotaggio,
in realtà finì per occuparsi di tutto, ed ogni giorno centinai di
individui venivano mandati di fronte alla Commissione per rispondere
dei reati più diversi, saccheggio, speculazione, accaparramento di
prodotti di prima necessità, stato di ebbrezza, appartenenza ad una
classe ostile, in una città ridotta ormai alla fame, dove
imperversavano Guardie rosse e milizie improvvisate, la
violenza spontanea fino ad allora alimentata dai bolscevichi stava
rischiando di avere il sopravvento. Il Milrevkom creò una
Commissione di lotta contro l’ubriachezza e i disordini che il 6
dicembre dichiarò lo stato di assedio e il coprifuoco “per mettere
fine a disordini o sommosse fomentati da loschi elementi che si
mascherano da sedicenti rivoluzionari.” Ma la maggiore
preoccupazione per il Governo bolscevico era rappresentata dallo
sciopero dei funzionari, che era iniziato il giorno stesso del colpo
di stato del 25 Ottobre. Il 7 dicembre, pochi giorni dopo lo
scioglimeto del Milrevkom, che aveva svolto il suo compito, venne
creata la Veserossijskaia Crezycajaja Kommissja po bor’be
Kontrrevoljucej, Spekuljaciej i Sabotezem, la Commissione staordinaria
panrussa di lotta contro la controrivoluzione, la speculazione e il
sabotaggio, la Veceka, tristemente nota anche come con
l’abbreviazione Ceka, la polizia segreta bolscevica, a dirigere la
quale venne nominato Feliks Dzerzinskij, che aveva perfezionato le sue
competenze nel Milrevkom.
Il
decreto di approvazione della Ceka non fu mai pubblicato, si stava
avvicinando la data dell’Assemblea costituente, dove i bolscevichi
erano in minoranza e apparentemente non
volevano contribuire a creare tensioni.
Di
fatto la Ceka, aveva le mani libere di agire senza “pignolerie
giuridiche” così come era nella visione di Dzerzinskij, doveva
rispondere dei suoi atti unicamente al Governo del Commissari del
popolo.
Tra
la fine del 1917 e i primi mesi del 1918 non esisteva più alcuna
reale opposizione al potere dei bolscevichi che controllavano il
centro nord della Russia e numerose grandi città sin nel Caucaso ed
in Asia centrale. L’Ucraina e la Finlandia si erano dichiarate
indipendenti, ma non costituivano un pericolo milItare per il potere
bolscevico a cui si opponevano in realtà solo i circa 3.000 uomini
costituenti l’Esercito dei volontari, organizzato dai generali
zaristi Kornilov e Alekseev nel sud della Russia che andrà a
costituire il primo nucleo della futura Armata Bianca. e che
speravano nella rivolta della popolazione contadino-guerriera della
steppa, i cosacchi
I
cosacchi avevano uno status diverso rispetto agli altri contadini
russi, infatti sotto lo czar, in cambio del servizio nell’ esercito
prestato fino all’ età di 36 anni, ricevevano 30 ettari di terra,
i cosacchi non pretendevano altre terre, ma erano ben decisi a non
farsi portare via quelle che già possedevano, nella primavera del 18
si uniranno ai volontari antibolscevichi per conservare le loro
terre, la loro indipendenza, preoccupati delle idee espresse conto il
Kulak dai bolscevichi.
Tra
la primavera 1917 e l’inverno del 18 avvennero i primi scontri tra
i reparti bolscevichi del general Sivers. che non raccoglievano più
di 6.000 uomini e il piccolo Esercito dei volontari. La repressione
bolscevica fu feroce e riguardò non solo militari, ma soprattutto
civili, insieme a junkers ed ufficiali bianchi, perirono uomini
politici, avvocati, giornalisti, professori, elementi borghesi,
considerati nemici del popolo. L’esempio da imitare, come più
volte dichiarato dai leader bolscevichi era quello del terrore
rivoluzionario applicato dalla Rivoluzione francese del 1789, contro
i suoi oppositori, da molti veniva evocato l’esempio
della Vandea, dove i giacobini arrivarono a praticare uno sterminio
pianificato che non risparmiò nemmeno i neonati e le donne che,
bruciate a fuoco lento, divennero sapone per la francia
rivoluzionaria.
La
prima azione della Ceka fu l’arresto dei capi dello sciopero dei
funzionari di Pietrogrado tra cui un
certo numero di deputati socialisti rivoluzionari e menscevichi
eletti nell’Assemblea costituente.
L’Assemblea
costituente che si riunì il 6 gennaio 1918, dove i bolscevichi erano
fortemente minoritari fu sciolta con la forza, in poche ore, il
bilancio della giornata fu di 20 morti.
Mentre
a Brest Litovsk Trockij, e Kamenev tattavano la pace con gli imperi
centrali il 9 gennaio il Governo discuteva del trasferimento della
Capitale a Mosca non tanto per la paura dei tedeschi, l’armistizio
era entrato in vigore dal 15 dicembre, ma per il pericolo di una
insurrezione operaia, nelle masse operaie di Piertogrado che avevano
sostenuto i bolscevichi sino a pochi mesi prima, covava molto
scontento, la fine delle commesse di guerra aveva portato al
licenziamento di decine di migliaia di lavoratori, la mancanza di
cibo aveva portato la razione quotidiana di pane ad appena 100
grammi. .
Trockij,
appena tornato da Brest Litovsk, il 31 gennaio fu messo a capo di una
Commissione
straordinaria
per il vettovagliamento.
La
capitale fu trasferita a Mosca il 10 marzo 1918, la Ceka si insediò
nella sede di una compagnia di assicurazioni
in via Bol’saja Lubjanka, lì sarebbe rimasta , assumendo varie
sigle GPU, NKVD, MVD, KGB, fino al croLlo dell’Unione Sovietica. La
prima operazione in grande stile della Ceka fu condotta da oltre 1000
uomini dei suoi corpi speciali contro una ventina di case di
anarchici, nella notte tra l’11 e il 12 aprile 1918, 530 furono
arrestati, 25 furono fucilati sul posto come banditi, denominazione
che da quel giornò indicò chiunque si opponesse alla realizzazione
dei piani bolscevichi. Tra il tentativo di ricostruire un minimo di
mercato che ripristinasse lo scambio tra città e campagna i
bolscevichi scelsero le requisizioni forzate, convinti che
fosse necessario procedere allo smantellamento del vecchio ordine,
attraverso la guerra civile evocata
da Lenin , Trockij e gli altri compagni. Tra il maggio e il giugno
‘18, vennero approvati due provvedimenti
che furono alla base dell’inizio della guerra civile, il cosiddetto
comunismo di guerra. Con il primo venne organizzato un vero e proprio
esercito del vettovagliamento che nella fase culminate nel 1920
arrivò a contare 80.000 uomini, in gran parte formato da operai
pietrogradesi disoccupati, attirati da un buon salario e da una quota
proporzionale alla quantità di cereali sequestrati; il secondo
istituiva i comitati dei contadini poveri che avrebbero affiancato le
squadre di vettovagliamento nelle requisizioni ai contadini
benestanti, partecipando anch’essi alla spartizioni in
natura, inoltre questi comitati erano in teoria destinati sostituire
i soviet rurali fedeli ai socialisti rivoluzionari.
I
boscevichi sapevano poco del mondo contadino, secondo uno schematismo
proprio del marxismo semplicistico che adottavano, li pensavano in
classi antagoniste, mentre nel mondo contadino valevano ancora i
legami comunitari e solidaristi, per cui l’onere delle requisizioni
venne ripartito su tutti i membri della comunità e questo riguardò
tutti, non solo i contadini benestanti.
Inoltre
la squadre di vettovagliamento agirono, spalleggiate dai cekisti o
dall’esercito con una tale brutalità da scatenare vere e proprie
resistenze armate. Tra il luglio e l’agosto del 1918 scoppiarono
110 rivolte contadine, le rivolte di Kulak, secondo la definizione
dei bolscevichi, ma che in realtà erano rivolte di intere comunità
di villaggio. Nei tre anni di politica delle requisizioni ce ne
furono migliaia, che scaturirono in vere e proprie guerre, e furono represse con una feroce violenza.
L’indubbia
capacità organizzativa dimostrata dai bolscevichi si accompagnò ad
una realtà, condita di carrierismo, odio, corruzione, ed in cui la
radicata violenza della società russa, sfociava spesso in stupri di
massa. Una situazione in cui avevano un ruolo non secondario l’uso
diffusissimo di alcolici
e l’utilizzo in certi casi di cocaina. Nella primavera del 1918
furono definitivamnete chiusi tutti i giornali non bolscevichi, i
soviet con una maggioranza mescevica o socialista rivoluzionaria
furono sciolti con la forza, ed i membri dei due partiti espulsi dal
Comitato esecutivo panrusso dei soviet. gli oppositori arrestati e
numerosi scioperi, marce della fame,e sommosse operaie represse,operazioni
in cui sempre più diviene protagonista la Ceka.
La
Ceka nel 1918 contava di 12.000 uomini divisi in 43 sezioni locali,
agli inizi del 21 sarebbero diventati oltre 180.000, ed una
vastissima area di competenze.
Il
13 giugno fu ufficialmente rientrodotta la pena di morte, abolita con
la rivoluzione del 17 (Lenin era fortemente contrario), e
reintrodotta da Kerenskij nelle sole zone di guerra, ma applicata
normalmente dalla Ceka senza pignolerie giuridiche, l’ammiraglio
Castnij fu il primo controrivoluzionario fucilato legalmente.
Per
il popolo russo la situazione economica non era andato migliorando
sotto il governo bolscevico, anzi andò peggiorando ed inoltre
stavano perdendo quelle libertà acquisite nella rivoluzione dl 1917.
per i contadini i bolscevichi che avevano legittimato l’occupazione
della terra erano diventati i comunista che tolgono anche il sangue
al contadino, negli operai le parole d’ordine e gli slogan
parlavano di nuova Ohrana (polizia segreta zarista) al servizio della
commissariocrazia. Il 20 giugno
con l’uccisione di uno dei capi Bolscevichi di Pietrogrado, si
intensificò la repressione operaia, agli scioperi , i bolscevichi
risposero con la serrata delle grandi fabbriche nazionalizzate,
l’Assemblea dei plenipotenziari operai, vero contro potere rispetto
al soviet di Pietrogrado fu sciolta, in due giorni furono arrestati
oltre 800 individui. Uno sciopero generale fu convocato per il 2
luglio 1918.
Il
terrore rosso
Nell’ estate
del 1918 i bolscevichi ebbero la percezione che il loro potere fosse
in pericolo, di fatto esercitavano il loro controllo sulla Moscovia
storica, ma intanto si erano consolidati tre fronti antibolscevichi:
nella regione del Don controllata dai cosacchi dell’atamano Krasnov
e dall’Armata bianca del generale Denikin; in Ucraina tenuta dai
tedeschi e dalla Rada, il governo nazionale ucraino; mentre la
Legione ceka controllava, con l’appoggio del governo socialista
rivoluzionario di Samara, la maggior parte delle città lungo la
Transiberiana.
Nel
territorio più o meno controllato dai bolscevichi, nell’estate del
1918, scoppiarono circa 140 grandi rivolte o insurrezioni. In
stragrande maggioranza spontanee, solo a Jaroslavl’, Rybinsk e
Murom ci fu dietro l’organizazione dell’Unione di difesa della
patria del dirigente socialista rivoluzionario Boris Savinkov, mentre
la rivolta degli operai delle fabriche d’armi di Izevsk fu ispirata
da elementi mescevichi e socialisti rivoluzionari locali. In realtà
si trattava di rivolte di intere comunità di villaggio che si
opponevano alla brutalità delle requisizioni delle squadre di
vettovagliamento, alle limitazioni contro il commercio privato, o
all’arruolamento forzato nell’Armata rossa. Le rivolte contadine,
che i bolscevichi interpretavano come una vasta congiura
controrivoluzionaria ordita da Kulak, travestiti da Guardie bianche,
furono soffocate nel sangue in pochi giorni da Guardie rossse e
reparti cekisti. Nella sola città di Jaroslav, l’unica che riuscì
a resistere per 15 giorni, una commissione speciale della Ceka fucilò
fra il 24 e il 28 luglio 1918 428 persone.
Per
tutto l’agosto 1918 Lenin e Dzerzinskij inviarono un gran numero di
telegrammi ai responsabili locali della Ceka o del Partito,
“Compagni!- scriveva Lenin il 10 agosto al Comitato esecutivo del
Soviet di Pensa-L’insurrezione dei Kulak nei vostri cinque
distretti dev’essere soffocata senza pietà. Lo esigono gli
interessi della rivoluzione intera, perché è cominciata dappertutto
la “battaglia finale”contro i kulak. Bisogna dare un esempio. 1.
Impiccare (e dico impiccare in
modo che tutti vedano) non meno di 100 kulak, ricconi, notori
succhiasangue. 2. Pubblicarne i nomi. 3. Appropriarsi di tutto il
loro grano. 4. Individuare gli ostaggi, come abbiamo scritto nel
telegramma di ieri. Fate così in modo che tutti lo vedano, per
centinaia di leghe tutto intorno, e tremino, e pensino: questi
ammazzano e continueranno ad ammazzare i kulak assetati di sangue.
Telegrafate che avete ricevuto ed eseguito queste istruzioni. Vostro
Lenin. P.S. Trovate elementi più duri”.
I
bolscevichi cercarono di applicare “misure preventive” per
arginare qualsiasi tentativo di insurrezione, Dzerzinkij, a capo
della Ceka, riteneva che “le più efficaci sono la cattura degli
ostaggi scelti nella borghesia, l’arresto e la reclusione in campi
di concentramento di tutti gli ostaggi e i sospetti”. Il 9 agosto
Lenin telegrafò al Comitato esecutivo del Soviet di Pensa ordinando
di “applicare implacabile terrore di massa contro kulak, pope,
Guardie bianche; rinchiudere i sospetti in un campo di concentramento
fuori città”.
Tra
i primi a subire l’arresto preventivo furono gli ultimi dirigenti
del partito mescevico ancora liberi: Martov, Dan, Potresov, Gol’dman.
Il
30 agosto 1918, ci furono due attentati a Pietrogrado, uno contro
Urickij, a capo della Ceka locale, e l’altro contro Lenin. In
realtà tra i due episodi non vi è alcun collegamento, il primo fu
compiuto da uno studente che voleva vendicare la morte di un suo
amico ufficiale, assassinato pochi giorni prima dalla Ceka, l’altro
attribuito a Fannie Kaplan, militante vicina agli anarchici e ed ai
socialisti rivoluzionari, che fu arrestata e giustiziata senza
processo, sembra ormai certo che si trattasse di una provocazione
ordita dalla Ceka e sfuggita di mano ai suoi organizzatori.
Seguirono
appelli alla mobilitaziione ed al terrore di massa, “L’inno della
classe operaia sarà un canto di odio e di vendetta”pubblicava la
Pravda il 31 agosto, mentre sull’Izvestija del 3 settembre
Dzerzinskij e il suo vice Peters, pubblicarono un appello alla classe
operaia dello stesso tenore: “Che
la classe operaia schiacci l’idra della controrivoluzione con il
terrore di massa! Lo sappiano i nemici della classe operaia: ogni
individuo arrestato che sia trovato illecitamente in possesso di un
arma sarà giustiziato all’istante, ogni individuo che osi fare la
minima propaganda contro il regime sovietico sarà subito arrestato e
chiuso in campo di concentramento!”.
Il
4 settembre Petrovskij, commissario del popolo per l’Interno invia
una direttiva a tutti i soviet, che di fatto segnerà l’inizio
ufficiale del Terrore rosso su larga scala. Petrovskij, lamentando
che il Terrore rosso tardasse a manifestarsi ordinava: E’ ormai ora
di farla finita con tutte queste mollezze e sentimentalismi. Tutti i
socialisti rivoluzionari di destra devono essere immediatamente
arrestati. Si deve prevedere un grande numero di ostaggi nella
borghesia e tra gli ufficiali. Di fronte alla minima resistenza si
dovrà ricorrere alle esecuzioni di massa..
La
Ceka e le altre milizie devono individuare e arrestare tutti i
sospetti, giustiziando immediatamente chiunque risulti compromesso in
attività... Nell’attuare il terrore di massa
non si possono tollerare debolezze o esitazioni”.
Nello
stesso peiodo Grigrij Zinov’ev, uno dei principali dirigenti
bolscevichi dichiarò: “Per distruggere i nostri nemici dobbiamo
avere il nostro proprio terrore socialista. Dobbiamo tirare dalla
nostra parte, diciamo, novanta sui cento milioni di abitanti della
Russia sovietica, Quanto agli altri, non abbiamo nulla da dirgli.
Devono essere annientati”.
Il
5 settembre il governo sovietico emanò il famoso decreto “Sul
Terrore rosso”: “Nella situazione attuale è assolutamente vitale
rafforzare la Ceka...proteggere la Repubblica sovietica contro i
nemici di classe, isolandoli in campi di concentramento, fucilando
all’istante ogni individuo implicato nelle
organizzazioni delle Guardie bianche, nei complotti, insurrezioni, o
sommosse, e pubblicando i nomi dei fucilati insieme alle ragioni per
cui sono stati passati per le armi”.
Dzerzinskij
fu particolarmente soddisfatto, alla Ceka fu legalmente riconosciuto
“il diritto di farla finita su due piedi con la feccia
controrivoluzionaria, senza doverne riferire a nessuno”.
iL
17 settembre una circolare interna invitava tutte le Ceka locali ad
accelerare le procedure e a liquidare le faccende in sospeso, in
verità le liquidazioni erano già iniziate dal 31 agosto, in quei
giorni la Ceka aveva giustiziato 500 persone a Pietrogrado, si
calcola che nel mese di settembre nella città ci furono 1300
esecuzioni, senza contare le centinia di ufficiali e civili fucilati
a Kronstadt, dove in una sola notte furono fucilate 400 persone.
Secondo l’Izsvetija, il 3 e 4 settembre a
Mosca furono fucilati 29 ostaggi, fra questi due ex ministri dello
czar, Hostov e Sceglovitov, ma molte
testimonianze rivelano centinaia di esecuzioni nelle prigioni
moscovite durante i “massacri di settembre".
Durante
il periodo del Terrore rosso per sei settimane uscì Ezenedel’nik
vck, il settimanale della Ceka, dove si riferivano gli arresti di
ostaggi, gli internamenti nei campi di concentramento, le esecuzioni
capitali, questo settimanale si rivela come una fonte ufficiale,
anche se minimale del Terrore rosso per i mesi di settembre e ottobre
1918, compendiato da altri dati usciti su giornali delle
Ceka locali, E’ difficile conteggiare le le vittime del Terrore
rosso nell’ autunno 1918, ma tenendo solo conto delle notizie di
esecuzioni riportate dai giornali, si arriva a desumere che non fu
inferiore a 10.000- 15.000 in due mesi. In poche settimane la Ceka da
sola aveva giustiziato un numero di persone da due a tre volte
superiore rispetto a quanti l’impero zarista ne avesse condannato a
morte in novantadue anni.
La
Ceka, che agiva al di sopra dei soviet e dello stesso Partito venne
messa in discussione da alcuni dirigenti bolscevichi come Buharin,
Ominskij e Petrovskij che pretendevano provvedimenti per arginare
“gli eccessi di zelo di un’organizzazione affollata di criminali
e di sadici, di elementi degenerati del Lumpeproletariat”, Kamenev
arrivò a chiedere lo scioglimento della Ceka.
Ma
ebbero la meglio Sverdlov, Stalin, Trockij, e ovviamente Lenin che
difese risolutamente”un istituzione attaccata non solo dai nemici,
ma spesso anche dagli amici”. Il dibattito sulla Ceka si chiuse,
come diceva Lenin “il buon comunista è anche buon cekista”.
Nei
primi mesi del 1919 furono costituiti dipartimenti speciali della
Ceka a cui veniva affidata la sicurezza militare.
Il
16 marzo del 1919 Dzerzinskij fu nominato commissario del popolo per
l’Interno, e si dedicò alla riorganizzazione di tutte le varie
formazioni militari che fino a quel momento dipendevano da
amministrazioni diverse. Nascono così nel maggio 1919 le Truppe di
difesa interna, che nel 21 arrivavano a 200.000 effettivi, con
l’incarico di assicurare la sorveglianza di campi, stazioni, altri
punti strategici, di svolgere operazioni di requisizione e di
reprimere le rivolte contadine, le sommosse operaie e gli
ammutinamenti dell’Armata rossa, una vera e proprio esercito
repressivo, inserito in un Armata rossa, minata dalle diserzioni, che
contava milioni di effettivi, ma che non riuscì mai a schierarne più
di 500.000 con equipaggiamento completo.
Uno
dei primi decreti del nuovo commissario del popolo per gli Interni,
riguardò l’organizzazione dei campi di concentramento, che
esistevano dal 1918 .
Il
Decreto del 15 aprile 1918 li divideva in campi di lavoro forzato nei
quali erano internati, almeno in teoria, coloro che erano stati
condannati da un tribunale e campi di concentramento riservati per lo
più ad ostaggi, incarcerati sulla base di semplici ordinanze
amministrative, anche se queste distinzioni rimasero più nella
teoria che nella pratica. Nella circolare esplicativa del decreto si
stabiliva che ogni provincia avrebbe dovuto approntare almeno un
campo con la capienza minima di 300 persone, si prevedeva inoltre la
stesura di una lista che prevedeva 12 tipologie di persone destinate
all’internamento. Tra il 19 e il 21 il numero degli internati
complessivi salì dai 16.000 ad oltre 70.000, escludendo un certo
numero di campi allestiti nelle regioni insorte contro il potere
sovietico,nella sola provincia di Tambov, nei sette campi di
concentramento organizzati
per reprimere la rivolta contadina si contavano 50.000 “banditi e
famigliari di banditi” internati.
La
guerra dei rossi, dei bianchi e dei
verdi
La
guerra civile russa, non deve essere considerata semplicemente come
lo scontro tra bolscevichi e monarchici, aldilà degli
scontri tra Armata rossa e Armata bianca, gli episodipiù
importanti avvennero sul cosidetto “fronte interno”,e
furono caratterizzati dalle varie forme di repressione esercitata
dal potere costituito dei Bianchi e dei Rossi .
Al
contrario del terrore bianco, che si manifestò in particolare nei
pogrom dell’Ucraina del 1919, perpetrati da alcuni distaccamenti
senza controllo di Denikin e di Petlura, dove
morirono 150.000 persone e che furono condannati dallo
stesso Denikin e che per il resto si limitò quasi sempre ad
una repressione di tipo di controspionaggio militare, il
terrorre Rosso venne teorizzato e messo in pratica molto
prima dello scoppio della guerra civile, contro interi gruppi
sociali con metodo e scrupolosa organizzazione. Il
terrore rosso si caratterizzò come una lotta di classe, contro
aristocratici, borghesi, elementi estranei alla società, di
caccia ai militanti di tutti i partiti non bolscevichi, di
repressione degli scioperi operai, degli ammutinamenti di
unità dell’Armata rossa e delle rivolte contadine.
La
guerra sul fronte interno consistette soprattutto nella resistenza
opposta da milioni di contadini, ribelli e disertori, che sia i Bianchi che i Rossi chiamavano Verdi.
L’azione
dei Verdi fu determinante per la vittoria di uno schieramento sull’altro
come ad esempio è accaduto durante l’estate
del 1919 nel Medio Volga ed in Ucraina, dove lo scoppio
di violente rivolte contadine favorì l’azione di sfondamento delle
linee bolsceviche da parte dell’ammiraglio Kolcak
e del generale Denikin, così come l’insurrezione dei contadini
siberiani ostili al ripristino dei diritti dei proprietari terrieri
favorì la disfatta di Kolcak di fronte all’Armata Rossa.
Il
terrore bolscevico la cui continuità ed evoluzione si
deve cogliere sin dai primi mesi del regime riguardò
principalmente alcuni gruppi di vittime,
che vennero sottoposte ad una repressione coerente e
sistemica:
1-
tutti i militanti politici non bolscevichi;
2-
operai in lotta in difesa di diritti elementari: pane, lavoro, libertà,
dignità;
3-
i contadini, coinvolti nelle innumerevoli insurrezioni o nelle
diserzioni dell’Armata rossa;
4-
i cosacchi, deportati in massa, perchè considerati gruppo sociale
ed etnico ostile al regime. La decosacchizzazione anticipa
la dekulakizzazione e la deportazione di gruppi etnici degli
anni ‘30 e mette in evidenza la continuità repressiva della
fase leniniana con quella staliniana.
5-
gli elementi estranei alla società, nemici del popolo, sospetti,
ostaggi liquidati preventivamentte da parte dei bolscevichi,
soprattutto nelle fasi di abbandono di città o di riconquista
di territtori occupati dai Bianchi.
Un
delle prime repressioni della Ceka riguardò gli anarchici di
Mosca nell’aprile 1918, che furono fucilati a decine senza
processo. La repressione contro gli anarchici, che nonostante
l’adesione di alcuni elementi al Partito bolscevico, rimanevano
in stragrande maggioranza avversi al regime,
non conobbe tregua. Il
comportamento degli anarchici, oppositori sia del vecchio che
del nuovo regime, è esemplificato dall’azione del
grande dirigente anarchico contadino Mahno, che dapprima
si schierò con i Rossi per combattere i Bianchi, ed
una volta vinto il pericolo bianco, per difendere i
suoi ideali continuò il combattimento contro l’Armata
rossa, migliaia di anonimi militanti anarchici furono
giustiziati come banditi. Secondo i dati, seppur incompleti,
presentati nel 1922 dagli anarchici in esilio la
maggioranza delle vittime anarchiche è rappresentata dai contadini
di Manho, nel 1919-21 furono fucilati 138 militanti, 281
esiliati e 608 il primo gennaio 1921 erano ancora
in
carcere.
I
socialisti rivoluzionari di sinistra, alleati dei bolscevichi sino
all’estate del 1918, beneficiarono di una certa clemenza sino
al febbraio 1919, quando la loro storica leader Marija
Spiridova fu arrestata insieme ad altri 210 militanti,
per avere criticato i metodi brutali della Ceka, e condannata dal
Tribunale rivoluzionario ad una detenzione in un sanatorio
come isterica. E’ il primo caso di reclusione di un avversario
politico in un ospedale psichiatrico. La Spiridova, riuscità
ad evadere, continuò a dirigere il partito, messo
fuori
legge, in clandestinità. Secondo la Ceka nel 1919 furono
disciolte 58 organizzazioni Socialiste rivoluzioabrie di
sinisra, 45 nel 1920, nei due anni furono arrestati come ostaggi
1875 militanti.
I
socialisti rivoluzionari di destra, considerati da sempre gli avversari
politici più pericolosi, nel novembre-dicembre ‘17
alle libere elezioni avevano ottenuto una grande maggioranza,
erano
altresì maggioranza nell’Assemblea costituente sciolta
dai bolscevichi con la forza, furono espulsi dal
Comitato esecutivo dei soviet, insieme ai mescevichi nel
giugno 1918, e con alcuni costituzionaldemocratici e mescevichi
avevano dato vita ad effimeri governi a Samara ed
a Omsk che in breve vennero rovesciati dall’Armata Bianca di
Kolkac. I socialisti rivoluzionari, presi tra i Bianchi ed
i bolscevichi che alternavano nei loro confronti una politica di
repressione e conciliazione e manovre d’infiltrazioni, il
31 marzo del 1919, nel pieno dell’offensiva bianca, dopo che
la Ceka aveva autorizzato la ripresa delle pubblicazioni del
loro giornale “Delo Naroda” dal 20 al 30 marzo, nonostante i
loro partiti fossero ancora considerati legali dal regime,
furono oggetto di una violenta repressione della Polizia
politica, furono arrestati in varie città 1900 militanti .
Seppur
si conosce approssimativamente il numero delle
vittime dei principali episodi di repressione degli
scioperi e delle rivolte contadini in cui spesso mescevichi
e socialisti rivoluzionari avevano un ruolo
da protagonisti, non si può estrapolare il dato di
quanti di loro furono giustiziati sommariamente.
Un’altra
ondata di arresti seguì la pubblicazione di un
articolo di Lenin sulla Pravda del 28 agosto 1919, ,
in cui criticava SR e mescevichi”complici e lacchè dei
Bianchi, dei proprietari terrieri e dei capitalisti”, secondo
fonti della Ceka negli ultimi mesi del 1919
ci furono 2380 arresti tra socialisti rivoluzionari e mescevichi. Il
23 maggio 1920 Viktor Cernov, che per un
giorno
era stato presidente dell’Assemblea costituente,attivamente
ricercato, sotto false vesti, prese la parola durante
un comizio organizzato dal sindacato dei tipografi in onore
di una delegazione operaia inglese, mettendo in ridicolo
Ceka e governo, questo episodio rilanciò in grande stile
la caccia contro i miltanti socialisti, tutta la famiglia di Cernov
fu presa come ostaggio, e i dirigenti di partito ancora liberi
imprigionati. Nell’estate del 1920 , furono schedati ed
arrestati 2000 tra socialisti rivoluzionari e mescevichi.
La
Ceka, in una circolare interna datata luglio 1920, così descriveva
la politica da attuare nei confronti degli oppositori socialisti: “Invece
di mettere fuori legge tali partiti, facendoli piombare in
una clandestinità che potrebbe essere difficile controllare, è
assai preferibile mantenerli in una condizione di semi legalità.
Infatti in questo modo è più agevole averli a portata
di mano per estrarne, quando è necessario, fomentatori di
sommosse, rinnegati e altri utili informatori...Con questi
partiti antisovietici bisogna approfittare assolutamente della
situazione bellica attuale, per imputare ai loro
membri crimini quali l’attività controrivoluzionaria, l’alto
tradimento, la disorganizzazione delle retrovie, lo spionaggio
a favore di una potenza straniera interventista.
La
violenza esercitata contro il mondo operaio, in nome del
quale, i boscevichi avevano preso il potere, cominciò nel
1918, crebbe nel 1919 e nel 1920, arrivò al suo apice nella
primavera ‘21 con il famoso episodio di Kronsdat.
Fin
dal 1918 gli operai avevano inizato a dimostrare diffidenze
verso i boscevichi, fallito lo sciopero generale del 2
luglio 1918, le sommossse operaie ripresero intensità e vigore
nel marzo 1919, in risposta alle difficoltà di approvvigionamento ed
agli arresti di numerosi dirigenti socialisti
rivoluzionari, tra cui la Spiridova, che aveva condotto
un giro nelle principali fabbriche pietrogradesi riscuotendo
un entusiastico consenso. Il 10 marzo 1919 10.000
operai delle officine di Putilov, riuniti in assemblea generale
approvarono un documento di dura condanna del
governo bolscevico considerato “nulla più che di una dittatura
del Comiatto centrale del Partito comunista, che governa
con l’aiuto della Ceka e dei tribunali rivoluzionari.
Nel
documento gli operai chiedevano il trasferimento di tutto
il potere ai Soviet, lo svolgimento di libere elezioni per
i soviet e i comitati di fabbrica, la soppressione delle limitazioni
sulla quantità di cibo che gli operai erano autorizzati a
portare dalle campagne (un pud e mezzo-24 kg),
il rilascio di tutti i prigionieri politici degli “autentici partiti
rivoluzionari”, e in particolare di Maria Spiridova,
Lenin
stesso per cercare di risolvere la situazione che si stava
aggravando fortemente per i bolscevichi, il 12 e 13 marzo
si recò a Pietrogrado, ma quando tentò di prendere la
parola nelle fabbriche occupate insieme a Zinov’ev, fu
zittito al grido di “Abbasso gli ebrei e i commissari!”.
Esplodeva
l’antisemitismo radicato nel popolo russo, che quando
i bolscevichi persero il favore goduto subito dopo la
rivoluzione di ottobre associò il fatto che molti dei loro dirigenti
più noti fossero ebrei (Tockij, Zinov’ev, Kamenev, Rykov,
Radek ecc.).
Le
officine di Putilov furono attaccate il 16 marzo 1919 dalle
squadre della Ceka, gli operai si difesero con le armi,
ma ebbero la peggio, furono arrestati in 900 e nei giorni
successivi 200 ne furono fucilati nella fortezza di
Slussel’burg vicina a Pietrogrado. Gli scioperanti furono
tutti licenziati e riassunti solo dopo aver firmato una
dichiarazione in cui ammettevano di essere stati “indotti al
crimine” da sobillatori controrivoluzionari, la Ceka
creò subito una rete di informatori che dovevano riferire”sullo
stato d’animo in questa o quella fabbrica”.
Nella
primavera del 1919 si contano numerosi scioperi, sedati con
violenza in molte città della Russia: a Tula, Srmovo, Orel,
Brjansk, Tver’, Ivanovo-Voznesensk, Astrakhan.
Le
rivendicazioni degli operai, ridotti alla fame da miseri salari
che garantivano solamente il prezzo di una carta annonaria, cioè
250 grammi di pane al giorno erano sempre le
stesse, chiedevano che le loro razioni fossero parificate a quelle dell’Armata rossa, la soppressione dei privilegi per i comunisti,
rilascio di tutti i prigionieri politici, libere elezioni per
comitati di fabbrica e soviet, abolizione della leva obbligatoria,
libertà di associazione, stampa, e di espressione. I
bolscevichi erano molto preoccupati, anche perchè in
molti casi i reparti dell’Armata rossa di stanza nelle città
aderivano alle insurrezioni a Orel, Brjansk, Gomel, Astrakhan
i soldati si unirono ai manifestanti e al grido
di “Morte ai giudei, abbasso i commissari” occuparono e
saccheggiarono intere città che furono rioccupate da
reparti cekisti, da reparti dell’esercito rimasti fedeli
al regime, dopo molti giorni di combattimento.
Le
armi della repressione andarono dalla serrata delle fabbriche, alla
confisca delle tessere annonarie, la fame era una delle
armi più potenti dei bolscevichi, sino alle esecuzioni
di
massa.
PRIMA PARTE.
PRIMA PARTE.
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