Uranio impoverito: Verità e giustizia. Si!

Da anni siamo a conoscenza che gli USA sono dotati di missili e munizioni contenenti uranio impoverito e che le hanno usate nei recenti conflitti (Balcani, Afghanistan e Iraq) non curandosi delle disastrose conseguenze.
Un missile da crociera contiene nella testata circa 400 chili di uranio impoverito,ma praticamente tutte le munizioni USA le contengono:
-i proiettili da 120 mm dei carri armati
-le bombe da 500 e da 2000 libre
-le cosiddette bombe intelligenti e quelle stupide
L’uranio impoverito è usato perchè è un metallo di altissima densità e peso specifico che permette ai proiettili di essere più penetranti.
Quando si colpisce un bersaglio, questo materiale si sfarina istantaneamente in polvere finissima radioattiva che entra nei polmoni di chi respira…
Solo in Iraq sono stati sparsi ben 2 milioni di chili! E la radiazione che emana da quelle duemila tonnellate di uranio impoverito è pari a quella di 250.000 bombe nucleari del tipo lanciato su Nagasaki.

L’inalazione di un decimo equivale a subire una radiografia ogni dieci ore per il resto della vita di un uomo:una vita,del resto, che l’uranio impoverito provvede ad accorciare efficacemente.
Il destino delle popolazioni che hanno subito questi bombardamenti è segnato, infatti, molti medici hanno denunciato il proliferarsi di cancri e leucemie specie nei bambini.
Anche i “i nostri ragazzi”, i soldati italiani… hanno respirano quelle polveri, e stanno morendo a centinaia, soli.  Qual'è il reale contributo di sangue dell'Italia alle "missioni "? Nessuno può dirlo sino a che non verrà fatta chiarezza sulla vicenda dell'uranio impoverito e i caduti ottenuto giustizia. Si.

URANIO: ASS.VITTIME CHIEDE NUOVA COMMISSIONE INCHIESTA. LETTERA A PRESIDENTI DI CAMERA E SENATO E A CAPIGRUPPO

Istituire una nuova commissione parlamentare di inchiesta sull'uranio impoverito e sui numerosi casi di morte e malattia che hanno colpito il personale militare e civile impiegato nelle missioni all'estero e non. E' questa la richiesta che l'Associazione Vittime Uranio ha inviato, con una lettera, ai presidenti di Senato e Camera, Pietro Grasso e Laura Boldrini, e ai capigruppo. ''I risultati dell'ultima commissione - spiega il legale Bruno Ciarmoli - sono stati assolutamente deludenti, sotto molti punti di vista. Ancora oggi, ad esempio, non sappiamo nulla sulle reali dimensioni del fenomeno, che e' in continua e preoccupante evoluzione, anche se nessuno ne parla piu'. 

Pertanto - prosegue Ciarmoli - e' necessario ristabilire un luogo istituzionale di confronto e approfondimento con i principali esperti della materia per dare al personale malato e alle famiglie dei deceduti almeno la percezione tangibile che lo Stato e' dalla loro parte nella ricerca di verita' e giustizia''. ''Dai dati, assolutamente parziali in nostro possesso - conclude il legale - sarebbero oltre 200 i morti e oltre 2.500 i malati. Occorre fare luce su quanto accaduto e cercare di stabilire di chi sono le responsabilita'''. (ANSA). 
 
il Marò Salvo Cannizzo


C’è ancora bisogno di Patrioti che non abbandoneranno questo Paese a chi non l’amerà mai





L’Italia fu fatta anche sull’Adamello e sul Carso e questo è bene ricordarlo, e onore a chi si sacrificò per farla; ma oggi l’Italia non si fa sull’Adamello e sul Carso, non si fa contro i tirolesi e gli austriacanti, e non si fa soprattutto con la retorica. Perché l’irredentismo annunciato al fronte non è retorica, ma l’irredentismo annunciato al mercato lo è senz’altro.
Proveniamo da decenni di dipendenze culturali e non solo culturali: l’asservimento ai due grandi modelli culturali dominanti, Stati Uniti e Unione Sovietica, ha dominato per decenni gran parte della nostra popolazione e dei suoi soggetti civili, politici e sociali, a cui si aggiungevano come supplemento di esotismo Castro, Che Guevara, Ho Chi Min e Mao, fino ai pellerossa e ai kamikaze. Non sono poi mancate minoranze più o meno illuminate: la passione anglosassone di una certa cultura elitaria di estrazione laica, la tentazione svizzera ancora serpeggiante al nord. Oggi sotto la pressione dei media ci scopriamo essere “occidentali ”. Spiega Marco Tarchi: “ L’uso martellante della parola “Occidente” da parte dei mezzi di informazione, che adoperandola vogliono instillare la sensazione di una comunanza originaria di interessi e valori fra le popolazioni e gli Stati collocati sulle due sponde dell’Oceano, e nel contempo sottolineare la loro diversità rispetto a quelli del resto del mondo”.  
Viviamo così ancora un Italia lottizzata, mentalmente serva dello straniero, l’Italia dei sette nani. Occorre un patriottismo che sappia guardare alla storia del nostro paese senza perdere l’equilibrio . Che sappia digerire il fascismo e l’antifascismo, dopo averli tenuti così a lungo sullo stomaco. Che sappia riscoprire le ragioni del Risorgimento ma senza demonizzare coloro che furono dall’altra parte a difendere una loro idea di patria, legata a una terra, una dinastia e una chiesa. Un patriottismo che non risparmi l’autocritica per carità di patria ma si sottragga all’auto denigrazione sport nazionale ad alto tassa d’improduttività. Occorre smettere di vedersi sempre attraverso le lenti delle varie guerre civili. In questo quadro occorre sviluppare una forte e libera ricerca storica e culturale che ci consenta di uscire dalla paralisi a somma zero dei veti incrociati delle varie “vulgate”. Un Patriottismo come destinazione e non solo come pura provenienza e come semplice naturalismo. Non manca solo uno Stato, o una classe politica di qualche dignità, ma frana sotto i nostri occhi l’intero paese. C’è un Italia profonda da tirar fuori.
“Noli foras ire, in interiore Italiane habitat veritas”. Non la verità assoluta, ma la nostra verità d’Italiani.
La storia d’Italia è stata finora concepita in chiave antagonista come una storia dimezzata ad uso celebrativo La storia d’Italia è stata finora intesa alla luce della coppia mitizzazione-rimozione: mitizzazione di alcuni avvenimenti, destoricizzati e imbalsamati e rimozione dell’identità nazionale e della sua continuità. Ne è uscita una storia costellata di fratture e reliquie senza vita. Un’Italia meno italiana, più anglosassone e “americana”. Un paese di trovatelli o di arteriosclerotici che non ricordano niente  Un paese che aspetta il futuro come la bella addormentata nel bosco. Anzi nel sottobosco. Lo Stato evoca sempre più in Italia il participio passato del verbo stare.  Ma è possibile fondare lo Stato solo in negativo chiamandolo in  servizio solo come freno d’emergenza? E’ possibile cioè esigere forza ed efficienza, superiorità rispetto alle parti in campo, da un “fantasma” a cui non si riconosce alcuna autorevolezza, alcuna fondatezza e alcuna prospettiva di futuro? L’idea che il mercato dia a ciascuno secondo i suoi meriti è falsa quanto l’idea che il socialismo dia a ciascuno secondo i suoi bisogni.. Nessun gruppo politico, nessun leader politico può oggi invocare a suo sostegno la coerenza ideale o la giustezza politica di un suo programma o di un suo comportamento.Vi è una pura logica aziendale, secondo cui la politica si misura dai profitti ricavati per l’azienda, e tanto peggio per gli interessi generali o nazionali. In occidente esistono più di duemila popoli, ognuno con la sua cultura particolare, perché a noi, invece di questa ricchezza vengono dati tutti gli intrugli e i miscugli della pseudocultura di massa. “occidentale”. Perché il nostro pane quotidiano deve essere zeppo di vermi? Masticatelo se vi piace. Le “patrie “ di ciascuno devono coalizzarsi, cominciando a non concepirsi in antagonismo, superando i confini topografici di destra e sinistra. Non è il caso di sprecare le proprie energie per insultarsi fra dirimpettai di marciapiede quando il rullo compressore minaccia di spianare tutto. I patriottismi vedono nell’Europa la macroappartenenza ad una Patria-civiltà  e  la nascita di un soggetto forte che tuteli le specificità dal progetto di un mondo uniforme e unipolare, tutto l’inverso dei tecnocrati di Bruxelles.
C’è ancora bisogno di Patrioti che non  abbandoneranno  questo paese a chi non l’amerà mai.



 Questo mondo non basta

L' Italia non è nata il 25 aprile del 1945




"Vivere il proprio tempo sapendo, coscienza di carne, che c’è stato altro e altro ci sarà dall’oggi. La società non è nata il 25 aprile del 1945, la cultura non è riducibile all’epopea del beat che pare averci generati, e per far fronte al disastro del presente qualche lezione di storia e d’arte bisogna pur farle. E’ obbligatorio".  
Giovanni Lindo Ferretti




Sentinelle d'Italia riprendete il vostro posto!



"Non vi lasciate illudere, non vi lasciate ingannare, non vi lasciate impietosire. Tal mandra non ha rimorsi, non ha pentimenti, non ha pudori. Chi potrà mai distogliere dal gusto e dall'abitudine del brago e del truogolo l'animale che vi si rivoltola e vi si sazia"

Gabriele D'Annunzio
dal discorso del Campidoglio

Roma, 17 maggio 1915



Marcia «Parata di eroi»
March «Parade of heroes»
Марш «Парад героев»

Terni: Lo stile dei cavalieri nella Basilica di San Valentino





Basilica di San Valentino Terni S. Michele Arcangelo di Giuseppe Cesari detto Il Cavalier D’Arpino.

Una pittura colta, raffinata, profondamente legata alla tradizione cinquecentesca, che tornava a privilegiare la chiarezza dell’espressione, il decoro nella rappresentazione delle immagini sacre.
                   

Era il 24 giugno del 1606 quando ebbero inizio i lavori di costruzione dell’attuale Basilica di San Valentino. La prima pietra fu posta dal Vescovo di Alatri Mons. Lucantonio Gigli, nativo di Terni, la seconda pietra dal venerabile P. Pietro della Madre di Dio predicatore apostolico, Carmelitano Scalzo e già superiore Generale dell’Ordine, la terza dal Servo di Dio Giovanni Battista Vitelli, di Foligno. Ebbe così inizio in quel lontano giugno del 1606, la presenza a Terni, dei discendenti di quei cavalieri crociati  che qualche secolo prima, attirati dall’esempio di Elia, vollero consacrarsi al servizio della Madonna sul Monte Carmelo, situandosi sulla principale via di pellegrinaggio che conduceva da Akko a Cesarea e che nei secoli donarono alla Chiesa personalità come Santa Teresa D’Avila e San Giovanni della Croce. Valentino suona come valorem tenens, «che mantiene valore», cioè «che persevera nella santità»; oppure significa valens tyro, «valoroso soldato», cioè «soldato di Cristo», così Valentino non arretrò di fronte al martirio, colpì distruggendo l'idolatria, si difese rafforzando la fede, e vinse patendo il martirio», come scrive nella Leggenda Aurea Jacopo da Varazze, dal di Terni. Finalmente restaurate due importanti opere, la Madonna col bambino tra i santi Giuseppe e Teresa di Luca della Haje e il S. Michele Arcangelo del Cavalier D’Arpino. Il restauro è stato effettuato dalla Fondazione Cassa di Risparmio. Particolarmente gradito il ritorno del bel S. Michele Arcangelo di Giuseppe Cesari detto il Cavalier D’Arpino, realizzato su committenza della famiglia Sciamanna. Il Cesari era uno dei principali esponenti “dello stile dei cavalieri”, una pittura colta, raffinata, profondamente legata alla tradizione cinquecentesca, che tornava a privilegiare la chiarezza dell’espressione, il decoro nella rappresentazione delle immagini sacre. Il S. Michele è un immagine lievemente arcaicizzante, preziosa negli accostamenti del colore e tributaria del classicismo raffaellesco: i contorni nitidi, i panneggi “scheggiati”, le ombre trasparenti, l’equilibrio della posa, la calma fermezza dell’atteggiamento ne fanno un magistrale esempio dell’arte ufficiale della Chiesa. Il suo nome in ebraico suona Mi - ka - El e significa: Chi è come Dio? Nel Nuovo Testamento, S. Michele Arcangelo è presentato come avversario del demonio, vincitore dell'ultima battaglia contro satana e i suoi sostenitori. Troviamo la descrizione della battaglia e della sua vittoria nel capitolo 12° del libro dell'Apocalisse: Scoppiò quindi una guerra nel cielo: Michele e i suoi angeli combattevano contro il drago. Il drago combatteva insieme con i suoi angeli, ma non prevalsero e non ci fu più posto per essi in cielo. Il grande drago, il serpente antico, colui che chiamiamo il diavolo e satana e che seduce tutta la terra, fu precipitato sulla terra e con lui furono precipitati anche i suoi angeli. Per i cristiani, quindi, l'Arcangelo S. Michele è considerato come il più potente difensore del popolo di Dio. Nell'iconografia, sia orientale sia occidentale, S. Michele viene rappresentato come un combattente, con la spada o la lancia nella mano, sotto i suoi piedi il dragone - mostro, satana, sconfitto nella battaglia. I credenti da secoli si affidano alla sua protezione qui sulla terra, ma anche particolarmente nel momento del giudizio.

Le “eroiche” gesta della Banda Toso: gli slavo-comunisti titini in Valnerina




 Memoria Storica, la rivista del Centro Studi Storici Terni, diretta dal professor Vincenzo Pirro, ha pubblicato, a firma dello stesso direttore, un’ampia e documentata analisi dei fatti riguardanti l’uccisione di Alverino Urbani da parte di bande partigiane il 29 dicembre 1943. Il caso di Alverino Urbani è il primo ad aprire una serie di uccisioni, di uomini, che non avevano altra colpa  che quella di essere o essere stati fascisti, è il caso del sindacalista Maceo Carloni, oppure quello del seniore Carlo Orsini e del vice capo squadra  Francesco Conti della Guardia Nazionale Repubblicana, caduti  il 23 gennaio 1944 sulla piazza di Polino, non prima di essere depredati del denaro e dei valori giacenti presso le rispettive abitazioni. “A sessant’anni dalla fine della guerra ci sono ancora morti- spiega il professor Pirro- che aspettano di riposare in pace, perché oltre la vita è stato tolto loro anche l’onore. Si tratta di uomini e donne uccisi barbaramente da bande di partigiani o sedicenti tali, per vendetta, per rapina, per rappresaglia, con o senza un disegno politico…La storiografia ufficiale –continua Pirro- ha fatto sua la versione dei vincitori, senza preoccuparsi di accertare la verità dei fatti; e le istituzioni, che lungamente si sono fondate sulla vulgata resistenziale, hanno celebrato i carnefici come eroi”. Alverino Urbani apparteneva ad una famiglia di Scheggino, suo fratello Carlo fu anche podestà del piccolo comune, quando venne ucciso aveva quarantacinque anni, lasciò la moglie e due figli ancora bambini. Lo studio di Pirro, riccamente documentato da note bibliografiche, dimostra come l’Urbani non avesse alcun collegamento con i fatti accaduti un mese prima della sua morte il 30 novembre 1943. Quel giorno tre colonne tedesche, circa 360 uomini, sorpresero la banda di Toso, Svetor Lakotic. Un gruppo di slavi, per lo più montenegrini, fuggiti dal carcere di Spoleto, costituitesi in formazione autonoma, circa sessanta uomini, più alcuni italiani, come scrive Pilevic su Panorama percepivano sé stessi come una “formazione dell’Esercito Popolare di Liberazione della Yugoslavia”. Romano Battaglia, che ebbe l’occasione di frequentarli a Cascia, in “Un uomo, un partigiano”, nota che gli slavi, nel loro estremismo, erano privi di ogni rispetto per la vita propria e l’altrui, capaci di uccidere in ogni occasione a sangue freddo senza la dubbiosa consapevolezza che è dell’uomo. Lo scontro di Mucciafora fu duro, perché il gruppo Toso fu accerchiato e solo in parte riuscì a rompere il cerchio ed a sottrarsi dall’annientamento. Sui sentimenti anti italiani e sulla  mancanza di scrupoli di Toso vi sono numerose prove, per citarne una l’assassinio dei due partigiani italiani Giovanni Terrinelli e Francesco Russo, anch’ essi evasi dalla Rocca di Spoleto, unitosi alla banda Toso, erano poi venuti in contrasto per via dei suoi sistemi eccessivamente crudeli e autoritari, formarono un’altra banda per loro conto. I giudici del Tribunale di Spoleto, per far scattare l’amnistia Togliattii, fecero rientrare arbitrariamente l’uccisione di Terrini e Russo nella fattispecie dei reati “compiuti in occasione della lotta partigiana contro i nazi-fascisti e per ragioni di ferrea disciplina delle bande operanti contro il nemico invasore”. Alla luce della verità storica, dovrebbero riflettere gli amministratori del comune di Spoleto che nel 1972 concessero  la cittadinanza onoraria all’ ”eroico” Svetozar Lakovic. Nella zona, all’incrocio tra le province di Terni, Perugia  e Macerata opera anche la formazione partigiana Spartaco Lavagnini al comando di un Albanese di nome Pietro. Chi sia stato materialmente ad uccidere Alverino Urbani, gli slavi di Toso, od elementi dello Spartaco Lavagnini, non risulta chiaro, l’autore dello studio propone alcune ipotesi, ma quello che ci sembra importante da rilevare è che, dalla ricostruzione degli eventi, Alverino Urbani risulta chiaramente estraneo allo scontro di Mucciafora., non fu lui a segnalare la presenza degli Slavi di Toso, tesi accreditata da numerose falsificazioni storiche, sistematicamente svelate dalla ricerca del professor Pirro. 

 

Canzone partigiana e inno della Brigata Garibaldina Antonio Gramsci, operante in Valnerina tra il 1943 e il 1944.

 La musica è tratta da "Po šumama i gorama", un canto partigiano jugoslavo.


Su fratelli e su compagni
su villaggi su città
siamo noi i partigiani
per la vostra libertà.

Operai e contadini
tutti uniti lotterem
all'appello di Stalin
siamo i primi partigian.

Operai e contadini
distruggete l'invasor
i fascisti burattini
e il tedesco distruttor.

Italiani alla riscossa
giunta è l'ora di pugnar
comunisti bandiera rossa
già si vede sventolar.

 


Esodo
di
Raoul Lovisoni

Sentinelle d'Italia riprendete il vostro posto!

Suona la tromba, ondeggiano
Le insegne gialle e nere
Fuoco, per Dio, sui barbari,
Sulle vendute schiere.
Già ferve la battaglia,
Al Dio dei forti osanna:
Le baionette in canna!



                                                    "Suona la tromba"

Terni: Quali sono i reali dati dell’inquinamento dell’aria della città?

Terni: panorama

Il respiro è il primo segnale della vita che nasce, l’idea di una città Vivibile non può che iniziare da un’analisi della qualità dell’aria che suoi cittadini respirano, solo così la vita può svolgere il suo percorso naturale. Occorre quindi chiedersi quale sia il reale livello di vivibilità della nostra città rispetto all’aria che tutti respiriamo. Quali sono allora i veri reali dati dell’inquinamento dell’aria della città di Terni? I dati della qualità dell’aria vengono rilevati dalla Provincia di Terni, attraverso un sistema di rilevamento di centraline, fisso, o mobile, diffuso nella città. Le testate di misura di queste centraline sono di fabbricazione americana, modello Teom serie 1400 A, realizzate dalla Ruprecht e Pataschinich c.o. inc. USA, distribuite in Italia dalla Sartec Saras di Milano. Forniscono dati attraverso una rilevazione in continuo, sarebbe a dire che le centraline inviano i dati attraverso un sistema elettronico, in maniera continuata, al laboratorio di analisi centrale che elabora i dati. Ora sembrerebbe, che questo sistema non abbia il certificato di Equivalenza Europea, nè da parte del C.N.R , ne da parte dell’ Istituto Superiore Prevenzione e Sicurezza sul Lavoro, nè da altro istituto equivalente europeo. Sarebbe a dire che i dati rilevati, seppur utili ad un’attività gestionale interna, non hanno alcun valore legale, per semplificare possiamo ricorrere all’esempio dei giocattoli cinesi, che non hanno il certificato di conformità europea. Le apparecchiature che hanno ottenuto la Certificazione Europea, sono tutte di tipo discontinuo, hanno quindi bisogno di un tecnico che si rechi sul luogo dove sono poste, ed elabori sul momento quelli che sono i dati che l’apparecchiatura fornisce. Inoltre la legislazione europea Direttiva 96/62 CE, recepita dal D.M 60/02, pur fissando in modo preciso e assoluto i valori di soglia degli inquinanti, sia per la media giornaliera (che non deve superare più di 35 volte in un anno i 50,0 microgrammi al metro cubo), sia la media annuale ( che deve essere inferiore o uguale a 40 microgrammi al metro cubo), stabilisce un margine di errore di più o meno 25%. La rilevazione dei dati in continuo quindi ha una forbice di errore molto alta, le apparecchiatura invece discontinue non hanno margine di errore. Se poi aggiungiamo l’osservazione, che vengono misurate soltanto le particelle micrometriche PM 10, e non quelle di inferiori come le 2,5, e che già la ricerca ha individuato nuovi inquinanti di diametro molto inferiore, i dati su cui basiamo il livello della nostra qualità dell’aria sono del tutto illusori. Nessuno sa bene di fatto quali siano i valori degli inquinanti presenti nell’aria che respiriamo, ne ci aiutano a capire in questo, senso, anche se la sperimentazione e la ricerca sono sempre importanti, i palloni sonda, aereostatici, poiché vale lo stesso discorso che per le misurazioni continue effettuate dalla provincia di Terni. Saremmo felici che qualcuno smentisse le nostre osservazioni. Per intanto c’impegniamo a far si che le politiche amministrative, della Terni Vivibile, in cui vogliamo che crescano i nostri figli e i nostri nipoti, siano sempre più attente alla qualità dell’aria che respiriamo. Poiché gli uomini non valgono per quanto sanno possedere, quanto per quello che sanno lasciare. Oggi che anche l'ARPA conferma i dubbi sollevati. La cosa veramente grave è che la stragrande maggioranza dei sistemi di monitoraggio dell'aria di tutte le province italiane sono stati realizzati con gli stessii macchinari, utilizzati dalla Provincia di Terni, quindi potremmo dire che tutta la rete di monitoraggio dell'aria sul territorio nazionale serviva poco o niente. Ma sicuramente realizzarla ha avuto costi elevatissimi.

I Cavalieri dell'Apocalisse





Se volessimo individuare i personaggi che più hanno hanno insanguinato il secolo scorso falciando milioni di vite umane dovremmo fare riferimento a quattro assoluti protagonisti, veri cavalieri dell’Apocalisse: Stalin, Hitler, Mao e Pol Pot. Se dovessimo seguire un ordine cronologico il primo sterminatore, preceduto dallo stesso Lenin con il milione di vittime cosacche della rivoluzione bolscevica e la prima pianificazione e teorizzazione del terrore, è stato proprio Stalin, il massacro dei Kulaki iniziò tra il 1927 ed il 1930, mentre il gulag nasce prima dei campi di sterminio, purghe e terrore iniziano nel 1937. All’inverso se volessimo stabilire una graduatorie degli orrori più recenti dovremmo rivolgerci alla Cambogia di Pol Pot degli anni 70, trent’anni dopo i crimini nazisti, mentre imperava la logica di Yalta, fu il massacro più feroce, fu eliminato un cambogiano su tre. Il primato della quantità delle vittime falcidiate spetta invece a Mao, che sacrificò alla rivoluzione almeno cinquanta milioni di individui. Dei quattro sterminatori l’unico che non sopravvisse al suo sterminio fu Hitler, Stalin e Mao alla loro morte raccolsero universale cordoglio e solenni esequie. Tre su quattro dittatori sanguinari sono figli della stessa ideologia il comunismo, è assai strano che per l’opinione pubblica mondiale il simbolo del Male resti solo il quarto Hitler. Fu Lenin per primo a teorizzare e praticare il terrore al potere,nel 1922, in occasione della preparazione del codice penale sovietico scriveva: “Il tribunale non deve eliminare il terrore, prometterlo significherebbe ingannare se stessi e ingannare gli altri; bisogna giustificarlo, e legittimarlo sul piano dei principi, senza falsità e senza abbellimenti”. In Lenin, come in una matrioska russa, c’è già Stalin. E anche Hitler. Del nazismo che durò un dodicennio, finì nel sangue e la cui classe dirigente fu decapitata, più di mezzo secolo fa si parla come se fosse vivo e minaccioso, il comunismo le cui più recenti perfomance del terrore risalgono agli inizi degli anni 90 a Riga, Vilnius, Timisoara e Tienanmen, che ha oppresso, in varie continenti, per oltre settanta anni, miliardi di persone ed i cui capi non hanno conosciuto processi di Norimberga, tranne che in Romania, e sono in maggioranza in vita e spesso al potere, risulta essere un reperto archeologico di un epoca che non è la nostra e di un genere umano che non abbiamo mai conosciuto. Strano agire ad intermittenza di memoria ed oblio. Una ragione che appare plausibile per giustificare questa disparità della memoria è che i campi di sterminio appaiono moralmente più raccapricciante. La giustificazione dello sterminio degli ebrei appare la più delirante, così come fu espressa da Hitler nel discorso del 30 gennaio del 1942 a Berlino. “La guerra potrà finire solo con la liquidazione delle popolazioni ariane oppure con la scomparsa del giudaismo in Europa...il risultato di questa guerra sarà l’annientamento del giudaismo. Per la prima volta si applicherà l’antica legge giudaica “occhio per occhio dente per dente”!...E verrà il momento in cui il più acerrimo nemico dell’umanità di tutti i tempi si giocherà il suo ruolo almeno per un millennio”.Il monopolio della memoria appare invece preoccupante, è come se niente altro che Auschwitz evocasse il male e il passato del secolo scorso. A conservare la memoria del gulag sono veramente pochi, solo le tre repubbliche baltiche sono state in grado di farlo con rigore scientifico raccogliendo un’ampia e dettagliata documentazione, mentre per l’Olocausto è stato raccolto un grandissimo numero di documenti e analisi a cui è stato dato un’ampia risonanza. Inoltre l’Olocausto è stato studiato come il prodotto di tutto un sistema ideologico, il nazismo, operazione opposta è stata fatta per il gulag, dove si è cercato di negare le responsabilità all’ideologia ed al sistema che lo hanno generato addossandone la colpa a un loro momento e a un loro rappresentante, ecco l’invenzione dello “stalinismo”. Sussiste tutt’ oggi un’indulgenza nei confronti del comunismo che travalica la logica di Yalta e deve fare i conti con i decenni di egemonia culturale della sinistra, fino a ieri marxista, in Italia ed in Occidente. Cina, Cuba, Corea del Nord e ancora non pochi movimenti e regimi si definiscono comunisti, mentre non si ha notizia di regimi nazisti in carica e di dirigenti nazisti al potere. Molto fragile appare la giustificazione data da Furio Colombo, secondo il quale nel passato italia no non c’è il gulag ma il Tribunale speciale fascista, non il Kgb ma l’Ovra ed è quindi giusto riservare attenzione alle vicende di casa propria. Questa logica porterebbe, ad esempio, russi, cinesi e indiani a non curarsi di Auschwitz perchè non riguarda la loro storia. Inoltre è improponibile il paragone tra il pur odioso tribunale fascista che in tutta la sua attività ha irrogato 42 condanne a morte, in media meno di tre condanne l’anno, in buona parte non eseguite e circa 4.500 condanne al carcere o al confino su più di 21.000 denunce in gran parte archiviate o concluse con l’assoluzione, rispetto ai milioni di morti e deportati nel gulag sovietico.

Imparagonabile il Tribunale speciale fascista con il tribunale rivoluzionario istituito da Lenin nel ‘17, incombente la rivoluzione, non a fianco della giustizia ordinaria, come il tribunale fascista, ma al posto di essa. Volendo poi restare nella macabra contabilità autarchica, si può prescindere dalle migliaia di vittime delle foibe istriane e degli omicidi a guerra finita?

Occorre rifuggire lo schematismo delle simmetrie in base al quale si richiama un orrore per neutralizzarne un altro o per consentire un inaccettabile disarmo bilaterale della memoria, come se uno sterminio lavasse l’altro. Ma è inaccettabile che la commemorazione degli orrori del gulag possa essere inquadrata come tentativo di obliare i campi di sterminio o di “pareggiarli” in un delirante “scambio politico” dell’ orrore. In realtà la memoria degli uni evoca la memoria degli altri, e viceversa, ed entrambe non possono essere dimenticate. il gulag precedette Auscwitz e ne fu per molti versi l’archetipo e il parametro. E’ curioso notare che per il filosofo tedesco Habermas usi la reticente e vaga definizione di “espulsione”per lo sterminio staliniano dei kulaki che, risale agli anni Venti, ed è a tutti noto che i kulaki non furono semplicemente evacuati, ma proprio massacrati.

Va notato che i primi a costruire campi di concentramento nel ‘900 sono stati gli Inglesi, i concentration camps dove ammassarono i boeri. Ha poi ragione Elio Toaff a ritenere che il Male del secolo sia simbolicamente rappresentato da Hiroschima e Nakasaki, non solo per la densità in cui si concentrò in pochi terribili attimi e per il coinvolgimento della scienza e della tecnica ai suoi massimi livelli, ma anche perchè la barbaria dei campi di sterminio aveva conosciuto precedenti nella storia sebbene ora ne mutassero dimensioni e organizzazione, ma l’orrore piovuto dal cielo per la volontà degli uomini non aveva precedenti, era stato prefigurato come una sorta di castigo divino mai come un evento compiuto da uomini. Era una novità tremenda e assoluta, l’umanità prese coscienza di essere mortale. Peraltro anche alle radici della distruzione atomica di Hiroshima esiste un pregiudizio sulla razza gialla a cui il presidente americano Harry Truman era sensibile fin da ragazzo. La decisione di sganciare la bomba affermò non fu per lui ne sofferta nè difficile e non gli fece perdere una notte di sonno . “I giapponesi erano bestie e come tali andavano trattati”, dichiarò a mente fredda. In una lettera del 22 giugno del 1911, prima della guerra e prima di Pearl Harbor, scrisse: “Penso che tutti gli uomini abbiano pari valore fintantoché sono onesti e dignitosi purché non si tratti di negri o di gialli... Odio i cinesi e i giapponesi. Suppongo si tratti di un pregiudizio razziale. Sono energicamente favorevole all’idea che i Negri debbano stare in Africa, i gialli in Asia e i bianchi in America e in Europa”. Era necessario salvare anche una sola vita americana: come se la vita dgli altri popoli non contasse nulla, il più feroce ed ottuso dei nazionalismi xenofobi e dei razzismi si compendia in questo paragone tra una vita americana e migliaia di incolpevoli vite giapponesi. Tanto più che il lancio dell’atomica non era in realtà necessario, già da allora lo sostennero i generali Eisenahower e Mac Arthur e l’ammiraglio Leathy, ma nessuno si sottrasse all’ordine terribile di uccidere migliaia di vite inermi, anzi i militari furono trattati da eroi, insigniti di medaglie al valore e nessuno fu mai tentato dall’idea di processarli per crimini di guerra. L’ aereo della morte fu affettuosamente soprannominato Enola Guy dal nome della mamma di un colonnello americano. Quando Luigi Berlinguer ricoprì l’incarico di Ministro della Pubblica Istruzione della Repubblica Italiana, emanò curiose circolari sull’insegnamento della storia del Novecento che eludono l’uso della parola comunismo, preferendo definizioni come stalinismo o sovietismo, questo suscitò una vivace polemica (si veda il libro Sostiene Berlinguer con testi di Abbruzzese, De Michelis e Galli della Loggia che contiene anche una ricca appendice che riproduce i documenti ministeriali oggetto di critiche), continua il “depistaggio stalinista” denunciato da Solgenitsyn in Voci sotto le macerie. I vari comunismi sparsi nel mondo e lungo l’arco del secolo sarebbero dunque tutti surrogati, forme abusive di comunismo, illusioni ottiche, disguidi e tradimenti. Il comunismo resta così una magnifica promessa nell’alto dei cieli che non si è ancora incarnata nella storia. E’ pertanto indispensabile per una comprensione compiuta del comunismo ripristinare l’unità ideologica e la continuità storica del comunismo, a partire da Lenin. Non si comprendono né Stalin, nè Mao, nè Gramsci e nemmeno Gorbacev se non si parte da Lenin e non si restaura il senso di una continuità. Non si comprendono le espressioni multiple del comunismo mondiale se non si riannoda quel fi lo. Ma più vastamente non si comprende il secolo delle rivoluzioni se non partendo dalla scintilla, Iskra, scintilla si chiamava, appunto, la rivista da cui partì la rivoluzione, che Lenin accese nel 1903. Non c’è frattura tra il leninsmo e l’idea di egemonia in Gramsci, ma prosecuzione coerente in ambito occidentale della pretesa leninsta di guidare la storia e le masse, incarnando lo spirito del tempo e sostituendo ogni altra aspirazione in ogni sfera pubblica e privata, a . cominciare dalla religione. Ma non c’è frattura nemmeno tra il leninismo e il gulag, prosecuzione coerente della rivoluzione e del terrore che ebbero in Lenin il primo convinto interprete, non solo ideologico. Non si tratta di demonizzare il comunismo, e di caricare sulle sue spalle il peso dei mali della modernità, si tratta, all’inverso, di riconoscerne la portata e la grandiosa incidenza nella storia. Si tratta di prendere sul serio il comunismo. L’idea di sopprimere la realtà, di estirpare la storia vera e di abolire la società presente, la responsabilità degli esiti dolorosi non può essere attenuata, ne attribuita alle circostanze o all’infame corso degli eventi. Laddove alcuni ritengono di cogliere il titolo di nobiltà del totalitarismo comunista, si annida al contrario il suo punto di inarrivabile crudeltà: l’idea dell’abolizione della storia , il sogno di una umanità mai nata e una società mai realizzata che nega radicalmente l’umanità concreta e la società vivente, è già il cuore del male totalitario allo stato puro, non dunque degradazione di principi, ma perfetta conseguenza di essi. Possiamo solo accettare la distinzione di Giovanni XXIII tra l’errore e gli erranti e cioè di quanti al comunismo credettero in buona fede, a volte dedicandogli la loro vita e la loro passione intellettuale e civile. Anche le cause peggiori possono attirare gli uomini migliori, anche il nazionalsocialismo tentò intelligenze di prim’ordine. C’è una’antica parentela tra angeli e demoni.La sensazione di vivere in un inferno, genera disperanti speranze in altri inferni prossimi venturi, in cui si rovesciano le parti, e dannati e carnefici ci si scambiano i ruoli. Le utopie inoltre attraggono spesso nobili intelligenze e cuori disperati, tra i primi non sarà difficile trovare intellettuali che al comunismo credettero, salvo poi ricredersi e rovinare la loro esistenza per quel loro ravvedimento, tra i secondi non sarà difficile individuare le grandi masse di dannati della terra che affidarono al sogno di redenzione del comunismo le loro speranze di riscatto sociale, di dignità e di un radioso futuro per i loro figli ed il loro risentimento, la loro voglia di far scontare agli sfruttatori le sofferenze che avevano subito. L’espiazione, un’antica categoria religiosa introdotta nella storia, spiega una delle spinte psicologiche del comunismo. Sul piano storico e negli assetti sociali, il comunismo è stato in alcuni Paesi un grande liqudatore di società arcaiche premoderne, e un grande traghettatore verso la modernizzazione capitalistica, quasi un taxi con tassametro impazzito (con costi esorbitanti) che ha trasferito le masse dalle comunità tradizionali alla società globale. A partire dalla Russia zarista, dove la rivoluzione comunista è stato un corso accelerato di modernità, come sosteneva lo stesso Trotzkj, che aveva fatto vivere, a tappe forzate, alla Russia le rivoluzioni politiche e sociali moderne: la rivoluzione francese ma anche la rivoluzione industriale, il terrore giacobino ma anche la ricerca scientifi ca e l’applicazione tecnologica. Il comunismo ha rappresentato per la Russia la transizione cruenta fra il mondo premoderno, asiatico e zarista, di cui pur aveva ereditato alcuni incantamenti magici e liturgici, alcune restrizioni etiche e morali e alcune ossessioni geopolitiche ed imperiali, e il mondo moderno delle ricerche spaziali, degli armamenti, delle fonti energetiche, dell’economia come chiave del mondo. Il comunismo nasce dal progetto di adeguare la realtà ad un

idea che diventa norma: da qui la normalizzazione come procedura standard del comunismo al potere e la sua versione debole e dolce di perseguire il sogno di un Paese normale di alcuni intellettuali e politici nelle democrazie  d’Occidente.


Margherita Incisa di Camerana donna ardita



Margherita Incisa di Camerana, l'unica donna a far parte di una compagnia di Arditi, con il grado di Tenente, era madrina della Compagnia D'Annunzio. A Fiume nacque l'amore tra il giovane tenente Elia Rossi Passavanti, eroe di guerra, e la crocerossina che aveva lasciato gli agi della corte dei Savoia per recarsi al fronte della prima guerra mondiale. Un amore che durò per la vita.

                                               Margherita nella Legione fiumana

 Fra gli Arditi della D' Annunzio c'e' una donna...che sopra una succinta gonna grigio-verde porta la giacca coi risvolti neri. Ha il grado di tenente; prende parte alle marce, alle esercitazioni; con una virile grazia quest'anima ben temprata si piega alle necessita' rudi del blocco, vigilando alla salute morale e alla disciplina delle sue truppe, perorando la causa loro presso il Comandante: costantemente la si vede a fianco di Rossi Passavan...ti: spunta il romanzo. Accadra' un giorno che il capo della Disperata sposi la marchesa Incisa di Camerana. Cosi Leo Kochnitzky descrive Margherita, una donna che precorse i tempi, oggi le donne nell'esercito sono protagoniste quanto gli uomini, ma allora la presenza di una donna in una compagine di Arditi provoco' la reazione di bigotti moralisti, tra questi Filippo Turati che, in una lettera alla sua compagna Anna Kuliscioff, parla di Margherita con disprezzo: " Il povero Nitti e' furibondo per le indegne cose di Fiume. Non solo proclamano la Repubblica di Fiume, ma preparano lo sbarco ad Ancona, due raids aviatori armati sopra l'Italia e altre delizie del genere. Fiume e' diventato un postribolo di malavita e prostitute piu' o meno high life. Mi parlo' di una marchesa Incisa, che vi sta vestita da ardita con tanto di pugnale. Purtroppo non puo' dire alla Camera queste cose, per l'onore d'Italia".
 
Il tenente Margherita Incisa di Camerana con gli arditi della "Disperata" a Fiume
con Gabriele D'Annunzio





Elia Rossi Passavanti e Margherita Incisa di Camerana con D'Annunzio a Fiume

Dedicato a tutti quelli che si credono Napoleone




Su Napoleone Bonaparte sappiamo ormai tutto, sono centinaia di migliaia i testi che gli sono stati dedicati da biografi e storici. I maniaci hanno rilevato giorno per giorno i suoi movimenti da Tolone a Waterloo. I nostalgici hanno ripercorso i suoi itinerari. I topi da biblioteca hanno fatto l’esatto censimento delle sue amiche di un’ora , e i più tenaci sono arrivati ad identificare tutti i membri di un “Club  degli amici della  Costituzione” di cui Napoleone, giovane tenente di artiglieria, ha fatto parte, a Valenza. Lui stesso a Sant’Elena ha narrato i suoi ricordi. Tutti quelli che gli sono stati accanto, grandi marescialli o cameriere, hanno scritto le loro memorie. Giuseppina ha custodito le sue lettere d’amore. La sua storia l’ha messa in scena lui stesso. Ne ha suggerito i dialoghi, in cui sembra  che non abbia mai pronunciato altro che frasi storiche. Ne ha fatto dipingere gli scenari, dal ponte di Arcole al cimitero  di Eylau. Tutti i temi sono esaltati dall’arte di pittori famosi. Lo sfondo delle Piramidi, il passaggio delle Alpi, i pugnali del cinquecento, il sole di Austerliz. Tutti i personaggi al loro posto, anche mamma Letizia nel palco d’onore dell’incoronazione, quando invece sappiamo, che non partecipò alla cerimonia. O il Primo Console in sella al suo cavallo impennato,  che indica con il dito le vette delle Alpi, dove scolpiti nella roccia sono visibili tre nomi: Carlo Magno, Annibale, Bonaparte. Uno dei più superbi quadri di David: il valico del passo del Gran San Berardo. In realtà il viaggio fu fatto a dorso di mulo, da Martigny fino al famoso convento. Da Tolone dove contribuì alla presa della città insorgente, sino al sangue versato sul sagrato di Saint Rock, Bonaparte sostenne la Convenzione. Appena qualche anno dopo la Rivoluzione, ed i grandi proclami che ne sono susseguiti, l’esercito era rimasto l’unico punto fermo, in un quadro generale piuttosto instabile. Stabilità chiede invece la borghesia. Ecco che i regicidi si trasformano in notabili. Si conserva il ballo del 14 luglio, ma si sopprime quello del 21 gennaio, che festeggia la morte di Luigi XVI. Non si danza più sui cadaveri. Non si esige più la testa del vicino: più prosaicamente , lo si porta davanti al giudice di pace. Velocemente siamo passati da Chodelos de Laclos a Balzac, dalla dichiarazione dei diritti dell’uomo al Codice Civile. Sade viene messo in manicomio a Charenton. A breve nascerà Victor Hugo. Gli “assegnati “ vivono gli ultimi giorni. La Banca di Francia consolida le sue finanze , e l’oro farà presto la sua ricomparsa, coniato col profilo incisivo del nuovo Cesare. Il potere è finito nelle mani di ragazzini: Napoleone ha 26 anni, Junot e Murat 24, Marmont 21. Coloro che gli furono più cari, diventarono marescialli, duchi, principi o re. Ma Junot si suiciderà, Bertier farà la stessa fine, Murat verrà fucilato in una prigione calabrese, Marmont, bollato come traditore da melodramma, trascinerà dolorosamente, la sua maschera di Giuda. Lannes morirà dopo una lunga agonia in seguito all’amputazione delle gambe. Leclerc cadrà vittima della disperazione e della febbre gialla nell’isola della Tortue. La Harpe non arriverà più in la di Lodi, Mouiron non oltrepasserà il ponte di Arcole. Nessuno scriverà tante lettere di condoglianze a giovani vedove quante ne ha scritte Napoleone.  Mentre in tutti gli angoli d’Europa insorgenti preparano imboscate. E’ la risposta dei popoli all’offensiva dell’Utopia, alla smania normativa e prescrittiva della borghesia, che prendeva forma attraverso la codificazione, che avrebbe introdotto modernità e sviluppo.

Ma la battaglia di Lipsia alla metà dell’ottobre del 1813 metteva fine ai sogni napoleonici dell’Impero universale costruito a colpi di cannone. A partire da quel momento le Armate Alleate lo costrinsero alla ritirata su tutti i fronti. Anche gli organismi statali napoleonici o filo napoleonici, crollarono sotto la pressioni dei popoli e degli eserciti delle potenze coalizzate.

A Carlo Delcroix al Veggente che senza guida esplorà in sè i suoi tre Regni


Serauta 1916 - Carlo Delcroix in postazione al comando di una mitragliatrice "Shwarzlose" catturata al nemico






 di Giano Accame

Fra tutte le forme di primato intellettuale la più difficile da trasmettersi è quella dell'arte oratoria.
Un tempo si salvava appena il testo, ma si per­deva la voce.
Ora anche la voce può salvarsi coi registratori, ma si perde pur sempre quell'elemento caratteriz­zante e insostituibile che è l'atmosfera.
Il grande oratore assai più dell'attore o del can­tante è inseparabile dal suo pubblico e dalla emo­zione che riesce a trasmettergli e che gli si river­bera.
L'autenticità della emozione è in qualche modo garantita dal carattere irripetibile del discorso.
Anche l'attore e il cantante trasferiscono delle emozioni, che discendono però da delle imitazio­ni ripetitive: le situazioni sono inventate; i testi non sono loro; sono stati già recitati chissà quan­te volte; ed anche quella tale particolare interpre­tazione voi sapete che potreste ascoltarla esatta­mente identica la sera dopo.
La grande orazione, invece, è una cosa unica, vera, e chi parla è la stessa persona che ha pensato le cose che dice o che se ne assume comunque la responsabilità.
Non si ripete l'arringa a un processo celebre. Possono ripetersi dei comizietti di periferia, ma non un grande discorso politico.
Chi vi assiste soddisfa a qualcosa di più di una semplice curiosità o piacere dell'intelletto. Non è solo uno spettatore come a teatro ma si sente an­che personalmente coinvolto, compartecipe di un messaggio, parte di un progetto, testimone di una parola, di un verbo che si fa avvenimento.
Questa vibrazione di anime, questo incontro di sentimento tra il pubblico che ha assistito a un discorso e l'oratore che lo ha pronunciato, la regi­strazione non potrà più trasmetterlo. Tanto meno la versione scritta, che non restituisce la voce, le pause, gli accenti, le espressioni del volto, il ge­stire.
La grande orazione è il miracolo di un momento e, per quel tantissimo che di essa si perde appena il momento è trascorso, sono poche le orazioni, pochi gli oratori che si tramandano: Lisia, Demo­stene, Cicerone, Bossuet.
Noi ricordiamo oggi uno dei grandi oratori del nostro secolo, Carlo Delcroix. E se ai giovani, che non l'hanno sentito, sarà difficile trasmetterne una impressione, i più maturi fra noi potranno aiutarsi frugando nell'animo alla ricerca di passate emozio­ni e ricordi. Perché non c'è nessuno che abbia udi­to Carlo Delcroix e possa essersene dimenticato.

Delcroix è stato con Mussolini il più suggestivo oratore di quel periodo, che noi oggi, con una for­ma asettica di eufemismo, usiamo definire « tra le due guerre ».Diciamo che è stato il secondo oratore di quel periodo, dopo Mussolini, la cui oratoria - grandis­sima - si avvantaggiava peraltro rispetto a quella -altrettanto se non più grande - di Delcroix, di ave­re come Capo del Governo più cose da dire: dichiarazioni di guerra, proclamazione di un Impe­ro, fondazione di nuove città a cui si ordinava di emergere in pochi mesi col sudore dalle paludi, sicché i discorsi di Mussolini non solo erano av­venimenti ma annunziavano avvenimenti, si con­fondevano - nel bene come nel male - con il de­stino.La parola di Carlo Delcroix, presidente dei mutilati, non era altrettanto dotata dei poteri di cui si carica quella di un dittatore. Il puro ele­mento dell'arte oratoria prevaleva in lui rispetto all'intensità e drammaticità degli annunci. Ma anche in lui il verbo si faceva pietra e palazzo, come testimoniano le case dei mutilati numero­sissime in tutta Italia. 
Case per le singole famiglie dei mutilati di guer­ra e case per la associazione, a cominciare dalla Casa Madre di Roma, progettata dall'ex combat­tente Marcello Piacentini come un tempio di fede guerriera, come un austero castello di fronte al Te­vere tra la Mole Adriana ed il Palazzaccio.Furono chiamati ad ornarla dei pittori e scultori ex combattenti come Cipriano Efisio Oppo, Mario Sironi, Antonio Giuseppe Santagata, Arturo Dazzi, Giovanni Prini, Romano Romanelli. 
Questo inconfondibile documento dello stile di un'epoca è destinato, piaccia o non piaccia, a tra­smettere nel Duemila un orgoglio monumentale che si è interrotto nella successiva epoca dei pa­lazzinari, dove il coraggio si è piuttosto diretto al­le sfide meno ambiziose della speculazione. 
Altre case dei mutilati sorsero, esempi significa­tivi e imponenti dell'architettura moderna, a Mila­no, Genova, Napoli, Palermo, Bari, Ravenna, in gara con le case del balilla, le case del fascio e gli altri edifici pubblici particolarmente frequenti in quell'epoca come prefetture, palazzi di giustizia, delle poste. 
Ma possiamo esser certi che le case dei mutilati non sarebbero sorte se non ci fosse stato Delcroix e la sua azione di orgogliosa rivendicazione dei sacrifici sofferti nel nome della Patria. 
Egli le concepì nella religione della Patria, così come certi santi, concependo un ordine, hanno se­gnato al tempo stesso nei secoli e nella pietra il volto della città. 
Penso a San Filippo Neri con il complesso bor-rominiano dell'oratorio e la Chiesa Nuova ed a Sant'Ignazio con le grandi isole gesuitiche del Collegio Romano, dell'Università Gregoriana alla Pilotta.
La Casa madre dei mutilati fu costruita coi mez­zi che Carlo Delcroix raccolse in un giro di con­ferenze fra le comunità italiane del Sud America. 
E già questo fatto, questa capacità della parola di trasformarsi in risorsa finanziaria ed in pietra, in palazzo, può servire a metterci in guardia dal­l'accusa più frequente lanciata alle orazioni di Carlo Delcroix: quella di fare della retorica.
Perché o per retorica si intende l'arte della paro­la, la tecnica del discorso, il complesso degli ac­corgimenti che l'oratore impegna per accrescere la propria efficacia sull'uditorio: e allora è evidente che quest'arte Delcroix la praticava bene, parte per dono istintivo, naturale e parte per averla poi coltivata con rigore di studi e di riflessioni, con una preparazione ed una concentrazione estenuan­ti, che lo facevano uscire da ogni discorso fradi­cio di sudore.
O per retorica si intende un vano tintinnare di orpelli, quasi un suono di parole vuote ed al]ora dobbiamo dire con piena coscienza che non pote­vano essere prive di senso le frasi per cui tanta gente accorreva, si accalcava, si emozionava; né prive di conseguenze pratiche quelle parole da cui uscirono centinaia di imponenti palazzi.
Certo: quelle parole corrispondevano a dei sen­timenti di orgoglio nazionale, di devozione alla Patria, che oggi non sembrano più di moda.
O meglio: che per alcuni decenni erano tramon­tati, come reazione all'abuso che se ne era fatto, alla sconfitta che ne era derivata, e che oggi
tornano a germogliare ancora timidamente non solo sui campi sportivi, ma anche nei nostri corpi ar­mati inviati in azione di pace all'estero, dal Liba­no al Golfo Persico.
Direi addirittura qualcosa di più, anche se la prosa di Carlo Delcroix come quella di Gabriele D'Annunzio - di cui Delcroix conservava delle splendide dediche - soffre innegabilmente per una certa sovrabbondanza ed eccessiva ricchezza di immagini: se per retorica si intende il compiaci­mento un pò logorroico per lo sconfinato fluire delle parole, quella fu un'epoca di oratoria straor­dinariamente misurata nei tempi, tacitiana, sparta­na, concisa.
Mussolini annunciò l'Impero con un discorso di pochi minuti. Durarono più le acclamazioni e gli applausi delle parole.
Così gran parte dei discorsi celebrativi pronun­ziati da Carlo Delcroix occupano poche pagine di testo scritto: non possono essere durati più di mezz'ora e diversi di loro non più di dieci minuti.
Ho provato a rileggere con l'orologio alla mano il discorso pronunciato il 4 novembre 1928 alla presenza del Re e del Duce per l'inaugurazione della Casa Madre e ci ho messo quattro minuti.
Se li paragoniamo ai più commentati momenti dell'oratoria politica odierna, alle ore che impie­gava Aldo Moro o che, nel suo terribile accento, impiega Ciriaco De Mita per una relazione al con­gresso del partito, non possiamo non stupirci del­la concisione di allora.

Pur rappresentando spesso eventi indimenticabi­li, allora i discorsi erano riempiti soprattutto di at­tesa.
Ad allungare quegli incontri con la folla contri­buivano i tempi talvolta estenuanti delle adunate, perché non si andava ad ascoltare da soli, così co­me si va oggi ad una conferenza o a un comizio.
Chi di noi è stato balilla ricorderà questa corali­tà organizzata.
Si andava inquadrati, ognuno nella propria orga­nizzazione, i ragazzi si radunavano nelle palestre delle loro scuole, e c'erano tempi di raccolta e di attesa, che avevano l'effetto di portare la sensibi­lità a fior di pelle.
Non erano solo discorsi, erano riti di una reli­gione guerriera, nei quali la predica rappresentava solo - come oggi alla Messa - una parte della ce­rimonia.
Di quella religione a buon titolo Carlo Delcroix era testimone, martire, sacerdote.
Ed anche ciò che si poteva immediatamente ve­dere del suo sacrificio, ciò che si poteva intuire della sua sofferenza, aggiungeva forza di sinceri­tà a quel che diceva.
Poteva, beninteso sbagliarsi. Ma su una cosa non c'era ombra di dubbio: aveva pagato di perso­na, continuava a farlo.
Questo prezzo di sangue, il sacrificio degli oc­chi, quello delle mani, la gente non lo recepiva come retorica. Lo sentiva come valore.
Carlo Delcroix aveva ancora la nazionalità bel­ga allo scoppio della prima guerra mondiale.
Il nonno era un minatore del Borinage, che era riuscito a trasformarsi in imprenditore ed era ve­nuto in Italia a costruirvi le ferrovie in diverse zo­ne del Mezzogiorno. Il padre era nato in Puglia durante la costruzione di una ferrovia e dopo la seconda guerra in quella regione Carlo Delcroix fu eletto deputato per il Partito Nazionale Monar­chico di « Stella e Corona ».
La famiglia si era poi trasferita a Firenze tosca­nizzandosi completamente.
Nato il 22 agosto 1896 a Firenze, Delcroix ave­va frequentato una delle scuole di don Bosco e da questa esperienza conservò sempre una profonda religiosità. Nel 1914 aveva presa a pieni voti la maturità classica e partecipato come studente alle dimostrazioni dell'interventismo.
Scoppiata la guerra optò per la nazionalità ita­liana per partire subito volontario coi Bersaglieri.
Fece la scuola allievi ufficiali e come aspirante partecipò con il III Reggimento bersaglieri nell'a­prile 1916 alle operazioni della conquista del Col di Lana; poi come sottotenente nel maggio alla conquista del Monte Sief. In agosto prese il co­mando di una sezione di lancia torpedini, poi per tre mesi fu al comando di una sezione di mitra­gliatrici a 3.065 metri sul Marmolada in un inver­no rigidissimo senza possibilità di riscaldamento e con inaudite difficoltà di rifornimento.

Nel febbraio 1917 fu promosso tenente ed as­sunse l'incarico di istruttore dei reparti arditi sul lancio delle bombe a mano.
La sera dell' 11 marzo 1917, leggo dal rapporto steso subito dopo dal comando del III Bersaglieri insieme alla proposta per la medaglia d'argento, Delcroix « era alla mensa ufficiali quando fu av­visato che un bersagliere recatosi imprudente­mente nel campo di tiro era saltato in aria per una bomba. Il poligono per la caduta di neve non era stato sgombrato dalle bombe inesplose. Egli si re­cò sul luogo con gli altri ufficiali e soldati; con­statata la morte dell'infelice fece allontanare i pre­senti, dispensò la squadra di servizio per non esporla a rischi gravi e volontariamente, con cal­ma, si mise di persona a liberare la zona dagli or­digni inesplosi ».
Uno degli ordigni gli scoppiò fra le mani tron­candogliele, lo accecò, gli riempi il corpo di cen­tinaia di schegge. L'ultima impressione visiva che gli era rimasta fu, dunque, quella del bersagliere morto in cui, dopo avergli liberato dalla neve il volto martoriato, si era quasi rispecchiato, come in un presagio. E, comunque, come in un ammo­nimento di grave pericolo, per cui aveva fatto al­lontanare tutti e si era messo personalmente, da solo, a bonificare il campo invece di incaricarne i soldati, come avrebbe probabilmente fatto qual­che ufficiale appena un pò meno scrupoloso.
Lo ha poi ricordato in una poesia intitolata:

LO SCONOSCIUTO
Sotto la neve che celava un volto vidi me stesso, quale sarei stato, e da quel gelo non mi son più tolto: non so da quale voce fui chiamato
o chi dentro di me fosse in ascolto, e come se mi avessero portato corsi alla riva dove fui raccolto, dove vicino a te fui ritrovato.
La morte non temuta in campo aperto da solo avvicinai senza sospetto, e con lo stesso telo fui coperto:
da allora invano la mia pace affretto, poiché in audacia la pietà converto ogni volta che interrogo il tuo aspetto.
Aveva vent'anni e già una densa esperienza di guerra alle spalle quando dovette affrontare il cal­vario degli ospedali ed il devastante sgomento di una vita da proseguire come grande invalido.
Attraversò momenti di disperazione, rimpian­gendo di non essere morto.
Una delle sue poesie più strazianti è quella de­dicata al momento in cui, rendendosi conto di non vederci e quindi già attanagliato dal sospetto del­la cecità, si accorse d'aver perso anche le mani.


E' intitolata:


PREGHIERA
Ebbi allora il sospetto delle mani che mi pareva fossero tenute; e fui assalito da terrori insani di colpe antiche sopra me cadute.
Ripercorsi dai giorni più lontani la via delle promesse inadempiute, e senza più lusinga del domani mi dolse delle gioie non godute.
Non osavo me stesso interrogare
e feci l'atto delle mani giunte,
di quando mi segnavo per pregare:
a quel modo tentai di unir le punte
e fu lo stesso che precipitare
da un'altezza di sponde non raggiunte.

Otto mesi dopo, la notizia della disfatta di Caporetto lo raggiunse in ospedale a Firenze. Un senso di sgomento si diffuse tra le corsie. I muti­lati, che davano un senso al loro sacrificio come contributo alla vittoria italiana, per la riunifica­zione di Trento e Trieste all'Italia, si trovarono di fronte alla prospettiva vanificante della scon-fitta.Delcroix tra i vivi era quello che aveva sacrifi­cato di più. Si levò dal suo letto di angoscia a par­lare per rincuorare i compagni e scopre dentro di se quelle risorse di un eccezionale talento orato­rio, che ben presto lo fecero richiedere da ogni parte.Fu con Fulcieri Paolucci di Calboli il più appas­sionato ed efficace animatore della resistenza nel­le caserme e nei teatri d'Italia.Come i suoi fratelli alto, biondo, con gli occhi azzurri, di estremo vigore, da ragazzo era stato manesco e tornò ad esserlo nel dopoguerra, quan­do senti beffeggiare la vittoria ed i sacrifici che erano costati. A Firenze, a Campo di Marte, con il fratello Ni­cola, prima ancora che certe offese per reazione suscitassero lo squadrismo, sfasciò una bottega di barbiere dove fu accolto con il commento che si era ben meritata la perdita delle mani e degli oc­chi, perché era stato uno di quegli studenti che avevano voluto la guerra.
Mentre il fratello Nicola era alle prese a pugni coi mascalzoni, Carlo con le mani di legno andò a cercare i lumi, le vetrine, gli specchi, spaccandoli ad uno per uno.
E' un episodio di cui ho avuto notizia confiden­ziale a che qui rivelo, perché è doppiamente im­portante.Perché serve, da un lato, a conoscere il perso­naggio anche nei suoi aspetti violenti, nella sua vitalità prepotente, a non confonderlo con una specie di immaginetta lagnosa, di santino laico
disposto per il resto della vita ad interpretare la parte della vittima.
Dall'altro, perché certamente episodi di questo genere devono aver contribuito a ridargli un sen­so di sicurezza, fiducia in se stesso, nella possibi­lità appunto di poter essere ancora qualcosa di di­verso da una semplice vittima della guerra, desti­nata ad incutere solo mormorii di un compatimen­to che non sopportava, che considerava anzi tra le conseguenze peggiori della sua disgrazia.Soprattutto doveva essere molto importante per lui, a 22 anni, non sentirsi soltanto una voce, ma provare a se stesso di potere ancora contare, al di là delle orrende mutilazioni, su una propria pre­stanza fisica.Essenziale questa coscienza della propria forza anche per poter tornare ad osare e credere nell'a­more, che infatti di li a poco giunse con Cesara Rosso di San Secondo, la meravigliosa, splendida figura di donna, che egli non vide mai, così non ha mai potuto vedere i figli e i nipoti, e gli fu spo­sa e compagna di lavoro intelligente per tutta la vita.Un pò manesco continuò ad esserlo sempre, an­che da vecchio, quando, lui monarchico, in una seduta di commissione alla Camera, con un colpo ben preciso della sua mano di legno riuscì ad as­sestare un ceffone facendo cascare gli occhiali ad un collega democristiano che si ostinava a rifiuta­re le pensioni ai mutilati della Repubblica Sociale Italiana.Ricordo con quanta soddisfazione lo raccontas­se, soprattutto per la padronanza di udito che ave­va guidato lo scatto: non vedendoci e non volen­do rischiare di colpire un altro era riuscito a orien­tarsi perfettamente sulla voce dell'avversario. Quando nel primo dopoguerra riprese a parla­re rivendicando i valori della vittoria come esponente del movimento dei mutilati gli capi­tò anche di subire violenze, come a Volterra, ove fu rovesciato a forza da teppisti urlanti dal pie­distallo del monumento a Garibaldi ove egli par­lava alla folla.
A Milano a mettergli le mani addosso fu addirit­tura la polizia, che giunse a strappargli gli appa­recchi mentre cercava di impedirgli un grande co­mizio a favore di Fiume e della Dalmazia italiane.
Anche di queste violenze subite, inclino a cre­dere che egli fosse al tempo stesso arrabbiato e fe­lice.
Ma soprattutto felice perché chi gli metteva le mani addosso, superando la compassione, in fon­do lo aiutava a non rinchiudersi, a non rassegnar­si nella parte del grande invalido ed a sentirsi il più possibile vicino alla normalità.
Fu un grande organizzatore. Prese l’Associazione dei mutilati e invalidi di guerra, che vegetava in un appartamentino, e ne fece una potenza rap­presentativa durante il regime.
Certo: fu facilitato dal clima patriottico su cui il regime fascista basava la la propria investitura nazionalpopolare. Ma la gratitudine non è di questo mondo, se uno non la sa adeguatamente sollecitare, ed i mutilati hanno trovato in Delcroix un abile sindacalista, che ottenne per loro pensioni, lavoro, alloggi, as­sistenza e soprattutto il rispetto.Le vignette di George Grosz, che mostrava i mu­tilati di guerra ridotti alla mendicità nella Germa­nia di Weimar, sarebbero state inconcepibili nel­l'Italia di Carlo Delcroix.Fu eletto Consigliere comunale a Firenze nel 1920 e deputato, in rappresentanza dei mutilati, nel 1924. Dopo vent'anni di dedizione alla Asso­ciazione dei mutilati ne fu espulso per averla « as­servita al fascismo » e ne restò epurato sino alla vigilia della sua morte, per il timore che ripresen­tandosi potesse venire rieletto quasi plebiscitaria­mente alla presidenza da una base che non lo ave­va dimenticato.Analoghe qualità organizzative dimostrò lan­ciando il Maggio musicale fiorentino di cui fu fondatore e primo presidente.La musica, si pensa immediatamente, è il rifugio naturale del cieco, che la sente con più intensità, tanto che persino molti melomani preferiscono gustarsela ad occhi chiusi.
Ma Delcroix, che non si era mai completamente rassegnato a non vedere, colse l'occasione del Maggio musicale fiorentino soprattutto per rinno­varvi la regia e la scenografia, invitando grandi registi anche stranieri ad impostare la parte spet­tacolare delle manifestazioni musicali e grandi pittori, tra cui De Chirico, a disegnarne le scene.I suoi libri conobbero uno straordinario succes­so. Si trattò in parte di raccolte di discorsi, dal pri­mo « Dialoghi con la folla » del 1921, a « Il sa­crificio della parola » del 1924, a « La parola co­me azione » del 1936, sino all'ultimo « Quando c'era il Re » del 1959 ove commosse particolar­mente il ricordo dedicato al Duca d'Aosta, morto in prigionia degli inglesi, e quello della principes­sa Mafalda, morta in circostanze orrende nel cam­po di concentramento tedesco di Buchenwald.Scrisse anche dei racconti lirici in « Sette santi senza candele » del 1925, rievocazioni storiche in « Guerra di popolo » ed una biografia di Mussoli­ni intitolata « Un Uomo e un popolo ».E poesie, che continuò a limare per tutta la vita e raccolse in edizione definitiva in « Val Cordevole », pubblicato nel 1968. Anche qui il gusto della concisione: il libro è composto interamente di sonetti. E' uscito postumo (Carlo Delcroix morì dopo lunga e dolorosa malattia il 26 ottobre 1977), in edizione fuori commercio un libretto di medita­zioni religiose su un suo « Viaggio in Terrasanta » per cui aveva preparato una premessa nel 1975..Cosa potessero significare i suoi libri per i cre­denti nei valori di Dio e della Patria l'ho appreso da un caro e celebre amico, Fra Ginepro da Pompeia­na, che Marinetti nel suo « Poema africano della Divisione 28 ottobre » ha citato fra i poeti futuristi che hanno partecipato all'impresa etiopica.Come padre cappuccino Fra Ginepro aveva scel­to il saio francescano con il preciso proposito di fare il cappellano militare, servendo appunto la doppia fede di Dio e della Patria, e, nei giorni ob­bligatori di solitaria meditazione che precedono i voti, aveva chiesto una speciale dispensa per po­ter portare nella sua cella, insieme ai Vangeli, « Sette santi senza candele » di Carlo Delcroix.Queste opere sono oggi quasi completamente di­menticate, così come trascurato è il personaggio, che pure meriterebbe una monografia. In parte ciò dipende, come si è notato, dalla sorte piuttosto dispersiva dell'arte oratoria.C'è però un monumento letterario della nostra epoca, i « Cantos » di Ezra Pound, « Divina Com­media » del secolo XX, in cui Delcroix è nomina­to almeno cinque volte col cognome nei canti 88, 92, 95, 97 e 101 ed al canto 107 come « Uncle Car­lo », lo zio Carlo.  
Si conoscevano bene e Pound tornò a trovarlo nel 1959, mentre Delcroix si trovava in villeggiatura in Riviera, a San Michele di Pagana, dopo i tredici anni trascorsi a Washington in manicomio criminale: una afflizione di tipo sovietico, che gli americani fecero scontare al loro più grande poe­ta, perché nella loro presunzione non riuscirono a spiegare altrimenti che con la follia le preferenze di Pound per l'Italia fascista.Nel canto 92 della Sezione « Rock-drill » si leg­ge parzialmente in italiano:
« Io porto » sd/Delcroix
« la cecità » for I forget how many ten thousand Italians. « Two evils:
 Usury in the bank rot & theft in les soc/ anonymes. »
Grabbed his phone and called un ministro.

Nella traduzione di Mary de Rachewiltz, la fi­glia di Pound: « Io porto / la cecità » per non so / quante migliaia d'italiani, / disse Delcroix / « Due mali: / usura nelle luride banche / e furto nelle so­cietà anonime. » / Prese il telefono e chiamò un ministro.Anche da altri passi dei « Cantos » risulta l'im­portanza del rapporto intellettuale su problemi poetici,   politici   ed   economici,   tra  Delcroix   e Pound, che in « Guida alla cultura » ha scritto: « Mussolini ha detto al suo popolo che la poesia è una necessità per lo Stato, e Carlo Delcroix è con­vinto che i poeti dovrebbero « occuparsi di queste cose », cioè del credito, della natura della mone­ta, delle questioni monetarie ecc. Questi due fatti indicano uno stato di civilizzazione più elevato in Roma che in Londra o Washington ».Tali citazioni verranno sicuramente indagate e ristudiate nel Duemila.Delcroix: come era nell'intimità?Le menomazioni fisiche lo rendevano talvolta impaziente, mai avvilito e piegato.Non solo era un uomo che non si è mai arreso, ma che non ha mai recitato.Glielo avrebbe impedito, se ne avesse mai senti­ta l'inclinazione, lo spirito fiorentino, troppo cau­stico ed autocritico per permettergli di vivere in posa, di fare, come volgarmente si dice e si può immaginare, il trombone.I tre figli e gli otto nipoti, in fondo, non si rese­ro mai perfettamente conto della sua invalidità. Di eccezionale in lui avvertivamo piuttosto l'animo, l'intelligenza, che non la gravità delle menoma­zioni fisiche.Ma scherzava volentieri, si interessava di tutto ed anche l'intelligenza non la faceva pesare.Non ci sarebbe riuscito se non avesse incontra­to, con quella fortuna che è degli eroi, una donna
altrettanto eccezionale, che gli sostituì gli occhi e le mani per il resto della sua esistenza.
Vissero in simbiosi ed è impossibile ricordare l'uno senza ricordare anche la virtù italica della fi­gura bella, slanciata, elegante, che dal gennaio 1921 gli fu sempre accanto.In oltre mezzo secolo di matrimonio Cesara Del-croix non ha più mangiato un pasto caldo, perché ad ogni portata che arrivava in tavola prima im­boccava il marito.L'integrazione non fu solo fisica, fu intellettuale.Ricordo che tornando con mia moglie da un viaggio a Parigi fummo interrogati minuziosa­mente sul Louvre, che Delcroix rammentava sala per sala, avendolo visitato da cieco, ma con lei ac­canto che glielo spiegava.Per aiutarlo usava confronti con i capolavori delle gallerie fiorentine di Pitti e Palazzo Vecchio di cui Delcroix manteneva una forte impressione visiva avendole potute vedere quando era ragaz­zo. Così la moglie non solo riuscì a sostituirgli la vista tenendolo sempre perfettamente al corrente nelle letture, in questo integrata col tempo da dei segretari, ma anche in esperienze visive molto più complesse, la cui trasmissione richiedeva doti fuori del comune di intelligenza e di sensibilità.Sicché il ricordo di Carlo Delcroix, a poco più di dieci anni dalla sua morte, mi sembra non po­trebbe chiudersi più coerentemente che suggellan­dolo con la lettura di questo sonetto dedicato a sua moglie. E’ intitolato:
Cesara Rosso di San Secondo



LA PROVVIDENZA
Quando pareva che l'esausto cuore si fosse chiuso insieme alla ferita, e la malinconia dopo il dolore si fosse dei miei giorni impadronita;
quando non davo peso né valore alla impetrata grazia della vita, a me venisti intrepida d'amore e la gioia mi fu restituita.
Prima che il grido diventasse canto, e giacevo a me stesso sconosciuto, sentii che il cielo mi passava accanto:
da quel momento non ho più saputo
che fosse grave l'ombra o amaro il pianto;
e scordare si può di aver veduto.
.

                       








Carlo Delcroix due anniversari: la partenza dei Mille 

e l' Orazione di D'Annunzio per l'Intervento 

 

Trieste. Alla presenza di S. A. R. il Duca d'Aosta, l'On. Carlo Delcroix 

rievoca il sacrificio di Guglielmo Oberdan